breathe no more

188 16 51
                                    


ANDREW

La carezza di mia madre, lo sguardo di mio padre mi lasciarono a pezzi; avevo bisogno del loro appoggio, ma non riuscivo a chiedere aiuto. Per orgoglio, perché non volevo essere compatito, o forse per la paura che la verità li avrebbe distrutti.
Non avevo reagito bene alla loro intromissione, non ero ancora pronto ad accoglierli nella mia nuova vita. Significava tornare lentamente alla normalità, ma la mia normalità era un'altra. Non ero più lo stesso uomo e vedere mia madre trattare Emma con tanta dolcezza, senza farle domande, senza pretendere nulla, ma solo offrendo il suo aiuto, mi aveva fatto sentire solo.
Mi era mancata la sua presenza, avrei voluto potermi appoggiare sul suo petto e sfogare tutta la mia frustrazione.

E allora perché rifiutavo il suo aiuto?

Contraddizioni, dubbi, incertezze, di queste cose era fatta la mia nuova esistenza.
E lei, lei rispettando il mio bisogno di solitudine, mi aveva quasi ignorato. Non una parola, solo un piccolo accenno al fatto che stessi male, non una forzatura per farmi raccontare l'accaduto, nulla, a parte quella piccola distratta carezza.

NO, non stavo pensando lucidamente!

Rifletti Andy, non lasciarti prendere dalla paranoia, mi ripetei mentalmente.
Dovevo essere forte, osservare con lucidità e concretezza la realtà attorno a me.
Stavo così male, mi sentivo così dolorosamente solo; mai come in questo momento, messo di fronte ad una sofferenza grande quanto la mia, mi rendevo conto di come fosse necessario avere accanto qualcuno.

Il mio pensiero corse da lei, ai suoi occhi che mi avevano fissato, grandi e lucidi, per un piccolo istante. Un istante in cui il mio cuore aveva accelerato i suoi battiti; e a me, che avevo ricambiato il suo sguardo alzando appena gli occhi, quasi con timidezza, sentendomi segretamente in colpa nei confronti della donna che avevo amato più della mia vita.

Guardai Emma, era nuovamente rannicchiata nella sua coperta, m'ignorava.
Ora che mia madre aveva lasciato la stanza tutto era cambiato, evitava i miei occhi, si rinchiudeva nel guscio protettivo del suo corpo; ero un uomo del resto, un mostro, proprio come coloro che le avevano fatto del male.
La guardai ancora un istante, i polsi non sanguinavano più, il flusso si era arrestato quasi subito, avrei dovuto prenderle le mani e controllarle le ferite, ma sapevo che non me lo avrebbe permesso, non senza mia madre presente.
Mi allontanai allora, non mi sentivo per niente bene, lo stomaco stretto in una morsa, la spalla ferita pulsante e dolente.
Mi diressi in bagno aprendo la scatola dei medicinali che avevo accuratamente nascosto; la tentazione di alleviare il mio dolore era così prepotente, così intensa.

Mi guardai allo specchio, il mio viso era pallido di sofferenza, ma lo sapevo, non potevo, non dovevo ricorrere ancora una volta agli antidolorifici; mi stordivano m'indebolivano.
L'avevo fatto per troppo tempo. Ero un medico, sapevo che l'abbandonarsi ad un nuovo, chimico torpore, nelle mie condizioni psicologiche, avrebbe significato rischiare di cadere nuovamente nella dipendenza, ma Dio, la tentazione era ammaliante come il canto di una sirena.
Dovevo essere forte, resistere, stringere i denti, proprio come i miei piccoli pazienti nell'ospedale da campo.

Inghiottii una pillola; non ero così forte.

****

Il salone ora era inondato della dolce luce del mattino, il mio pianoforte era lì; non l'avevo più toccato dal mio ritorno definitivo dall'Iraq, da quando Jasmine era stata uccisa e io ero rimasto in vita.
Non riuscivo più a suonare, il mio spirito era spento, cristallizzato in una morsa di ghiaccio che congelava ogni mia sensazione.
Ora però ne avevo bisogno, avevo bisogno di ciò che la musica poteva dire al posto mio.
Mi avvicinai, titubante.
Non le avevo mai detto di saper suonare, non ne avevo avuto il tempo.

Damaged SoulsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora