Perdita di fiato

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Oh, non respirare...
MOORE, Canti

Anche la sorte più ostinatamente avversa deve, alla fine, cedere di fronte all'iducibile coraggio della filosofia, come la più inespugnabile fortezza davanti alla vigilanza interrotta del nemico. Salmanassar, come si legge nelle sacre scritture, strinse per tre anni d'assedio Samaria, che infine cadde. Sardanapalo (vedi Diodoro) resistette per ben sette anni a Ninive, ma invano. Troia cadde allo spirare del secondo lustro; e Azoto, secondo quanto afferma Aristeo sul suo onore di gentiluomo, aprì infine le porte a Psammetico, dopo avergliele precluse per un quinto di secolo.

<<Carogna!... strega!... megera!...>>, dissi a mia moglie il mattino dopo il nostro matrimonio. <<Tu strega!... vecchia arpia!... sfacciata!... abisso di iniquità! mostruosa quintessenza di tutto ciò che è abominevole! tu... tu...>> e qui, levandomi in punta di piedi, afferrandola alla gola, e accostendo la bocca al suo orecchio, mi preparavo a scagliare un nuovo e più decisivo epiteto di obbrobrio che non avrebbe potuto mancare, se lanciato, di convincerla della sua nullità, quando, con mio estremo orrore e stupore, mi accorsi che avevo perso il fiato.
Le frasi: <<Sono rimasto senza fiato>>, <<mi manca il fiato>>, ecc. ricorrono abbastanza spesso nella conversazione ordinaria; ma non avevo mai pensato che quel terribile incidente di cui parlo potesse verificarsi bona fide e nella realtà! Immaginate - se siete dotati di fantasia - immaginate, dico, la mia meraviglia, la mia costernazione, la mia disperazione!
C'è, tuttavia, un buon genio che non mi ha mai abbandonato del tutto.
Nei momenti più incontrollabili, conservo ancora un certo senso delle convenienze, et le chemin des passions me conduit - come Lord Edoardo dice di sé in Julie - à la philosophie veritable.
Sebbene dapprima non potessi accertare fino a che punto l'incidente mi avesse colpito, decisi per ogni evenienza di tenere nascosta a mia moglie la cosa, fino a quando una ulteriore esperienza non mi avesse rivelato la portata della mia inaudita calamità. Modificando dunque, in un momento, la mia fisionomia dall'aspetto ansante e scomposto in un'espressione di maliziosa e civettuola benevolenza, diedi a mia moglie un buffetto su una guancia e un bacio sull'altra e, senza pronunciare una sola parola (dannazione! non potevo), la lasciai stupefatta per la mia bizzarria, mentre piroettavo fuori dalla stanza in un pas de zéphir.
Immaginatemi dunque, nascosto al sicuro del mio boudoir privato, spaventoso esempio delle cattive conseguenze dell'irascibilità: vivo, con le caratteristiche di un morto - morto, con tutte le inclinazioni di un vivo - un'anomalia sulla faccia della terra - calmissimo ma senza fiato.
Sì! Senza fiato. Sono serio quando affermo che il mio fiato se n'era completamente andato. Non avrei potuto per mezzo suo spostare una piuma, anche se ne fosse dipesa la mia vita, né appannare la lucentezza di uno specchio. Duro destino! C'è tuttavia qualche sollievo al primo opprimente parossismo di dolore. Mi avvidi, alla prova, che le mie capacità di articolazione che, data la mia impossibilità a procedere nella conversazione con mia moglie, avevo concluso fossero totalmente distrutte, erano in realtà solo parzialmente impedite, e mi accorsi che se, al momento di quella interessante crisi, avessi abbassato la voce fino a un profondo tono gutturale, avrei potuto continuare a esprimerle i miei sentimenti; questo tono di voce (il gutturale) dipendeva, scoprii, non dalla corrente del respiro, ma da una certa azione spasmodica dei muscoli della gola.
Lasciatomi cadere su una sedia, restai per qualche tempo assorto in meditazione.
Le mie riflessioni, non erano di tipo consolatorio. Un migliaio di vaghe e lacrimevoli fantasie si impadronirono della mia anima - e persino l'idea del suicidio mi attraversò la mente; ma è caratteristico della perversità dell'umana natura respingere ciò che è ovvio e a portata di mano per ciò che è remoto ed equivoco. Così mi sentii raccapricciare di fronte al suicidio come alla più definitiva delle atrocità, mentre il mio gatto soriano faceva gagliarmente le fusa sul tappeto e il mio cane da caccia ansava ritmicamente sotto il tavolo; entrambi attribuendosi un gran merito per la forza dei propri polmoni, e ovviamente facendosi beffe dell'incapacità dei miei.
Oppresso da un tumulto di speranze vaghe e vaghi timori, alla fine udii i passi di mia moglie che scendeva le scale. Ora, rassicurato sulla sua assenza, tornai con il cuore palpitante sulla scena della mia sventura.
Chiusa accuratamente la porta dal di dentro, cominciai a svolgere energiche ricerche. Era possibile, pensavo, che nascosto in qualche angolo oscuro o celato in qualche armadio o cassetto, si trovasse l'oggetto smarrito della mia indagine. Poteva avere l'aspetto di vapore, o anche una forma tangibile. Nella maggioranza i filosofi, sono ancora tutt'altro che filosofi su molti punti della filosofia. William Godwin, tuttavia, dice nel suo Mandeville che <<le cose invisibili sono la sola realtà>>, e questo, tutti ne converranno, è un esempio calzante. Vorrei che il lettore giudizioso esitasse prima di accusare tali osservazioni di eccessiva dose di assurdità. Anassagora, come si ricorderà, sosteneva che la neve è nera, e mi è in seguito capitato di constatare che era proprio così.
Continuai la ricerca a lungo e con scrupolo: ma la miserevole ricompensa di tutta la mia attività e perseveranza non fu altro che una dentiera, un paio di fianchi posticci, un occhio e un certo numero di billets-doux del signor Windenough(1) a mia moglie. Qui vorrei anche osservare che questo conferma della predilezione della mia signora per il signor W. mi turbò ben poco. Che la signora Lackobreath(2) dovesse ammirare una persona tanto differente da me, era un male naturale e necessario. Sono, come è noto, di aspetto robusto e corpulento, e allo stesso tempo alquanto basso di statura. Quale meraviglia allora, che l'esilità del mio conoscente magro come un chiodo e la sua altezza, che è divenuta proverbiale, avessero incontrato tutta la dovuta stima agli occhi della signora Lackobreath. Ma torniamo al punto.
I miei sforzi, come ho detto prima, risultarono vani. Armadio dopo armadio, cassetto dopo cassetto, angolo dopo angolo furono ispezionati senza risultato. A un certo punto, tuttavia, mi credetti sicuro della ricompensa, avendo, nel rovistare in un cestello da lavoro, rotto accidentalmente una bottiglia d'Olio degli Arcangeli di Grandjean - che mi prendo la libertà di raccomandarvi per il suo gradevole profumo.
Col cuore pesante tornai nel mio boudoir, per meditare su qualche metodo adatto a eludere la perspicacia di mia moglie fino a quando avessi potuto sitemare le mie cose, prima di abbandonare il paese, poiché avevo già preso questa decisione. In un paese straniero, sconosciuto, avrei potuto, con qualche probabilità di successo cercare di nascondere la mia sventurata calamità - una calamità fatta apposta, più ancora della mendicità, per alienare le simpatie della gente e attirare sullo sciagurato la meritatissima indignazione dei virtuosi e dei felici.
Non esitai a lungo. Con mia naturale prontezza, imparai a memoria l'intera tragedia di Matamora. Ebbi la fortuna di ricordarmi che nella recitazione di questo dramma, o almeno di quella parte che è assegnata all'eroe, i toni di voce dei quali mi trovavo sprovvisto erano perfettamente inutili, e che ci si aspettava che i suoni gutturali profondi vi dominassero monotonamente dal principio alla fine.
Mi esercitai per qualche tempo lungo le rive di uno stagno molto frequentato, ma senza ripetere l'analogo procedimento di Demostene, bensì secondo un progetto tutto scrupolosamente mio personale. Armato così di tutto punto, decisi di dare a credere a mia moglie di essere improvvisamente colpito da una passione per la scena. Per questo il successo fu veramente miracoloso: ad ogni domanda o insinuazione mi trovai libero di rispondere ai miei toni di voce più rauchi e sepolcrali, con qualche passaggio della tragedia, di cui ogni parte, come presto osservai con grande piacere, si poteva applicare ugualmente bene a qualsiasi particolare argomento. Non bisogna supporre, tuttavia, che nel declamare questi passi omettessi di guardare losco, digrignare i denti, piegare le ginocchia, trascinare i piedi, o alcuna di quelle altre innominabili grazie che sono oggi considerata a ragione le caratteristiche di un buon attore popolare. Non c'è dubbio se si parlò di confinarmi in una camicia di forza; ma, per Dio!, nessuno sospettò mai che avessi perduto il fiato.
Misi infine ordine nei miei affari, presi posto di buon mattino sulla diligenza per..., lasciando intendere ai miei conoscenti che affari di estrema importanza esigevano la mia immediata presenza in quella città.
