diciassette

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Nei nostri giorni di permanenza in quel remoto scenario, sentii come se la mia vita avesse trovato il suo senso di esistere, di essere ricordata in qualche modo.

Provai emozioni contrastanti, ma tutte mi ricondussero nello stesso identico punto, e alla consapevolezza della meritata felicità che stavo regalando ai miei parenti, anche se, da vivo, non avevo fatto altro che portare guai.
Riuscii ad avvertire un peso insopportabile sullo stomaco quando, nell'ultima giornata che avremmo vissuto lì con lui, Harry ci portò a nuotare, in una minuscola spiaggia dove il mare si fondeva con l'orizzonte in maniera indistinguibile, e l'acqua cristallina riusciva a solleticarmi i piedi anche se io non ero, fisicamente, lì con loro.
Sentii il mio cuore comprimersi in sé stesso perché sapevo quanto quell'uomo volesse ancora sentirsi parte di una piccola e scombussolata famiglia, e lanciare un sorriso sghembo alla vista di mia madre che gli spalmava la crema solare sulla schiena.
Perché aveva ancora il suo tempo da vivere, ed io non mi sentivo come se lui avesse realmente preso il mio posto, anche se le nostre personalità potevano quasi definirsi simili.
Lui non aveva quel countdown, incessante, che premeva sul suo petto, e non sopravviveva con la consapevolezza di essere già per metà un'anima vuota come, invece, toccava a me.

E fui felice, perché Esme sorrideva quando lui le sistemava una ciocca di capelli dietro le orecchie, per poi abbassare lo sguardo, come se le sue mani le mandassero a fuoco il viso.
Quel tempo era così scorrevole e normale che quasi mi sentii perso nel non trovarmi nel mezzo dell'ennesimo dramma familiare, stipato dietro la porta ad ascoltare i miei genitori definirsi ipocriti a vicenda, come quando avevo quindici anni.

Vedevo la gioia scorrere nelle vene di chi aveva scelto di essere ancora vivo, e sentirmi in parte la causa di quei piccoli sorrisi nascenti sui loro volti mi assicurò il mio posto nell'universo, anche se sapevo, percepivo quasi, che in poco tempo il destino mi avrebbe richiamato indietro, ed anche Esme avrebbe dovuto dirmi per sempre addio.

Il mio compito era giunto al termine, la mia linfa vitale si era esaurita ormai tempo prima, e mi sentivo triste rimpiangendo il mio purgatorio personale, in bilico, in quel letto d'ospedale troppo grande per una persona sola, perché ora non facevo altro che vivere all'ombra di qualcuno che non ero più.
Forse, me ne sarei reso conto quando tutta la mia esistenza mi sarebbe passata davanti agli occhi in sette minuti, perché non era mai successo prima; forse ero persino troppo adulto per credere a quelle storie, e sapevo che nessuna fine sarebbe mai stata gloriosa.

Mi si intorpidirono le gambe, e rimasi per un po' rannicchiato sul bordo del nostro asciugamano umido, mentre il sole mi pungeva le ossa, e quelle tre persone a cui volevo bene, si spruzzavano acqua al largo.

Me ne ero andato da quasi otto anni.
Questo diventò concreto, per me, solo in quel momento.
La mia vita non mi aveva aspettato, ma una parte di Harry mi aveva permesso di non abbandonare la mia opera, senza aver prima steso l'ultima pennellata di colore sulla tela ormai quasi del tutto asciutta.

Quella stessa sera, la nostra ultima in quel luogo quasi magico, dopo una cena a base di frutti di mare freschi, mia madre si ritirò nella sua stanza, ed Esme ed Harry fecero l'amore in quell'appartamento che ancora odorava di tabacco e vernice.
C'era una candela accesa su entrambi i comodini, ai lati della sua stanza da letto, quella fu l'ultima cosa che vidi, prima di lasciare loro quell'intimità piacevole che entrambi desideravano.

Tornai sui passi di mia madre, nella sua stanza vuota lei sospirava mentre ripiegava i suoi abiti in valigia, in quell'ordine scomposto e maniacale che solo lei riusciva a riprodurre, mentre io desideravo di poterle parlare e, ardentemente, di poter essere suo figlio per una notte ancora.

