Scoperta

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Sono passati circa due minuti da quando ho ripreso conoscenza, ma non mi è chiaro cosa ci faccio qui, a fissare nel vuoto, dalla finestra di questa vecchia acciaieria abbandonata. E’ notte fonda, ma non so che ore sono, ho perso ogni cognizione del tempo.

So di essere sola. Non c’è niente, a parte un cadavere che giace sul pavimento, proprio dietro di me.

La stanza nella quale mi trovo non è molto grande, non quanto gli enormi piazzali che sono giù, al piano terra. Probabilmente, quando la fabbrica aveva conosciuto il suo massimo splendore, questo doveva essere un ufficio.

Sfidando il buio di quel posto, mi avvicino a quel povero corpo senza vita. E’ una ragazza sui vent’anni, è ridotta proprio male: reca u taglio molto profondo allo stomaco. Scorgo la sua carne, le ferite grondano ancora sangue, per quanto ormai raggrumato. Deve essere morta da poco. Oso guardarla in volto, e noto che il suo viso, pallido e liscio, è sfregiato da un taglio alla guancia sinistra, dal quale esce un rivolo di sangue ormai secco. I miei occhi finalmente incontrano i suoi. Sono aperti, mi fissano, nonostante non abbiano più nulla da fissare. Mi soffermo sulle sue labbra, ma la mia spavalderia crolla, e mi allontano immediatamente da quella visione. Che cazzo aveva da sorridere, quella, un attimo prima di morire?

Per trattenere un conato di vomito, avvicino entrambe le mani alla mia bocca, ma le sento strane, il mio naso avverte un odore molto forte, e come se non bastasse, la mia mano destra non è libera: sta stringendo un pugnale: presa dallo sgomento trasalisco e lo lancio via inorridita. Guardo poi le mie mani: sono macchiate di sangue. Abbassando gli occhi, un’altra enorme macchia dello stesso tipo imbratta la mia camicetta rosa, all’altezza dello stomaco. Comincio a tremare, vorrei lanciare un grido, ma non ci riesco. La domanda di poco prima torna a farsi strada nella mia mente in modo più violento, seguita da tante altre non meno bastarde: cosa ci faccio qui? Cosa ho fatto?

Perché non mi ricordo nulla?

Perché mi ritrovo davanti una ragazza morta ammazzata mentre ho un pugnale tra le mani imbrattato di sangue?

I miei interrogativi non trovano tempo per una risposta, perchè vengo attratta da delle luci blu intermittenti che noto sulle pareti della stanza. Provengono dall’esterno. Adagio mi avvicino alla finestra, e vedo una volante della polizia. A breve distanza, un’altra volante si fa strada nell’immensa distesa d’erbacce che circonda l’intero edificio, raggiungendo la prima.

Sento anche dei passi: è meglio che mi allontani. Non so niente di questa situazione del cazzo! Qualcuno deve avermi incastrata! Avranno ucciso quella povera ragazza e mi avranno drogato o qualcosa del genere. A stento vengo qui da sola a riflettere quando tutto mi va di merda, ma non ci ho mai incontrato nessuno, né mai mi ci sono fatta accompagnare da qualcuno. La famiglia e gli amici mi hanno sempre giudicata strana, figuriamoci un po’ se dovessi dire in giro di avere l’abitudine di andare in un capannone abbandonato in piena notte, per di più da sola.

Quando sento i passi farsi più vicini, cerco di lasciare la sala. Attraverso un lungo corridoio che trovo alla mia destra: esso da accesso ad altri uffici. Da lì poi dovrei scendere le scale, ma torno subito indietro, percorrendolo dall’altra parte appena noto le luci delle torce che si dirigono proprio dalla mia parte. Oddio! La polizia è già salita fin qui! Corro come una lepre braccata dai cani da caccia, alla ricerca di un nascondiglio che possa salvarmi. Quando vedo un’uscita d’emergenza aumento la velocità della mia corsa, e appena raggiunta, senza pensarci troppo, spingo con un po’ di sforzo l’enorme maniglia: so che dall’altra parte troverò le scale esterne che mi condurranno dritta verso la salvezza.

Ogni mia euforica speranza viene però bloccata dalle luci di altre torce: altri poliziotti stanno salendo quelle scale, e mi troveranno. Sono in trappola, la cosa più logica da fare è arrendersi. Tuttavia, un ultimo disperato tentativo mi ferma dal consegnarmi con le mani in alto e dire: “Sono qui, prendetemi! Ma sappiate che non ho fatto niente”. C’è un ripostiglio, un insignificante ripostiglio proprio alla mia sinistra, che riaccende un ultimo, fievole, barlume di speranza, l’unica piccola luce, l’unico “forse” in un mare di disperata certezza.

