Notte seconda

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«Bene, ecco che ci siete arrivato!» mi disse ella, ridendo e stringendomi tutt’e due le mani.
«Sono qui già da due ore; non potete immaginare ciò che sia stato di me tutto il giorno!»
«Lo so, lo so… Ma veniamo al fatto. Lo sapete perché sono venuta? Non certo per dire tante assurdità come ieri! Ecco: per prima cosa dobbiamo comportarci con più intelligenza. Ieri ho meditato molto a lungo su tutto questo.»
«In che cosa, dunque, in che cosa comportarci con più intelligenza? Da parte mia, sono pronto; ma, in verità, nulla mi è mai accaduto di più intelligente di adesso.»
«Davvero? Innanzi tutto, vi prego di non stringere così forte le mie mani; in secondo luogo, vi dichiaro che oggi ho pensato a lungo a voi.» «Bene, e che cosa avete concluso?»
«Che cosa ho concluso? Ho concluso che bisogna ricominciare tutto da capo perché, in definitiva, ho deciso che voi mi siete ancora completamente sconosciuto, che ieri mi sono comportata come una bambina, come una ragazzetta e, si capisce, è risultato che la colpa di tutto è il mio buon cuore; ossia mi sono lodata da me, come sempre: va a finire quando si comincia a esaminare noi stessi. E, per rimediare all’errore, voglio saper tutto di voi, in ogni particolare. Ma, poiché non ho nessuno cui chiedere informazioni sul vostro conto, dovete essere voi stesso a raccontarmi tutto da cima a fondo. Dunque, che tipo di uomo siete? Presto, cominciate a narrare la vostra storia.»
«La mia storia!» gridai spaventato «la mia storia! Ma chi vi ha detto che io abbia una storia? Io non ho una storia…»
«E come siete vissuto, se non avete una storia?» m’interruppe lei, ridendo.
«Assolutamente senza storia! Sono vissuto così, come si dice da noi, per conto mio, cioè solo, solo, del tutto solo; capite ciò che significa essere solo?»
«Ma come, solo? Vorreste dire che non avete mai veduto nessuno?» «Oh no! quanto a vedere gente, ne vedo, tuttavia sono solo.» «E che? Dunque voi, forse, non parlate con nessuno?» «In senso stretto è così: con nessuno.»
«Ma chi siete dunque? Spiegatevi! Aspettate, indovino: voi certamente avete una nonna, come ho io. Essa è cieca ed è tutta la vita che non mi lascia andare in nessun posto, cosicché ho quasi disimparato a parlare. E quando, circa due anni fa, ho commesso una birichinata essa, vedendo che non riusciva più a trattenermi, mi ha chiamata e ha appuntato con uno spillo il suo vestito al mio; così da allora passiamo intere giornate; essa, pur essendo cieca, fa la calza e io, seduta accanto a lei, cucio o le leggo un libro ad alta voce. È una così strana abitudine che ormai già da due anni io le stia attaccata con uno spillo…»
«Ah, mio Dio, che disgrazia! Ma no, io non ho una simile nonna!» «E, se non l’avete, come potete restarvene chiuso in casa?» «Ascoltate: voi volete sapere chi sono io?» «Ma sì, sì!»
«Nel senso più stretto della parola?» «Nel senso più stretto della parola.» «Allora ecco: io sono un tipo.»
«Un tipo, un tipo! Che tipo?» gridò la fanciulla, scoppiando in una tale risata che pareva non avesse riso da almeno un anno «Ma come si sta allegri con voi! Guardate, ecco una panchina: sediamoci. Qui non passa nessuno, nessuno ci può ascoltare e… incominciate la vostra storia! Giacché non riuscite a farmi credere di non avere una storia; voi l’avete, soltanto cercate di nascondervi. In primo luogo: che cosa è un tipo?»
«Un tipo? Un tipo è un originale, un uomo buffo!» risposi, scoppiando anch’io a ridere, trascinato dalla sua fanciullesca risata «È un carattere così. Sentite: sapete voi cosa sia un sognatore?»
«Un sognatore! Ma, scusate, come è possibile non saperlo? Sono anch’io una sognatrice. Talvolta, quando sto seduta accanto alla nonna, quante cose mi passano per la testa! Ed ecco che comincio a sognare e la fantasia mi porta lontano e… figuratevi, sposo nientemeno che un principe cinese! Però a volte è veramente bello sognare! Sì, del resto, Dio lo sa. Specialmente se anche senza di ciò si ha qualcosa a cui pensare» soggiunse la fanciulla, questa volta con aria piuttosto seria.
«Magnifico! Giacché, sia pure per una volta sola, siete andata sposa a un principe cinese allora, forse, potete capirmi perfettamente. Ascoltate dunque… Ma permettete: io non so ancora come vi chiamate!» «Finalmente! Ve ne siete ricordato presto!»
«Ah, mio Dio! Non mi è neanche venuto in mente, stavo tanto bene anche così…»
«Mi chiamo Nàstenka.» «Nàstenka ! Soltanto?» «Soltanto. È forse poco per voi, uomo incontentabile?» «Poco? Al contrario, è molto, moltissimo; Nàstenka, dovete essere una brava ragazza se, fin dal primo momento, siete diventata per me solo Nàstenka!»
«Vedete dunque? E allora?»
«Allora, Nàstenka, ascoltate un po’ che storia buffa verrà fuori…»
Mi posi a sedere accanto a lei, assunsi un atteggiamento pedantescamente serio e cominciai, come se leggessi:
«Ci sono, Nàstenka, se voi non lo sapete, ci sono a Pietroburgo certi angoletti piuttosto strani. In quegli angoletti pare che non si affacci il medesimo sole che illumina tutti gli altri abitanti di Pietroburgo ma che in essi getti lo sguardo un sole nuovo, diverso, come fatto appositamente per quei cantucci, un sole che illumina tutto di una luce particolare. In quegli angoletti, mia cara Nàstenka, si agita un’altra vita, del tutto dissimile da quella che freme accanto a noi e quale potrebbe forse esistere in un qualche sconosciuto reame fiabesco ma non qui da noi, in questi nostri seri, serissimi tempi. Ebbene, proprio questa vita è un miscuglio di qualcosa di puramente fantastico, d’ardentemente ideale e insieme (ahimè, Nàstenka!) di torbidamente prosaico e comune, per non dire di volgare fino all’inverosimile!»
«Puah ! Signore mio Dio, quale preambolo! Che dovrò dunque sentire?» «Sentirete, Nàstenka (mi pare che non mi stancherò mai di chiamarvi Nàstenka!), sentirete che in quegli angoletti vivono delle strane persone: i sognatori. Il sognatore, se occorre dare di lui una precisa definizione, non è un uomo ma, vedete, è piuttosto un essere di genere neutro. Si stabilisce per lo più in qualche angolo inaccessibile, come se volesse nascondersi persino alla luce del giorno e, una volta installato nella sua tana, vi si attacca come una lumaca al guscio e, per lo meno sotto questo punto di vista, rassomiglia molto a quell’interessante animale che è insieme animale e casa e che si chiama tartaruga. E perché credete che egli ami tanto le sue quattro mura, dipinte immancabilmente di verde, polverose, tristi e affumicate in maniera incredibile? Perché questo buffo signore, quando viene a fargli visita qualcuno dei suoi rari conoscenti (e finisce che per lui la razza dei conoscenti si estingue), perché, dico, questo buffo signore lo riceve così confuso, con un’espressione del viso tanto mutata e in un tale stato di smarrimento come se, tra le sue quattro pareti, avesse appena finito di compiere un delitto, o come se avesse fabbricato monete false, o scritto certi versi da spedire a una rivista, accompagnati da una lettera anonima, nella quale si dichiara che il vero poeta è già morto e che il suo amico ritiene suo sacrosanto dovere pubblicarne i versi? Perché mai, ditemelo voi, Nàstenka, la conversazione tra i due interlocutori non attecchisce? Perché né una risata, né una qualche ardita paroletta esca dalla bocca dell’amico fatto di colpo preoccupato e che pure, in altre circostanze, ama assai il riso, la paroletta vivace, i discorsi sul bel sesso e su altri allegri argomenti? Per qual motivo, infine, quell’amico, probabilmente non di vecchia data e alla sua prima visita (non ne seguirà certo una seconda e l’amico non tornerà un’altra volta), per qual motivo l’amico stesso si turba, si irrigidisce, nonostante il suo spirito (dato che ne abbia), guardando il viso sconcertato del padrone di casa che a sua volta ha finito con lo smarrirsi del tutto e ha perduto completamente la bussola, dopo giganteschi e vani sforzi per avviare e infiorare il discorso, mostrare anche da parte sua di conoscere gli usi del vivere mondano, di sapere intrattenere una conversazione sul bel sesso e magari, con una siffatta docilità, di piacere a quel poveraccio capitato chi sa da dove e venuto a fargli visita per sbaglio? Perché, infine, il visitatore afferra il cappello e se ne va in tutta fretta, ricordandosi all’improvviso di un affare urgentissimo che non è mai esistito e, bene o male, libera la sua mano dalle strette calorose del padrone di casa il quale cerca, in ogni modo, di dimostrare il suo pentimento e di rimediare a ciò che è riuscito così male? Perché l’amico, appena fuori dalla porta, scoppia in una risata e promette a se stesso di non andar mai più da quell’originale, sebbene quell’originale sia, in sostanza, un ottimo ragazzo; e perché, al tempo stesso, non riesce a rifiutare alla propria fantasia un piccolo capriccio, quello, cioè, di paragonare, sia pure alla lontana, la fisionomia del suo recente interlocutore, durante tutto il tempo della visita, all’aspetto di un disgraziato gattino che alcuni bambini, dopo averlo catturato in maniera sleale, hanno malmenato, maltrattato e spaventato in tutti i modi e sconcertato a tal punto che, per sfuggire alle loro mani, si è rifugiato sotto una sedia, al buio, e là è costretto a restarsene un’ora intera a lisciarsi il pelo, a starnutire, a lavarsi con tutt’e due le zampette il musino offeso e poi, dopo tutto questo, a guardare con ostilità la natura e la vita e persino la porzioncina del pranzo del padrone, conservata per lui dalla pietosa donna di servizio?»
«Sentite,» interruppe Nàstenka che per tutto il tempo mi aveva ascoltato con stupore, allargando gli occhi e la boccuccia «sentite: io non so proprio perché sia accaduto tutto questo e perché, proprio a me, rivolgiate così buffe domande; ma so per certo che tutte queste avventure sono capitate senza dubbio a voi, dalla prima all’ultima parola.» «Senza dubbio» risposi io, con l’aria più seria. «Be’, se è così, proseguite pure,» rispose Nàstenka «perché ho gran desiderio di sapere come tutto questo vada a finire.»
«Voi volete sapere, Nàstenka, che cosa faceva nel suo angoletto il nostro eroe o, per meglio dire, che cosa facevo io, giacché l’eroe di tutta la vicenda sono io, con la mia modesta persona? Volete sapere perché mi sono talmente sconcertato e smarrito durante un’intera giornata a causa dell’inattesa visita di un amico? Volete sapere perché ho fatto un sobbalzo e sono tanto arrossito quando hanno aperto la porta della mia stanza, perché non ho saputo accogliere l’ospite e perché sono così vergognosamente caduto sotto il peso della mia ospitalità?»
«Ma sì, sì!» rispose Nàstenka «È di questo appunto che si tratta. Sentite: voi raccontate in modo meraviglioso, ma non potete raccontare un po’ meno meravigliosamente? Parlate come se leggeste un libro.»