E neanche quella volta, seduta sul bordo della vasca da bagno vuota, mia sorella risparmiò i dettagli più succosi di quella notte lunga, in cui aveva messo la sua purezza nelle mani di un'altra persona.
Lo descrisse come intenso e dolce.
Aveva i segni dei denti di quel ragazzo a cui anche io volevo bene, a modo mio, sul collo, tramutati in piccoli lividi violacei, ed io mi sentii vivo anche grazie a lei, in quel frangente.

Lui ci avrebbe accompagnati all'aeroporto, la mattina seguente, ed io sapevo che non sarei potuto mai più essere presente, ma, ancora una volta, non dissi molto al riguardo.
Mi limitai a rassicurare mia sorella sulla vita che aveva ancora da scrivere, lei pianse sulla mia spalla ossuta, soffocando i suoi singhiozzi nella mia felpa sdrucita, perché avrebbe preferito che la gente la credesse pazza, piuttosto che smettere per sempre di parlare con me, ma io, di lì a poco, avrei perso anche la forza di restare in piedi da solo, e ci tenevo a lasciare un ricordo di me più dignitoso di questo.

Le accarezzai la pelle ed i capelli arruffati, profumava come quando aveva otto anni ed io ero ancora un adolescente che cercava di tenere la sua sorellina pestifera lontano dalla sua vista.

Baciai la fronte di mia madre, ricordando il momento in cui lei aveva fatto lo stesso con la mia, fredda, in quella stanza che odorava di morte, sperando che io potessi ritornare a respirare da un momento all'altro.
Non volevo un addio, ormai quella scena l'avevo già vissuta, ma Esme insistette per accompagnarmi in strada, con le lacrime che ancora le solcavano il viso umido, e la voce tremante e rotta.
La strinsi a me, come ultimo grande gesto d'amore, per sentirmi ancora suo fratello, e poter ancora sperare di proteggerla dai demoni che io stesso avevo costruito.
Ma pregai anche di non essere uno di quelli.
Perché, da quel momento, sarei stato per sempre uno spettatore muto, e non avrei mai più potuto asciugare le sue lacrime o sentirla sussurrare i dettagli della sua prima volta, nel bagno di una camera d'albergo, a centinaia di chilometri da casa.
L'avrei semplicemente guardata crescere, perché in quel momento sapevo che non era colpa mia, e che io non avevo scelto di farmi uccidere dal cancro, né il cancro aveva deciso di entrare dentro di me in particolare.

Mi sentii in pace, e la mia anima fluttuava già nell'aria mentre sentivo che le mie ginocchia si trasformavano lentamente in gelatina.
E sapevo quale destino mi attendeva, ma me ne sarei andato rimanendo per sempre incastonato nel cuore delle persone a cui volevo bene.

Strinsi Esme nel nostro ultimo vero abbraccio, quello che non le avevo mai dato quando eravamo bambini, e mi sentii completo mentre il mio corpo svaniva nell'aria per la seconda volta.
Baciai la sua fronte calda, poi la sua guancia, ma non dissi niente.
Nei momenti più importanti rimanevo sempre a corto di parole.
E non volevo che quello fosse un addio.

Alzai il mio cappuccio sulla testa, fino quasi a coprirmi gli occhi, ed incrociai il suo sguardo dolce, che mi fissava con la speranza e la consapevolezza di una donna già quasi adulta.
Riuscii a sollevare un angolo della mia bocca in un microscopico sorriso, lei fece lo stesso.
E poi tutto divenne rapido e sublime, come la prima volta.
 
Mi confusi velocemente tra la folla di passanti, le luci notturne rendevano quella città più sbiadita.
Non mi voltai indietro, non ne ebbi il coraggio.
E piansi nel vedere qualcuno fissare mia sorella, sentivo il suo sguardo bruciare sulla mia schiena, immobile, mentre guardava allontanarsi una figura che, ancora, solo lei riusciva a vedere, mentre questa compiva il suo ultimo passo, della vita, verso la fine.

Lightnings at 4:02am.  ||h.s.||Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora