9. Ottavo capitolo - Black

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Jenna Middleton versò l'ennesimo caffè della giornata nella tazza della ragazza seduta da due ore nella tavola calda dove lavorava da più di dieci anni, riavviandosi la treccia vaporosa che quella mattina Annie gli aveva fatto per scherzo – ma che a lei era piaciuta così tanto da sfoggiarla quasi con orgoglio.
Come quasi tutte le cose che riguardavano la sua dolcissima bambina. Sospirò, passandosi una mano sulla fronte accaldata.
"Le posso portare altro?" domandò più per routine che per altro, già stanca alle due del pomeriggio.
Aveva un maledettissimo e martellante mal di testa e nonostante avesse preso già due analgesici da quando aveva aperto gli occhi, non era cambiato un emerito cazzo. E oramai stava così male da sentirsi quasi di scoppiare.
"Ti stanno pedinando"
La ragazza alzò gli occhi bruni su di lei, seria come non mai e Jenna sobbalzò – rischiando di rovesciare tutta la caraffa del caffè sulle piastrelle bianche del « Queen's breakfast ». Sbatté ripetutamente le palpebre, sorpresa e l'ennesima fitta alla testa quasi la fece piegare in due.
"Se è uno scherzo, mi dispiace deluderla, ma non è divertente" sibilò, stringendo le labbra sottili in una linea severa e fissando lo sguardo grigio e sibilino su di lei.
Aveva già il suo bel da fare senza che qualcuno cominciasse a delirare e ormai al Queen's era diventata una cosa giornaliera; Jenna – nonostante lavorasse solo come cameriera – aveva a che fare continuamente con schizofrenici, ricoverati in una clinica a pochi passi da lì, con drogati, gattare acide e nevrotiche e quant'altro. E poi alcuni ragazzi dello staff avevano anche il coraggio di domandarle perché avesse messo il lucchetto alla porta di casa.
Fece per andarsene, lasciando quella pazza a parlare da sola, ma quella l'afferrò per un braccio – costringendola a girarsi per guardarla bene in faccia. Troppo consapevole, seria e lucida per essere una schizofrenica qualsiasi.
"Sarà meglio che tu mi molli o giuro che ti caccio fuori di qui a calci in cul..." iniziò, minacciosa, cercando di ergersi nel suo metro e settanta e farle capire che lei era cresciuta per le strade più periferiche di Hackney e non aveva paura. Per niente. E che sapeva difendersi da sola perfettamente.
"Ascoltami, Jenna!" sibilò ancora donna, che nonostante fosse magra come un chiodo aveva una forza nelle braccia così incredibile da immobilizzarla sul posto. Aveva scelto il tavolino di linoleum accanto la finestra e Jenna riusciva a vedere le persone passeggiare fuori al locale. Altre ferme, che fissavano il menu con le coroncine appeso di fianco la porta di legno con il campanello. Altre ancora così distratte da non notare il segno dei polpastrelli che andava man mano a formarsi sotto quella presa ferrea.
"Una settimana fa ti è successo qualcosa e queste persone lo sanno. Ti stanno pedinando e tu sei troppo debole per affrontarli.
Devi venire via con me" bisbigliò e Jenna non capì. Di cosa diavolo stava parlando? E cosa ne sapeva, lei, di quello che le era successo una settimana prima?
"Non dirmelo..."
Jenna si scrollò dalla presa con una nuova forza, quasi arrabbiata con se stessa. Alcune ciocche di capelli neri come l'ebano le sfiorarono la fronte alta – mentre sentiva le guance pallide quasi andare a fuoco per lo sforzo di non sbraitare come se non ci fosse un domani.
"Dì a Marcus che scopare da ubriachi non è sinonimo di « fidanzamento » e che io non ho intenzione di prolungare l'esperienza.
E che provasse anche solo a toccare mia figlia e giuro che gli stacco le palle a morsi!" ora il suo tono di voce era basso e sapeva di minaccia.
