Second.

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Non ci potevo credere. Mi hanno preso.
Cerco di guardami intorno, di scrutare lo sguardo di Carl, ma mi tengono ferma la testa rivolta verso il basso mentre mi tirano dietro le braccia e mi stringono forte quelle manette gelide ai polsi. Mi fanno sedere all'interno della volante mentre vengo abbaiato dai colori blu e rosso delle sirene che mi attraversano la cornea. Come se quel gesto rimanesse indelebile dentro di me. Quasi fosse una sconfitta, come se solo adesso capissi tutto quello di sbagliato che avevo fatto fino ad ora.
Ancora abbagliato dalle luci vedo l'ombra di Carl che si allontana ed entra nell'altra volante. Non reagisce, lui che va subito in escandescenza appena gli mettono le mani addosso anche solo per scherzo. Era distrutto. Rimanemmo fermi aspettando l'ambulanza, mentre l'altro veicolo delle forze dell'ordine già era andato via. I poliziotti dovevano assicurarsi che il corpo sarebbe salito sul mezzo di soccorso prima di andar via.

Una decina di minuti dopo l'agente mette in moto. In silenzio per tutto il tragitto, non so a che pensare: era successo tutto così velocemente. Non realizzo nemmeno che stavo per andare nel distretto, rinchiuso in cella. Ancor meno che Chamber non c'era più. Se ne sentivano di decessi dalle mie parti, ma quando il freddo della morte ti sfiora la pelle è indescrivibile, quasi non sentissi nulla perché lo squarcio che mi aveva aperto il petto in quell'istante superava qualsiasi soglia del dolore. Neanche la morte di mio padre mi ferì cosi tanto, forse perché ero ancora piccolo quando successe.

Scendiamo dall'auto, mi stringono e mi spintonano quasi fossi un ergastolano, il peggiore dei delinquenti. Mi prendono e mi collocano dentro una cella, è più fredda delle manette che avevo al polso. Si, perché quelle maledette me le hanno tolte e mi hanno lasciato un cazzo di segno rosso. Sto zitto ad un angolo. Non vedo l'ora di andarmene.
Mi guardo intorno.. Un ragazzo cattura la mia attenzione! Malmesso, una camicia stropicciata ma bene vestito. Era il solito figlio di papà! Sembrava mezzo ubriaco: borbottava sotto voce. Sarà stato fermato in stato di ebrezza. Ho notato un Pic up di lusso qua fuori. È sicuramente il suo.
Poi noto che eravamo in tre, steso su una brandina di legno c'era un barbone che dormiva.. chissà cosa aveva fatto.
Ero anche senza documenti tanto che gli agenti mi chiamavano negretto.
- Hey negretto, come ti chiami?- si avvicina uno di loro alla cella
- Se vuoi puoi chiamare qualcuno per farti venire a prendere e pagare la cauzione-
Rimasi a pensare. Non mi è rimasto nessuno e di certo non avrei chiamato mia madre. Sarebbe stato inutile.
Il poliziotto non sentendomi rispondere mi urló di avvicinarmi
- Come vuoi, ma sappi che dovrai rimanere qui finche non sappiamo come ti chiami e finché non riconosceremo un genitore che ti possa venir a prendere- continuava
-Se cosi non sarà saremo costretti a chiamare gli assistenti sociali-
-Clarence, Clarence Frame è il mio nome e sono figlio di nessuno- sussurai con odio.
L'agente prese nota e stava tornado al suo posto, ma non ha fatto in tempo perché un uomo ben vestito entra nel distretto sbraitante. Non ho ben capito con chi ce l'aveva.
Vedo solo che firma dei fogli, paga una cauzione.
Ah dovevo aspettarmelo, era il paparino di quel coglione in camicia.
-Richard Luis Blake puoi uscire- disse una guardia mentre girava la chiave nella serratura della cella.
Le porte erano aperte, mi passa davanti con aria di sfida e dice
-Ciao negro ci vediamo-
-O forse no-
Non potevo fare niente, gli avrei messo le mani in faccia e strappato la lingua con le unghie.
Spero di ribeccarlo fuori e strozzarlo con il cravattino che aveva avvitato al collo della camicia.
Mi limitai a guardarlo male e se ne andó.

Furono due giorni di inferno, con gente che entrava e usciva da questo manicomio ma senza la minima ombra di mia madre. Lo sapevo che non sarebbe mai venuta a prendermi. Di notte gelavo e avevo solo il mio giacchetto di pelle addosso. Di giorno era un calorifero. Non si respirava. Se non grazie a quella piccola finestrella sbarrata su in alto da cui passava un po di aria e da cui vedevo i passi delle persone che attraversavano quel marciapiede.
Giorni interminabili tra la noia della cella e dei miei "coinquilini", fino a quando non chiamano anche il mio nome. Non c'era mia madre ad aspettarmi ma un'altra donna che non conoscevo. Si presenta immediatamente, ma non ricordo neanche il nome perché gia sapevo che era un assistente sociale.
È stranamente carina con me, quasi sfiorava il ridicolo. Mi fa salire in macchina dove alla guida c'è un altro uomo. Un suo collega.
Finalmente tornavo a casa.