La diligenza era al completo; ma nell'incerto crepuscolo non potevo distinguere le fattezze dei miei compagni di viaggio. Senza opporre resistenza, sopportai di trovarmi collocato tra due signori di dimensioni colossali; mentre un terzo, di corporatura anche maggiore, scusandosi per la libertà che stava per prendersi, mi si gettò addosso con tutta la persona e, addormentatosi all'istante, soffocò tutte le mie gutturali implorazioni di soccorso in un russare che avrebbe fatto arrossire di vergogna i muggiti del Toro di Falaride. Fortunatamente lo stato delle mie facoltà respiratorie rendeva il soffocamento un incidente assolutamente impossibile.
Quando, tuttavia, il giorno cominciò a farsi più chiaro, mentre ci si veniva avvicinando ai sobborghi della città, il mio persecutore, alzandosi e accomodandosi il colletto della camicia, mi ringraziò con tono estremamente amichevole per la mia cortesia. Vedendo che restavo immobile (avevo tutte le membra slogate e il capo torto da una parte), le sue apprensioni cominciarono a destarsi; e svegliando il resto dei passeggeri, manifestò fermamente la sua opinione che era stato <<sbolognato>> lì un cadavere durante la notte al posto di un viaggiatore vivo e responsabile; e qui mi diede una botta sull'occhio destro, come a dimostrare la verità della sua asserzione.
A questo punto, tutti, uno dopo l'altro (erano nove nella compagnia) si credettero in dovere di tirarmi le orecchie.
Quando anche un giovane medico, avvicinatomi uno specchietto tascabile alla bocca, mi trovò senza fiato, la dichiarazione del mio persecutore fu proclamata esatta; e tutta la compagnia espresse la determinazione di non tollerare più dupinamente in futuro simili imposizioni, e di non procedere oltre, per il momento, con una carcassa del genere.
Di conseguenza, fui scaricato dalla vettura alla taverna del <<Corvo>> (presso cui la diligenza si trovava a passare) senza altri incidenti che la rottura delle braccia sotto la ruota posteriore sinistra del veicolo. Devo, d'altra parte, rendere giustizia al postiglione, e dichiarare che non mancò di gettarmi appresso il più gosso dei miei bauli, il quale sfortunatamente, cadendomi sulla testa, mi fratturò il cranio in un modo al contempo interessante e straordinario.
Il padrone del <<Corvo>>, che é un uomo ospitale, scoprendo che il mio baule conteneva abbastanza da indennizzarlo per tutti i piccoli disturbi che si fosse preso a causa mia, mandò subito in caccia di un chirurgo di sua conoscenza e mi affidò alle sue cure insieme con ricevuta per dieci dollari.
L'acquirente mi trasportò nei suoi appartamenti e cominciò immediatamente le operazioni. Avendomi tagliato le orecchie, tuttavia, scoprì dei segni di animazione. Suonò immediatamente il campanello, e mandò a chiamare un farmacista del vicinato, per consultarsi con lui in quell'emergenza. Nel caso che i suoi sospetti riguardo la mia vitalità si fossero dimostrati in un analisi fondati, mi praticò nel fattempo un'incisione allo stomaco, e, mi asportò buona parte delle viscere per una dissezione in privato.
Il farmacista era dell'opinione che io fossi realmente morto. Opinione che mi sforzai di confutare, tirando calci e sussultando il più possibile e dandomi ai più furiosi contorcimenti poiché le operazioni del chirurgo mi avevano, in certa misura, restituito il possesso delle mie faciltà. Ma tutto fu attribuito agli effetti di una nuova batteria galvanica con la quale il farmacista, che è realmente un uomo molto informato, eseguì parecchi curiosi esperimenti, per i quali, per la mia personale partecipazione alla loro riuscita, non potei fare a meno di provare un profondo interesse. Era tuttavia per me motivo di mortificazione il fatto che, malgrado i ripetuti sforzi per conversare, i miei poteri vocali fossero così perfettamente assenti che non riuscivo nemmeno ad aprire la bocca; e tantomeno, dunque, a replicare a certe ingegnose ma fantasiose teorie che, in tutt'altre circostanze, la mia minuziosa conoscenza della patologia ippocratica mi avrebbe permesso di confutare prontamente.
Incapaci di giungere a una conclusione, i due medici mi rimandarono a un ulteriore esame.
Venni portato in una soffitta, e, avendomi la moglie del chirurgo munitomi di mutandoni e calze, il chirurgo stesso mi legò le mani e mi fasciò le mascelle con un fazzoletto da tasca; e quindi chiuse la porta dall'esterno e se ne andò in gran fretta a pranzo, lasciandomi solo al silenzio e alla meditazione.
Scoprii allora con immensa gioia che avrei potuto parlare se non avessi avuto la bocca legata con il fazzoletto.