«Nàstenka!» risposi con voce grave e severa, trattenendomi a stento dal ridere «Io lo so, cara Nàstenka, che racconto in modo meraviglioso ma, perdonate, non so raccontare diversamente. Adesso, cara Nàstenka, io sono simile allo spirito del re Salomone il quale è stato per mille anni racchiuso in uno scrigno, sotto sette sigilli, e al quale ora, finalmente, hanno tolto tutti i sette sigilli. Adesso, cara Nàstenka, adesso che ci siamo di nuovo incontrati dopo una così lunga separazione, perché io vi conoscevo già da gran tempo, Nàstenka, perché già da un pezzo cercavo qualcuno, e questo è segno che io cercavo proprio voi e che era scritto nel destino che ci incontrassimo proprio ora; adesso nella mia testa si sono aperte migliaia di valvole e io devo espandermi in un fiume di parole per non soffocare. Perciò vi prego di non interrompermi, Nàstenka, e di ascoltare docile e sottomessa; se no, non parlerò più!»
«No, no, no! Per carità, parlate! Ora non dirò più una parola.»
«Continuo: c’è nella mia giornata, cara amica Nàstenka, un’ora che io amo straordinariamente. È quell’ora in cui cessano quasi tutti gli affari, le occupazioni e i lavori d’ufficio, e tutti si affrettano verso casa per pranzare, per coricarsi e riposare o, mentre sono ancora per strada, escogitano qualche allegro mezzo per trascorrere la serata, la notte e tutto il tempo libero. In quell’ora anche il nostro eroe (permettetemi, Nàstenka, di parlare in terza persona giacché ci si vergogna terribilmente a raccontare in prima persona) in quell’ora, dunque, anche il nostro eroe, che non è stato neppure lui senza occupazioni, cammina dietro agli altri. Ma una strana espressione di piacere affiora sul suo viso pallido che appare alquanto sbattuto. Egli guarda, non indifferente, il tramonto che lentamente si spegne nel freddo cielo pietroburghese. Quando dico “guarda” mento: egli non guarda, ma contempla quasi senza rendersene conto, come se fosse stanco oppure, nello stesso tempo, occupato da qualche altro più interessante argomento tanto che, solo di sfuggita e quasi involontariamente, può dedicare il suo tempo a quanto lo circonda. È contento perché fino al giorno dopo ha terminato i suoi noiosi affari, ed è allegro come uno scolaretto al quale è stato concesso di lasciare il banco della scuola per i suoi prediletti giuochi e le sue monellerie. Dategli un’occhiata di sfuggita, Nàstenka; noterete subito che un sentimento gioioso ha già agito felicemente sui suoi deboli nervi, sulla sua fantasia morbosamente eccitata. Ecco che si è abbandonato a qualche pensiero… Voi credete al pranzo? O alla serata che l’attende? Che cosa guarda in tal modo? Forse quel signore dall’aria rispettabile che con atteggiamento così pittoresco si è inchinato alla dama che gli è passata accanto in una brillante carrozza tirata da vivaci cavalli? No, Nàstenka, ha ben altro per il capo che simili futilità! Egli ora è già ricco di una sua vita particolare; è, per così dire, diventato ricco di colpo, e il raggio di addio del sole che si spegne ha brillato così gaiamente davanti ai suoi occhi e ha suscitato nel suo cuore riscaldato un vero sciame di impressioni. Ora egli nota appena quella strada della quale, prima, ogni piccolezza lo colpiva. Ora “la dea della fantasia” (se avete letto Žukovskij4, mia cara Nàstenka) ha già tessuto con la bizzarra mano la sua trama d’oro e ha cominciato a svolgergli dinanzi i rabeschi di una vita irreale e meravigliosa e, chi sa, forse con la sua bizzarra mano lo ha già trasportato dal solido marciapiede di granito, sul quale egli cammina verso casa, al settimo cielo cristallino. Provatevi a fermarlo, ora, e a chiedergli dove si trovi e quali vie abbia percorso; certamente non ricorderà nulla, né dove sia passato, né dove si trovi e, arrossendo di stizza, senza dubbio mentirà pur di salvare le apparenze. Ecco perché ha avuto un sussulto, ecco perché è stato lì lì per gridare e si è guardato attorno con spavento quando una molto rispettabile vecchietta lo ha fermato cortesemente in mezzo al marciapiede e ha cominciato a domandargli della strada che aveva smarrito. Fattosi cupo per il dispetto, egli cammina oltre, accorgendosi a mala pena che più di un passante ha sorriso e l’ha seguito con lo sguardo e che una ragazzetta la quale, timorosa, gli aveva ceduto il passo, è scoppiata in una fragorosa risata dopo aver guardato con gli occhi sgranati il suo largo sorriso contemplativo e i gesti delle sue mani. Ma quella stessa fantasia ha afferrato nel suo volo giocoso e la vecchietta e i passanti curiosi e la ragazzetta che rideva e i contadini i quali vegliano sui loro barconi che sbarrano la Fontanka (poniamo che proprio in quel momento passasse lunghesso il nostro eroe), ha monellescamente tratto nella sua trama tutto e tutti, come mosche in una ragnatela e, con il suo nuovo acquisto, il nostro originale individuo è già entrato nella sua confortevole, piccola tana, si è già seduto a tavola, da un pezzo ha già pranzato, e si è riavuto soltanto allorché la pensosa ed eternamente triste Matrëna che gli fa i servizi ha già sparecchiato la tavola e gli ha dato la pipa; si è riavuto e con stupore si è ricordato che da un pezzo ha finito di pranzare senza essersi assolutamente accorto di come ciò sia avvenuto. Nella stanza si è fatto buio; nella sua anima c’è vuoto e tristezza; tutto un regno di fantasticherie è crollato senza lasciar tracce, senza rumore, né scricchiolii, è svanito come un sogno, ed egli stesso non ricorda ciò che ha sognato. Ma una non so quale oscura sensazione che gli fa lievemente dolere e palpitare il petto, un non so quale desiderio tentatore eccita ed attrae la sua fantasia e, inavvertitamente, richiama tutto uno sciame di nuovi fantasmi. Nella piccola stanza regna il silenzio; la solitudine e la pigrizia accarezzano la sua immaginazione; essa si accende leggermente, leggermente ribolle come l’acqua nella caffettiera della vecchia Matrëna che placidamente sbriga le sue faccende lì accanto, in cucina, preparando il caffè. Ecco che essa già erompe con leggeri scoppiettii, ecco che un libro preso senza scopo, a casaccio, cade dalle mani del mio sognatore che non è giunto nemmeno alla terza pagina. La sua fantasia è di nuovo pronta, eccitata e, all’improvviso, ecco che un nuovo mondo, una nuova, affascinante vita risplende davanti ai suoi occhi nella sua brillante prospettiva. Un nuovo sogno, una nuova felicità! Un nuovo sorso di delizioso, raffinato veleno! Oh, che cosa c’è per lui nella nostra vita reale? Per il suo sguardo sedotto io e voi, Nàstenka, viviamo in un modo così pigro, lento, fiacco; per il suo sguardo noi tutti siamo così scontenti della nostra sorte e ci struggiamo talmente nella nostra vita! E, in verità, osservate come davvero, alla prima occhiata, tutto è freddo fra noi, cupo e come corrucciato… “Poveretti!” pensa il mio sognatore. E non fa meraviglia che pensi così. Guardate un po’ quelle magiche visioni che in modo così affascinante, così bizzarro e sconfinato si formano dinanzi a lui in un magico quadro pieno di vita, dove in primo piano il personaggio più importante è naturalmente lui, il nostro sognatore, con la sua preziosa persona! Guardate quali svariate avventure, quale infinito sciame di sogni entusiasmanti! Voi chiederete forse: che cosa sogna? A che scopo chiederlo? Ma sogna su tutto… sulla sorte del poeta, dapprima misconosciuto e poi incoronato; sull’amicizia con Hoffmann5; sulla notte di S. Bartolomeo6; su Diana Vernon7; sulla parte eroica avuta da Ivàn Vassìlevi alla presa di Kazàn8; su Klara