-Fermo, non scendere- mi dice la donna
Mentre apre la portiera e si accinge verso la porta di casa con un taccuino in mano.
Rimango in macchina con l'altro mentre la signora in gonnella bussa ripetetutamente alla porta. Scorgo mia madre in lontananza che apre e che dopo vari stenti fa entrare l'ospite.
L'attesa è poca, durante la quale vedo Sophie entusiasta che mi vede mentre gioca all'angolo del giardino. Le faccio segno di non avvicinarsi e di nascondersi perché non sapevo cosa stesse succedendo, continuando a mimargli che la sarei venuta a prendere presto.
La donna torna in macchina con una borsa riempita dei pochi vestiti che è riuscita a raccimolare e mi porta via.

Mi sono ritrovato da una stanza all'altra.. Magari più comoda e con un letto vero, ma ancora piu cupa della cella in cui risiedevo.
Ripulita bonariamente, acari di polvere a formare del vellutello sulla superficie più alta dei mobili. Non sentivo un odore, ma più che altro un senso di saturazione. Come se non riuscissi a respirare in modo naturale. Era chiusa da molto, l'ossigeno arrivava quasi a mancare.
Mi hanno detto di sistemare qui le mie cose.
Attendevo non si sa quale momento.
Finché steso sul letto mi ritrovai davanti la porta la signora con la gonna. Cerca di spiegarmi la situazione, ma nemmeno l'ascolto avevo già capito tutto. L'unica cosa che mi interessava è che potevo farmi una doccia e che tra un'ora era pronto il pranzo alla mensa.

Docce in comune con acqua a dir poco glaciale. Si potevano contare le gocce che scendevano per quanto era debole il flusso di acqua che mi cadeva addosso.
Mi feci un giro di questo grande edificio che non saprei neanche dire cosa fosse.. Forse un riformatorio o una casa famiglia.
Finalmente arrivò l'ora di mangiare.
Erano tutti ragazzi. Non capivo le femmine dove fossero e se ci fossero.
Assomigliava molto alla mia vecchia scuola: brutti musi, muri abbandonati a loro stessi e cose che cadevano a pezzi.
In queste zone lo stato non finanzia nulla.
Ognuno di noi è dimenticato. Fuori dal mondo.
La sola differenza con la Geoffry è questa mensa rivoltante.
Stavo morendo dalla fame. Mi avvicino in fretta con il vassoio e una cicciona con un neo enorme sul naso mi sbatte uno sformato di patate nel piatto. Da vomito.
Vado a sedermi sotto la lente di ingrandimento di tutti quelli che ho intorno. Mi ero ritrovato in un tavolo pieno di ragazzi. Tutti che sembravano peró farsi gli affari propri, con la tristezza in volto. Solo un piccoletto mi guardava curioso
- Sc-scusa V-v-vorresti la mia mela che io non la ma-mangio- e adesso che cazzo vuole questo, penso dentro di me.
Poi mi guardo intorno e capisco che alcuni ragazzi più grandi lo avevano puntato. Cercava solo un po' di protezione.
Allora accettai la mela e lo feci sedere vicino a me.
Inizio a tastare con la forchetta al consistenza di quella poltiglia che avevo davanti quando alzando lo sguardo mi ritrovai un denso sputo giallastro che iniziava a colare allungandosi sempre di più da una bocca appiccicosa verso il mio piatto. Stringo i pugni e digrigno i denti mentre vedo quella sostanza melmosa gocciolare sul mio piatto.
Mi alzai di scatto, ma mi guardai intorno.
Non potevo fare niente, ero controllato
-Ti stai mettendo contro le persone sbagliate-
Mi dice uno di quelli che adocchiava il piccoletto e se ne vanno in gruppo verso il cortile che si affacciava sulla mensa.
Non puó passarla liscia penso tra me e me.
I piedi in testa non me li faccio mettere da nessuno. Ma ero sorvegliato, non potevo fare mosse false.

Stanotte non dormo.  Sono le 3.45 e ho troppi pensieri per la testa. Chamber, il carcere, quello che é successo oggi. È accaduto tutto troppo in fretta. Non so come gestire la situazione. Voglio scappare da qui. Non è questo il mio posto. C'è un mondo la fuori che mi aspetta. Ci sono i miei amici. Ho mia sorella a cui badare...

Mi svegliano di botto. Penso sia l'ora della colazione. Mentre mi aggiro per l'edificio vedo tante famiglie entrare. Chiedo ad un ragazzo che incontro cosa stia succedendo
- Oggi c'è l'acccoglienza per le adozioni- mi risponde con aria indifferente.
Finalmente capisco che mi trovo in una casa famiglia anche se a breve avró il processo per il tentato furto dell'auto.


Giornate interminabili. Aspetto con ansia il pranzo che ormai scandisce i miei giorni qui dentro. Voglio rincontrare quell'esaltato di ieri che mi ha sputato nel piatto. Ma appena entro nella mensa mi ritrovo fradicio di succo.
Era stato di nuovo lui a svuotarmi un bicchiere addosso.
È stata la fine. Mi sentivo come Hulk quando si trasforma. L'ho preso a spintoni, tirandolo giù in cortile fuori da occhi indiscreti mentre tutti erano a pranzo.
Lo butto per terra con tutta la rabbia che ho in corpo. Destro. Destro. Sinistro. Lo volevo massacrare. Questi sono gli insegnamenti di Cox. In men che non si dica veniamo circondati da tutto l'istituto.
Lo strattono. Sento un fischio che mi trema nei timpani quasi mi fosse entrata una spina nell'orecchio. Quindi mi distratto cercando di capire da dove provenisse.
Grave errore. Naso fratturato. Un colpo da quel figlio di puttana che ne approfitta.
Tracollo a terra , svenuto, tra le urla della direttrice.

Oblivion factorDove le storie prendono vita. Scoprilo ora