La ragazza seduta sorrise e si passò una mano tra i capelli corti e bruni, quasi come se si fosse aspettata la sua reazione.
"Non mi ha mandato Marcus né nessun altro, Jenna" sospirò e l'ennesima fitta alla testa strappò un gemito addolorato all'altra – impegnata a massaggiarsi le tempie con una smorfia.
"Non ho tempo per queste sciocchezze. Devo lavorare" le diede le spalle, intenta a mettere fine a quell'assurda conversazione e per un attimo si guardò attorno. Per un solo attimo si permise di odiare tutto quello che la circondava. Odiare il Queen's breakfast e i suoi pannelli giallo canarino, il suo pavimento lucido che ogni mattina e sera doveva lavare inginocchiata come una schiava.
Odiare Peck e il suo grembiule sporco di grasso nelle cucine che doveva strofinare in ogni momento di pausa che aveva e le ciambelle sull'altarino bianco sul bancone di legno chiaro – vecchie di una settimana o giù di lì.
Odiava i tavolini e gli sgabelli di quel fottuto linoleum e la divisa con la gonna a righe dello stesso colore del locale. Odiava le mance misere e la paga schifosa e odiava il fatto di essersi ridotta in quel modo a ventisei anni. Ventisei fottutissimi anni.
Per un solo singolo attimo si permise di odiare tutto quello, liberandosi, per poi ritornare immediatamente a bloccare i pensieri e inghiottire il fiele amaro che aveva da troppo tempo incastrato in gola.
"Hermione Granger. Io mi chiamo Hermione Granger e quando mi darai ragione, basterà che tu dica il mio nome.
Non dimenticarlo, Jenna. « Her – my – oh – nee » Granger" disse, scandendo bene il proprio nome.
Era vestita anche troppo bene per essere una schizofrenica qualsiasi, con quei jeans strappati a regola d'arte e la giacca di pelle nera sulla t-shirt del medesimo colore. Troppo seria, lucida e consapevole. Troppo coscienziosa per essere in cura alla Clinic Oaken.
"Va al diavolo!" sbottò, andandosene a passo di marcia e ignorando il brivido di paura che le corse lungo la spina dorsale.
Andava tutto bene. Le capitavano spesso quelle cose, non doveva avere paura. Lei sapeva difendersi da sola, cercò di convincersi – avvicinandosi all'ennesimo tavolo e prendendo un'altra ordinazione.
"Tutto bene, Jenna?" le sussurrò una voce all'orecchio, facendole quasi mandare all'aria il taccuino. Quasi mollò un ceffone a Louisiana, sua amica e collega – che la guardò con aria preoccupata.
"Sei pallida" borbottò, sfiorandole la fronte e strappandole un sorriso.
Louisiana era quasi la madre che non aveva mai avuto e che Jenna cercava da sempre di emulare in tutto e per tutto e le spostò gentilmente la mano, scuotendo la testa; l'aveva conosciuta appena aveva messo piede al Queen's e solo in quel preciso istante aveva capito il vero significato della parola « mamma », nonostante lei avesse già Annie.
"Sto bene" sorrise, cercando di rassicurarla.
Jenna aveva partorito a soli diciassette anni ed era andata avanti con le proprie forze – rimboccandosi le maniche e lavorando sodo per mantenere se stessa e la propria bambina.
"Tu ti stressi troppo, piccola mia" sospirò l'afroamericana, rimproverandola con i suoi grandi occhi neri e scuotendo la testa. La moltitudine di treccine rosso fuoco si mossero all'unisono e Jenna ridacchiò.
"Oltre ai soliti pazzi, va tutto bene, tranquilla" chiuse il discorso, mandandole un bacio con la punta delle dita e ritornando a lavoro.
In realtà non stava proprio bene, per niente, ma allarmare le persone solo per uno stupido mal di testa era inutile. E lei era abituata a non chiedere aiuto a nessuno – fin da piccola, quando era stata lasciata all'orfanotrofio.
Sola, sbagliata, usata e poi buttata da suo padre come uno straccio vecchio – senza nemmeno conoscere chi l'aveva messa al mondo.
Sì, lei era abituata a non chiedere aiuto a nessuno perché fin da piccola aveva preso le redini della sua vita in mano e si era presa cura di sé da sola. Come era giusto che sia.
La giornata scivolò come l'acqua lungo i larghi finestroni della tavola calda, mentre le solite azioni si ripetevano meccanicamente – sempre uguali. Sempre noiose. Sempre vuote.
Le portate, il conto, la mancia, il caffè. La glassa da mettere sulle ciambelle ammuffite, i sorrisi di circostanza e le orbite simili a grossi buchi neri. I lavelli da sgrassare, i tavoli da pulire, le pacche di Louisiana che cercavano di confortarla... ma che lei sentiva pesanti come macigni.
Quando a quindici anni era scappata dall'orfanotrofio, Jenna sognava una vita migliore... lontana dai rimproveri delle suore e dai topi che sgattaiolavano per le stanze; sognava l'affetto di qualcuno, un lavoro che le permettesse di pagarsi la scuola d'arte e un futuro diverso. Con meno dolore, meno abbandono, senza quella sensazione di non essere mai abbastanza che le attanagliava perennemente le viscere.
Jenna Middleton prima ancora del Queen's, Peck e gli schizofrenici che le facevano visita, odiava se stessa.
Odiava quei capelli neri e quegli occhi grigi che erano il ritratto sputato di suo padre, la bocca con l'archetto a forma di cuore e la mascella asimmetrica che erano la fotocopia di sua madre e soprattutto quel bisogno ancora nascosto di volerli accanto.
Di avere una famiglia felice.
"È ora di andare, Jenna"
Louisiana si sfilò il grembiulino bianco dalla divisa giallo sole e con un cenno del mento le indicò la porta – distraendola dai soliti pensieri cattivi che l'accompagnavano ad ogni giornata lavorativa.
Jenna si guardò attorno con aria sorpresa: erano le otto e doveva ancora pulire il locale, quindi non le sembrava proprio l'ora di andare.
"Ci penso io qui" specificò la donna, ancora attiva come se le lancette del grande orologio sulla destra si fossero appena posate sul dieci e non sul grande otto disegnato in grassetto.
"Non ci pensare proprio, Louisiana" sbuffò Jenna.
Non era la sola ad occuparsi di una bambina. L'afroamericana ne aveva ben cinque di figli e non era proprio giusto approfittarsi di lei – che era anche molto più grande.
"Mi ripagherai il favore domenica mattina, quando mi coprirai per il compleanno di Sean" le fece l'occhiolino e con il mento le indicò nuovamente l'uscita. Jenna le mandò il solito bacio volante con la punta delle dita e sciolse il fiocco dietro la schiena che le manteneva stretto il grembiule alla vita.
"Ci vediamo domani!" salutò a voce alta, afferrando la borsa a tracolla dietro la cassa rosso fuoco e uscendo di lì prima che il Capo facesse ritorno e cominciasse a parlare di turni extra.
Come se lavorare quattordici ore al giorno non fosse abbastanza; il Capo – o il bavoso per eccellenza, come lo aveva rinominato Louisiana – sembrava proprio non capire che tutte le persone che lavoravano al Queen's avevano una vita privata. Oltre lui, naturalmente.
Senza capelli, con quegli acquosi occhi azzurri vicini e il naso porcino, nonostante i soldi che aveva guadagnato con quel piccolo breakfast proprio non era riuscito a trovarsi una moglie o una compagna.
Chissà. Forse perché pesava cento e passa chili ed era perennemente sudato su quei rivoltati labbroni. O forse perché era così taccagno da essersi attaccato i soldi al culo.
« Sto tornando, Jessica. Sono a due passi da casa » sbuffò, quando rispose al quarto squillo del suo cellulare di vecchia generazione.
Accelerò il passo, ringraziando il cielo che avesse smesso di piovere proprio quando lei era uscita.
