Capitolo uno.

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Evelin

Non so esattamente quando iniziai ad essere così. Forse lo ero sempre stata dentro di me, forse ero predestinata a non essere in nessun altro modo.

Ero una puttana.
Una drogata.
Una sfascia famiglie.

Me ne avevano dette di tutti i colori nella mia vita. E io non l'avevo mai negato, non me n'era mai importato niente di quello che pensavano di me.

Facevo quello che mi passava per la testa e fanculo le conseguenze, ci sarebbero sempre state. Ci sarebbe sempre stato qualcuno a cui non andava bene quello che facevi, pronto a giudicarti per le scelte che prendevi.

Quindi perché prendersi il disturbo di comportarsi come volevano gli altri? Perché fingere incollando una maschera sopra il volto? C'erano tante cose che non andavano nella mia vita... anzi, era tutto sbagliato.

«Più forte. Guardarmi mentre me lo succhi!»

Me lo chiedevano in continuazione. Volevano che li guardassi con questi grandi occhi blu, mentre lo prendevo in bocca. E io lo facevo. Mi sentivo potente. Il loro sguardo quando stavano per venire mi dava appagamento. Mi faceva sentire desiderata e non c'era niente al mondo che volessi di più.

Quella notte ero nella camera di un ragazzo di cui non sapevo nemmeno il nome. A dirla tutta non ci eravamo neanche presentati. Avevamo bevuto un paio di shot e poi eravamo andati da lui. L'avevo capito da subito cosa voleva da me.

Tutti volevano sempre la stessa cosa.

Una scopata senza freni e una bocca dentro cui potersi svuotare. Venivano sempre da me, sapevano già chi fossi in partenza. È dura togliersi una nomea, sopratutto se non si fa nulla per screditarla. A scuola ci ero abituata, mi chiamavo in tutti i modi peggiori.

Non avevo amiche, e credo fosse per il semplice fatto che non volessero farsi vedere in giro con me. Quelle fidanzate provavano disgusto nei miei confronti.
Le vedevo.
Oh sì, vedevo le facce dei loro ragazzi osservarmi con desiderio e lussuria provocando l'ira della propria partner.

«Ora dovresti andare via. Come hai detto di chiamarti?»

«Non l'ho detto. Evelin comunque.»

«Beh, Evelin, sarebbe meglio se sloggiassi il più in fretta possibile.» Disse quel ragazzo mentre mi spingeva verso l'uscita. «I miei saranno a casa tra poco.» Annuii mentre mi accesi una sigaretta. «Ci sentiamo allora. Vuoi darmi il numero? Sai, per una scopata veloce di tanto in tanto.»

Mi misi a ridere.  «Niente numeri, niente di niente. Ciao, sconosciuto.»

Ritornai a casa a piedi. Non me ne fregava assolutamente un cazzo che fossi sola e mezza nuda nel buio della notte.

E, come previsto, a casa mia non c'era nessuno. I miei dovevano essere a qualche cena di lavoro, o di beneficenza.

Abitavo in un quartiere ricco, uno dei più ricchi di Boston. Qui a Beacon Hill non c'era una singola persona che non avesse così tanti soldi da sfamare mezzo mondo. E contrariamente a quanto si pensa i soldi non fanno la felicità. E no, proprio no.

Vi sembravo una persona felice io?

Esatto.

Non lo ero, e quindi potevo confermare con assoluta arroganza che i soldi non fanno davvero un cazzo nella vita. Oh sì, beh, se tralasciamo tutto quello che riguarda i beni materiali. Per il resto? Non un singolo dollaro mi ha mai resto felice. Nemmeno uno, cazzo.

A cosa sono serviti tutti quei regali da parte dei miei per farsi perdonare una dimenticanza o una parola sbaglia? Niente. Assolutamente niente. Avrei preferito di gran lunga essere meno ricca, ma felice con una famiglia che mi avrebbe amato.

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