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LISA

Da troppo, troppo tempo la porta di mio figlio restava chiusa; da troppo tempo Andy ci aveva tagliato fuori dalla sua vita.
Non avevo più intenzione di starmene con le mani in mano, ero sua madre, non mi sarei più fermata di fronte a una porta chiusa.
Mi avvicinai decisa e con mano tremante infilai la chiave nella toppa; infine, girai.
Il soggiorno, immerso nella tenue luce del mattino, appariva diverso e rifletteva alla perfezione lo stato d'animo di Andrew: non si trattava di veri e propri cambiamenti; era mutata l'atmosfera, anche nello splendore del giorno che nasceva, tutto appariva più cupo, più triste.

"Andrew?" chiamai con un filo di voce. "Andy?" chiamai ancora non ottenendo risposta.

Per quanto volessi ignorarla, la paura di un suo rifiuto mi atterriva. La guerra, in meno di un anno, aveva cambiato il ragazzo solare e gioioso che era partito, in un uomo silenzioso e triste; la cosa che non comprendevo fino in fondo erano le ragioni che lo spingevano a rifiutarsi di condividere la sua sofferenza con noi. Eppure fino a pochi mesi prima, le sue telefonate erano ancora serene, eravamo la sua ancora, il suo porto sicuro.
Un gemito sommesso e angosciato proveniente dalla stanza da letto di mio figlio mi diede la spinta per andare avanti.
Guardai Steven, il suo volto sembrava meno preoccupato del mio, lui sapeva sicuramente qualcosa in più della misteriosa ospite di nostro figlio. Esitai solo un istante, prima di entrare nella stanza più intima e privata della casa.

Cosa mi sarei trovata di fronte?
Andrew non avrebbe mai volutamente fatto del male a qualcuno vero?

Entrai.

Mio figlio sedeva a terra, gli occhi sbarrati e sofferenti non incontrarono i miei, era come se non ci fossi; fissava il letto, dove una piccola figura di donna, era rannicchiata in posizione fetale, la coperta di lana ad avvolgerle il corpo innaturalmente magro.

"Che cosa succede?" Esordii, avvicinandomi a mio figlio.
Silenzio, un silenzio strano, un silenzio doloroso. Per me, per lui.
Non mi arresi, Andy aveva bisogno di aiuto; che lo volesse o no, e io non mi sarei tirata indietro, non l'avrei abbandonato a sé stesso.
"Chi è la ragazza?" Chiesi ancora.

Non rispose, pallido e smunto sembrava soffrisse molto; una mano stretta sulla spalla, quasi a lenirne il dolore, probabilmente il tonfo era quello del suo corpo che cadeva a terra.

"Stai bene? Ti sei fatto male?" L'ultima domanda sembrò riscuoterlo dal suo allibito torpore.

"Mamma, cosa ci fai qui?" il suo tono aveva perso la nota astiosa che l'aveva caratterizzata nelle settimane precedenti: sembrava invece sorpreso. Gli feci una leggera carezza scompigliandogli i capelli.

"Allora, mi dici come stai?" continuai, nel mio tono più deciso.
Sperai che mi rispondesse, che parlasse con me, che non si ostinasse nel suo silenzio così carico di dolore.
Andrew non rispose, sembrava tornato il ragazzino testardo che era stato durante l'adolescenza. La ragazza ci fissò, stringendosi ancora di più la coperta attorno al corpo. Aveva paura, di questo ero certa, ma sperai che se avessi usato le giuste parole, forse lei mi avrebbe parlato.

"Mi chiamo Lisa Jones, sono la madre di Andrew, puoi dirmi il tuo nome?" Parlai con calma scandendo bene le parole, usai un tono dolce, e tranquillizzante.

Non sapevo cosa aspettarmi.

La ragazza alzò su di me i suoi occhi; erano grandi, tristi, spaventati e pieni di lacrime.
Il suo volto, una tragica maschera di dolore, in altre condizioni, sarebbe probabilmente stato molto bello e dolce, ma ora, così alterato dai lividi, era impossibile esserne sicuri. Un occhio, pesto e gonfio deformava il suo profilo, il labbro superiore, spaccato da un lungo taglio, le impediva di parlare correntemente.
Mi sentii stringere il cuore a quella vista, mai nella mia vita mi sarei aspettata di dover vedere una donna ridotta in quelle condizioni.

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