Mowbry9; su Evfja Dens10; su Huss11 davanti al concilio dei prelati; sulla resurrezione dei morti nel Roberto12 (ne ricordate la musica? ha odore di cimitero); su Minna e Brenda13; sul passaggio della Beresina14; sulla lettura di un poema in casa della contessa V.D.; su Danton15; su Cleopatra e i suoi amanti16; su La casetta di Kolomna17; sul proprio angoletto accanto a una cara creatura che, in una serata d’inverno, vi ascolta con la boccuccia e gli occhietti spalancati come voi, mio piccolo angelo, state ora ascoltando me… No, Nàstenka, che cosa ci può essere per lui, voluttuoso pigrone, in quella vita della quale voi e io abbiamo tanto desiderio? Egli pensa che quella è una povera vita meschina, senza prevedere che anche per lui scoccherà la triste ora nella quale egli, per un solo giorno di quella triste, meschina vita darebbe tutti i suoi anni di fantasia, e inoltre non li darebbe per una gioia, per una felicità, né più vorrà scegliere in quell’ora di tristezza, di rimorso e di inevitabile dolore. Ma per adesso quel terribile momento non è giunto ancora; egli non desidera nulla perché è al di sopra di ogni desiderio, perché ha tutto, perché è sazio, perché egli stesso è l’artefice della sua vita e se la crea ogni giorno secondo un nuovo capriccio. E con quanta facilità, con quanta naturalezza si viene creando quel fiabesco, fantastico mondo! Come se tutto ciò non fosse una chimera! In verità, sono pronto a credere, in certi momenti, che tutta quella vita non sia un eccitamento dei sensi, non sia un miraggio, non un inganno dell’immaginazione, ma che sia una realtà viva, vera, efficiente! Perché mai, dite, Nàstenka, perché mai in tali momenti lo spirito si sente oppresso? Perché, per quale magia, per quale ignota forza il polso si accelera, sprizzano lacrime dagli occhi del sognatore, ardono le sue pallide, umide guance e tutto il suo essere si colma di una così indicibile gioia? Perché mai intere notti insonni passano in un attimo, in una inestinguibile felicità e gioia, e perché mai, quando l’alba brilla con la sua luce rosata attraverso la finestra e l’aurora rischiara la tetra stanza con la sua incerta fantastica luce, come accade da noi a Pietroburgo, il nostro sognatore, stanco ed esausto, si getta sul letto e si addormenta in un estatico venir meno del suo spirito morbosamente scosso, e con il cuore dolcemente e languidamente dolorante? Sì, Nàstenka, ci si può ingannare e credere, senza volerlo, che una vera, autentica passione gli agiti l’anima, credere che nei suoi incorporei sogni vi sia qualcosa di vivo, di palpabile! Eppure quale inganno! Ecco, per esempio, l’amore è sceso nel suo cuore con tutta la sua inesauribile gioia, con tutti i suoi penosi tormenti… Guardatelo soltanto un po’ e vi convincerete! Potreste pensare, guardandolo, mia cara Nàstenka, che egli non abbia mai realmente conosciuto colei che ha tanto amato nei suoi frenetici sogni? Credete possibile che egli l’abbia vista soltanto nelle sue affascinanti fantasticherie e, che quella passione l’abbia soltanto sognata? È possibile che quei due esseri non abbiano trascorso, mano nella mano, tanti anni della loro vita, soli, loro due, rinnegando tutto il mondo e riunendo il proprio mondo e la propria vita l’uno a quella dell’altro? E non è forse lei che a tarda ora, giunto il momento del distacco, era caduta singhiozzante e angosciata sul petto di lui senza sentire la tempesta che si era scatenata sotto il cupo cielo, senza udire il vento che strappava e portava lontano le lacrime dalle sue ciglia nere? È possibile che tutto ciò sia stato soltanto un sogno? Soltanto un sogno quel giardino triste, abbandonato e selvaggio, con i viottoli coperti di musco, desolato e solitario, dove essi così spesso hanno passeggiato insieme, hanno