Mi infilo in quel buco senza neanche chiudere completamente la porta: ho troppa paura del rumore che posso provocare con lo scatto della serratura o il cigolio della porta.

Le luci dal corridoio si fanno sempre più forti, sempre più vicine. Anche l’uscita di sicurezza si apre, e una torcia illumina proprio lo stanzino nel quale ho riposto le mie speranze. Sento i lenti passi degli uomini, scorgo le loro sagome al buio, ma non riesco a vederli in volto, e nemmeno oso soddisfare questa curiosità: non posso espormi per nessuna ragione al mondo!

Mi faccio sempre più indietro, mi abbasso lentamente, con la voglia di diventare un tutt’uno con l’angolo nel quale mi rannicchio. A quanto sembra, questo tentativo si rivela presto inutile: una torcia sta illuminando proprio il mio provvidenziale ripostiglio. Penso: “Stupida ragazzina, cosa speravi di ottenere con questa cazzata?” Mentre continuo con questi autorimproveri, intravedo qualcuno dietro la torcia, che sta guardando nella mia direzione. La luce mi impedisce di vederne i tratti: a stento intuisco la sua divisa. Mi sembra di vedere un fantasma. E’ la fine. Il tempo di dirigere la torcia su di me e di mettere a fuoco, poi mi intimerà di venire fuori lentamente. Mi tengo pronta per alzare le mani e uscire, quando d’improvviso una voce da fuori dice seccamente: « E’ qui! L’abbiamo trovata! »

Immediatamente, il fantasma in uniforme distoglie la sua torcia da me, andando via. Insieme a lui, altri tre lo seguono, in una specie di processione di torce, e raggiungono altri agenti che si trovano nella stanza dove c’è il cadavere. “L’abbiamo trovata”…forse sanno di chi si tratta. Qualcuno deve averne denunciato la scomparsa. Nel giro di pochi istanti il corridoio si fa vuoto. Dal luogo del delitto inizia un brusio di voci, di flash, di ordini. Le attenzioni di tutti sono concentrati su quel corpo privo di vita. Non sembrano ancora curarsi di cercare l’assassino.

Meglio per te, Sara! Pensa a uscire da quel fottuto buco e a salvarti!

Un po’ stordita dalla luce che mi è stata puntata addosso poco fa, cerco di rialzarmi, e in punta di piedi vado verso la porta, la apro lentamente nel tentativo di non causare un pericoloso cigolio. Una volta fuori, sempre silenziosamente, vado verso l’uscita di sicurezza.

Un’ultima, malsana curiosità mi fa prestare attenzione ad una delle tante frasi che i poliziotti si scambiano con noncuranza:

« Sapevamo che avrebbe fatto questa fine, casi come questo non lasciano molte speranze… ».

Quella frase, non so perché, mi ha messo i brividi. Poi un grido. Un solo, dannato grido che con violenza irrompe nelle mie orecchie, facendomi vibrare la testa, percorre tutto il mio corpo, raggiunge il mio stomaco, che in quel momento comincia a bruciare come se fosse in una camera ardente, stretto da una morsa che mi blocca persino il respiro. Tento di reprimere una bestemmia mentre mi piego in due sul pavimento, con le mani sulle orecchie: niente da fare, il suono spettrale non attutisce per niente. Dopo alcuni istanti, che mi sembrano un’eternità, il grido cessa. Mi ritrovo inginocchiata a terra, con le mani ancora sulle mie orecchie. Mi rialzo lentamente, e mi volto indietro: i poliziotti continuano a parlare, a fotografare, a bofonchiare ordini, nessuno ha prestato ascolto a questo grido. Eppure era talmente forte da squarciarmi i timpani: possibile che io sia stata l’unica a sentirlo?

Devo tuttavia zittire questo dubbio, perché mi sembra di udire qualcuno che sta per uscire da quella macabra stanza. Corro di nuovo verso l’uscita di sicurezza, l’apro senza far rumore e scendo di corsa le scale, rischiando di cadere più volte. Le gambe mi tremano, faccio ancora fatica a riprendermi da ciò che ho visto e sentito poco prima. E’ proprio vero che la paura gioca brutti scherzi, specie se come valido complice ha il buio.

Nel giro di mezzo minuto sono fuori. Per fortuna non vedo altre volanti, le uniche presenti sono parcheggiate all’entrata principale. Comincio a correre, facendomi strada tra la zizzania e le erbacce di quell’enorme distesa di terra. Nel proseguire la corsa, cerco di abbassarmi: non voglio che mi scoprano proprio adesso che sono fuori.

Vado avanti finché quell’ enorme capannone diventa una scatoletta grigia all’orizzonte. Ormai non si vedono più neanche le auto della polizia, non fosse per le luci delle sirene, anche quelle quasi impercettibili.

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