« Jenna! OH MIO DIO, JENNA! C'È UN UOMO IN CASA! » urlò la ragazza dall'altra parte e Jenna sobbalzò violentemente, bloccandosi proprio al centro della strada.
« Cosa stai dicendo? Che succede, Jessica?
Chi hai fatto entrare in casa? » affannò, mettendo quasi le ali ai piedi e cominciando a correre come una forsennata.
« OH MIO DIO, JENNA, AIUTAMI!
AIUTAMI, JENNA! » strillò ancora la diciassettenne, prima che cadesse la linea – lasciandola con il cuore in gola e una strana mano gelida a carezzarle la schiena.
Annie. La sua piccola Annie.
Chi, chi poteva essere entrato in casa? Un ladro? Un maniaco che aveva seguito Jessica fino e casa sua e aveva aspettato il calar del sole per entrare in casa? O... o quella donna, che l'aveva avvertita al Queen's?
Jenna non aveva mai corso così veloce in vita sua, mai e quando arrivò alla palazzina diroccata alle spalle della piazzetta principale di Hackney si precipitò all'interno senza pensarci due volte. Senza nemmeno pensare anche lontanamente di chiamare la polizia – troppo impegnata a cercare di respingere i pensieri cattivi che la stavano assalendo. Che la stavano uccidendo insieme all'affanno di quella corsa senza fine.
Gli scalini le parvero insormontabili e il cuore oramai sembrava volerle scoppiare contro lo sterno, piegandola quasi ad ogni passo. Ad ogni ansimo. Ad ogni figura che la sua mente proiettava all'infinito davanti ai suoi occhi della sua Annie riversa al suolo.
"JESSICA, ANNIE!" urlò, spalancando la porta quasi scardinata.
Si bloccò, impietrita e nuovamente quel brivido gelido le accarezzò la schiena – come se la morte si fosse smaterializzata al suo fianco e la stesse spingendo verso la sua camera da letto.
Nessuno rispose al suo richiamo e Jenna avanzò lentamente, fissando bianca come un cencio le manate insanguinate sul parato aranciato.
"Annie..." singhiozzò ancora, seguendo quella che sembrava la scia di un corpo sanguinante trascinato lungo il parquet di legno chiaro.
I quadri erano stati fatti a pezzi e le sedie attorno il tavolo rotondo rovesciate. I disegni di Annie attaccati al frigo erano stati fatti a pezzi e le ante di acciaio quasi strappate dal grosso immobile.
Annie. La sua piccola Annie.
"Sei arrivata finalmente" ridacchiò una voce quando arrivò sulla soglia della sua piccola stanza – che a malapena conteneva il letto a due piazze di ferro battuto e l'armadio di cedro scuro a tre ante.
Jenna sbarrò gli occhi grigi quando vide Jessica riversa ai suoi piedi con la gola completamente squarciata e un'altra donna seduta sulla sua coperta decorata con fiori d'arancio. Sporca di sangue.
"Ti stavo aspettando, Jenna" sorrise la donna, con i capelli biondo sporco legati in una crocchia morbida e gli occhi nocciola dal taglio orientale coperti da un paio di occhiali dalla montatura spessa.
"Chi sei?" sussurrò Jenna, guardandosi disperatamente attorno alla ricerca della sua bambina.
"E dov'è mia figlia?" chiese ancora, mentre l'altra sorrideva gentilmente – accavallando le gambe coperte da un pantalone di jeans nero.
Aveva una stampella poggiata contro il letto e una gamba e un braccio fasciati – come se fosse caduta dalle scale o una cosa del genere.
"Zaccaria?" chiamò la donna e Jenna sentì uno spostamento d'aria alle spalle: non fece in tempo a girarsi che un ragazzo sembrò materializzarsi davanti ai suoi occhi, con Annie svenuta tra le braccia.
"ANNIE!" strillò – cercando di buttarsi su quel grandissimo figlio di puttana e togliergli sua figlia dalle braccia.
Il suo bellissimo angelo dai lunghi capelli biondi e gli occhioni grigi.
Il grandissimo dono che Dio aveva deciso di farle – salvandole la vita, l'anima, il cuore.
Sì. Dio aveva tolto a Jenna prima sua madre, poi suo padre ed infine David, l'unico uomo che avesse mai amato veramente nella sua misera esistenza, ma le aveva dato Annie.
Annie, che aveva i capelli di quel ragazzo in giacca e cravatta che le aveva salvato la vita – rapendola dalla strada e portandola in quel mondo dorato che era stato la sua casa per un lunghissimo e felicissimo anno.
Poi Jenna aveva scoperto di essere incinta ed era stata cacciata di casa, perché a detta di David e sua madre lui non poteva avere bambini. Era sempre stato sterile.
"Se stai buona e fai quello che ti dico, al tuo bellissimo angioletto non succederà nulla" cercò di rassicurarla la donna, che però con quelle labbra sottili tese in un sorriso subdolo non fece che accrescerle il senso di malessere. Un malessere che da quella mattina stava cercando di sotterrarla.
Jenna si aggrappò contro lo stipite della porta e socchiuse gli occhi, nella mente stampata la faccia della ragazza che l'aveva bloccata quella mattina.
Immaginò per bene quei corti capelli bruni e quei grandi occhi sinceri, mentre il corpicino di Annie tra le braccia di quel ragazzo dal volto scheletrico quasi la faceva impazzire.
"Hermione Granger" sussurrò, cercando di scandire bene quel nome.
Forse era impazzita. Probabilmente era stata quella ragazza a mandare quei due a casa sua – ma se invocare il suo nome sarebbe servito a salvare il suo dono, allora lo avrebbe urlato a pieni polmoni.
"Cosa diavolo stai dicendo?" la schernì la donna, facendo un cenno con il mento al ragazzo, che affondo le unghia lunghe come pugnali nella spalla della sua bambina. Annie, nel sonno in cui era sprofondata, gemette addolorata.
"HER – MY – OH – NEE!" urlò con quanto fiato avesse in gola, stringendo i pugni.
No. Jenna aveva assistito impotente a tutti i fallimenti della sua vita – anche a quelli che non dipendevano da lei stessa – inerme, debole, vittima, ma quella volta non avrebbe permesso al destino, a Dio, Buddha, Allah o Merlino di prendersi sua figlia.
Quella volta Jenna non sarebbe stata con le mani in mano a guardare la sua vita andare in pezzi ancora una volta, disintegrandola. Uccidendola. Annullandola.
No. Quella volta no.
"Ho sentito qualcuno pronunciare il mio nome"
E... Jenna non seppe come, ma la ragazza di quella mattina si materializzò proprio davanti a lei – solo con i capelli leggermente più sconvolti e una sottoveste di raso nera che le copriva a malapena le natiche.
"TU!" ringhiò quel Zaccaria, guardandola come se fosse Satana in persona o una cosa del genere. Quello che aveva due canini lunghi trenta centimetri ciascuno, però, era lui.
"Sapete... a me sta proprio sulle palle usare questi trucchetti da cialtrone Babbano, ma non potevo mica stare appostata fuori al Queen's ad aspettare che voi hijos de puta vi decideste a fare la prima mossa!" sbuffò Hermione, buttando un'occhiata veloce al corpo di Jessica senza vita.
"Cosa ci fai tu qui?" sibilò la Stewart, che suo malgrado aveva dimenticato chi le aveva spezzato le dita, il braccio e la gamba.
"Margie, Margie, Margie..." sospirò Hermione, scuotendo il capo come se stesse rimproverando una bambina di cinque anni.
"Tu sai, vero, che lei mi appartiene?"
E prese fuoco. Le mani, le gambe, le sue braccia s'incendiarono come se cosparsi di benzina e Jenna cadde all'indietro – sconvolta.
"E che a me non piace giocare, Margie. Specie se si tratta del sangue del mio sangue!" e sembrava davvero arrabbiata, tanto che con un gesto del braccio mandò all'aria Zaccaria – come se questo fosse stato colpito da una violenta folata di vento. Annie cadde sulla moquette senza un solo graffio e Jenna arrancò in ginocchio fino a raggiungerla.
Strinse quel corpicino tra le braccia, quasi piangendo nel sentirla calda contro il suo petto. La cullò, mentre quella ragazza guardava l'altra donna come se volesse ucciderla.
Come se fosse capace di... di ucciderla.
"Non puoi salvare tutte le tue consorelle, Granger. In special modo se sono Babbane" sbottò Margaret, stringendo la stampella così forte tra le dita da farle diventare cianotiche.
"Ti ho salvato la vita troppe volte, Stewart, ma tu sei una mina vagante... e non posso lasciarti ancora in giro a fare disastri.
Sei troppo pericolosa e tu lo sai, Margie, gli animali pericolosi vanno abbattuti" ora la voce di Hermione Granger era una lastra di gelido ghiaccio e tutti, nella stanza, nonostante il fuoco che lei continuava a divampare, rabbrividirono.
Jenna Middleton nella sua misera e insignificante vita aveva visto di tutto. Aveva vissuto tra spacciatori, drogati, ladri, assassini... ma quello che successe in quella stanza, quel giorno, con la sua bambina semi svenuta tra le braccia, fu qualcosa di magnificamente inconcepibile. Impossibile.
"Oh santissimo cielo" sussurrò, spalancando la bocca nel guardare il corpo di quella ragazza prendere completamente fuoco e – quando alzò con uno scatto le braccia verso Margaret, come aveva chiamato l'altra donna – dirigerlo ferocemente e velocemente in quella direzione.
Hermione Granger e le fiamme erano tutt'uno, come se uno fosse parte dell'altro. Come se – senza nemmeno emettere fiato – fosse normale fargli da padrone; come se quelle lingue infuocate fossero solo un eccezionale allungamento dei suoi arti.
"Shhh"
Due braccia dure come l'acciaio la strinsero in un abbraccio avvelenato e Jenna guardò la sua bambina stringersi in modo convulso al suo petto: se quell'uomo avesse rafforzato la presa, la testa di Annie si sarebbe rotta come una noce di cocco.
Ormai aveva capito che quella Hermione e lo stesso Zaccaria non erano ordinari, usuali, comuni; avevano qualcosa – qualcosa di completamente diverso tra loro – che la spaventava ed eccitava nello stesso momento.
"Non preoccuparti, principessa, tu ci servi viva. Margaret era solo una pedina – un insetto da essere schiacciato. Ha rivelato troppi dei nostri piani e anche se la piccola fiammiferaia le ha cancellato la memoria, dovrebbe sapere che noi sappiamo tutto. Tutto" bisbigliò Zaccaria, accarezzandole con i canini il lobo dell'orecchio.
Jenna affannò.
"Non farà male, principessa. Sentirai solo una piccola puntura e la spiacevole sensazione di non poterti più muovere" continuò, prima di ruotarle violentemente il busto e affondare i denti nel suo petto.
Jenna sentì distintamente dei pugnali squarciarle la carne, le vene, quasi trapassarle le ossa per impiantarsi dritti nel cuore... mentre qualcosa di gelido – simile al ghiaccio – cominciò a pompare insieme al sangue.
"NO!" Jenna, prima di cadere in uno stato di trance, sentì quell'urlo riempire la stanza insieme al crepitio delle fiamme. Il gelo le riempì le vene, la testa – adombrandole la vista, tappandole le orecchie e il ritmo irregolare del cuore.
Il calore l'avvolse troppo tardi, in una leggera ventata, e prima di addormentarsi il suo ultimo pensiero andò a Annie.
Al fatto che ora fosse sola come lo era stata lei, ma con un destino molto più grande ad attenderla.
Un destino che si chiamava Hermione Granger.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jun 28, 2016 ⏰

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