Consolandomi con questa riflessione, stavo ripetendo mentalmente alcuni passaggi della Onnipresenza della Divinità, come è mia abitudine prima di procedere al sonno, quando due gatti di natura rapace e aggressiva, entrando da un foro nel muro, spiccarono un salto con una capriola à la Catalani e, pionbarono l'uno difronte all'altro sul mio viso, si diedero a una indecorosa contesa che aveva come misero oggetto il mio naso.
Ma, come la prrdita delle mie orecchie fu il mezzo per elevare al trono di Ciro il Mago o Mige-Gush di Persia, e come Zopiro entrò in possesso di Babilonia per il fatto che gli era stato tagliato il naso, la perdita di alcune once del viso si riveró la salvezza del mio corpo. Scosso dal dolore, e acceso di indignazione, strappai con un unico sforzo i lacci e il bavaglio. Attraversando a grandi passi la stanza, gettai uno sguardo di disprezzo ai belligeranti, e spalancando la finestra, con loro estremo orrore e disappunto, mi precipitai con straordinaria destrezza di sotto.
Il brigante W., a cui rassomigliavo in modo singolare, veniva in quel momento condotto dalla prigione cittadina alla forca eretta per la sua esecuzione in periferia. L'estrema debolezza e la cattiva salute che lo affliggevano da lunga pezza gli avevano valso il privilego di stare senza manette; e, vestito con il costume di condannato - estremamemte simile al mio - giaceva disteso sul fondo del carretto del boia (che si trovava proprio a passare sotto le finestre del chirurgo al momento in cui mi lanciavo) senza altra guardia che quella del conducente, che dormiva, e di due reclute del sesto fanteria ubriache.
Come sgiagura volle, approdai inpiedi dentro al carretto. W., che era un individuo molto astuto, vide l'occasione favorevole. Balzando su immediatamente, si lanciò fuori e, scantonando per un viale, scomparve alla vista in un batter d'occhio. Le due reclute, svegliate dal trambusto, non afferrarono con esattezza il significato degli avvenimenti. Vedendo tuttavia un uomo, che era l'esatta copia del disgraziato, diritto in piedi nel carro, sotto i loro occhi, furono dell'opinione che quel furfante (intendo W.) stesse ceramente per darsi alla fuga (così si espressero), e, essendosi comunicato reciprocamente quella loro opinione, bevvero prima un sorso e poi mi atterrarono col calcio dei moschetti.
Non ci volle molto per arrivare a destinazione. Naturalmente non c'è nulla da dire a mia difesa. L'impiccaggione era il mio inevitabile destino. E mi rassegnai con un senso metà di stupore e metà di acrimonia. Essendo piuttosto cinico, dirò che mi sentivo da cani. Il boia, tuttavia, mi aggiustò il laccio al collo. La botola si aprì.
Mi astengo dal descrivere le mie emozioni sulla forca: anche se, senza dubbio, potrei parlare con cognizione di causa; e si tratta di un soggetto su cui nulla è stato detto degno di nota. Infatti, per scrivere su di un simile tema è necessario essere stato impiccato. Ogni autore dovrebbe limitarsi al campo della propria esperienza. Così, ad esempio, Marco Antonio compose un tratto sull'ubriachezza.
Accennerò, tuttavia, al fatto che non morii. Il mio corpo fu impiccatto, ma io non avevo fiato per esserlo; e a parte il nodo sotto l'orecchio sinistro (che mi sembrava un colletto rigido militare), oso dire di essere stato ben poco scomodato. Quanto allo strappo patito dal mio collo all'aprirsi della botola, si dimostrò semplicimente un correttico nella distorsione procuratami dal signore grasso nella diligenza.
Per buone ragioni, tuttavia, feci del mio meglio per ripagare la folla dal suo disturbo. Le mie convulsioni vennero trovate straordinarie. I miei spasmi sarebbero stati difficilmente superabili. Il popolino chiedeva il bis. Perecchi signori svennero; e una quantità di signore fu portata a casa in preda a crisi iaterica. Pinxit(3) si valse dell'occasione per ritoccare, in base a uno schizzo preso sul luogo, il suo ammirevole dipinto Marsia spellato vivo.
Appena ebbi offerto sufficiente divertimento, si ritenne opportuno togliere il mio corpo dalla forca, specialmente per il fatto che nel frattempo il vero colpevole era stato catturato e riconosciuto, cosa della quale io disgraziamente non ero informato.
Naturalmente, si manifestò molta simpatia nei miei confronti e siccome nessuno reclamava il mio corpo, dette ordine di seppellirmi in una fossa comune.
Qui, dopo un ragionavole intervallo, venni deposto. Il becchino se ne andò, e io restai solo. Un verso del Malcontento di Marston

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