sperato, hanno sofferto, hanno amato così a lungo e con tanta tenerezza? E quella strana, antica casa nella quale essa è vissuta tanto tempo nella malinconia della solitudine, accanto a un marito vecchio e cupo, eternamente taciturno e bilioso, che incuteva loro spavento, a loro, timidi come bambini, che nascondevano tristi e pavidi il loro reciproco amore? Come si tormentavano, come erano pieni di paura, come puro e innocente era il loro amore e quanto (questo si sa, Nàstenka) malvagi erano gli uomini! E, mio Dio, non è forse lei che egli ha incontrato in seguito, lontano dai lidi della patria, sotto un cielo straniero, meridionale, caldo, in una città meravigliosamente eterna, nello splendore di un ballo, al suono della musica, in un palazzo (assolutamente in un palazzo) annegato in un mare di fuoco, su quel balcone avvolto di mirti e di rose dove lei, riconosciutolo, si è tolta rapidamente la maschera e mormorando: “Sono libera!” si è gettata tremando nelle sue braccia, ed essi, lanciando un grido di estasi, stringendosi l’uno all’altro, hanno in un istante dimenticato il dolore, la separazione, tutti i tormenti, e la casa tetra, e il vecchio marito, e il cupo giardino nella patria lontana, e il sedile di pietra dove, con un ultimo bacio appassionato, ella si era strappata dalle braccia di lui, irrigidite da uno strazio disperato? Oh, Nàstenka, convenite che c’è da sobbalzare, da turbarsi, da arrossire come uno scolaretto che ha appena cacciato in tasca una mela rubata nel giardino del vicino quando un qualche lungo, prestante giovanotto, allegro e mattacchione, il vostro inatteso amico, spalanca la vostra porta e grida come se nulla fosse: “Ma io, fratello, vengo in questo momento da Pavlovsk!” Mio Dio! Il vecchio conte è morto, sta per spuntare l’ora di una indicibile felicità e, proprio in quel momento, c’è gente che ti arriva da Pavlovsk!»
Tacqui pateticamente dopo aver finito le mie patetiche esclamazioni. Ricordo che avevo un pazzo desiderio di scoppiare in una risata forzata, perché già avevo sentito agitarsi in me un diavoletto ostile, qualcosa stringermi alla gola, il mento sussultare e i miei occhi inumidirsi sempre più… Mi aspettavo che Nàstenka, che mi aveva ascoltato con i suoi intelligenti occhietti spalancati, scoppiasse in quella sua fanciullesca, irrefrenabile e gaia risata, e già mi pentivo di essere andato tanto lontano e di avere inutilmente raccontato ciò che da tempo ribolliva nel mio cuore e che io potevo raccontare come se fosse stato scritto, perché già da tempo avevo preparato la mia sentenza e ora non avevo saputo trattenermi dal leggerla, dal confessarmi senza sperare di essere compreso; ma, con mio grande stupore, ella rimase in silenzio e, dopo aver atteso un po’, mi strinse la mano e, con timido accento di simpatia, mi chiese:
«È possibile che voi abbiate davvero vissuto così tutta la vostra vita?» «Tutta la mia vita, Nàstenka,» risposi «tutta la vita e, a quanto pare, la finirò anche così!»
«No, questo non dev’essere» mi disse lei, agitata. «Questo non accadrà; a questo modo, forse, io passerò tutta la vita accanto alla nonna. Ma sentite un po’: sapete che non è affatto bello vivere così?»
«Lo so, Nàstenka, lo so!» gridai, non più in grado di frenare il mio sentimento «E ora so, più che mai, di avere inutilmente perduto i miei anni migliori! Ora lo so, e questa consapevolezza me lo fa maggiormente sentire, perché è stato Iddio che vi ha mandata a me, mio buon angelo, per dirmi questo e per dimostrarmelo. Ora, quando vi sono accanto e parlo con voi, mi pare terribile pensare all’avvenire, perché nel futuro non vedo che solitudine, che una vita grama e inutile; e di che cosa potrò ancora sognare dopo che nella realtà sono stato così felice accanto a voi? Oh, siate benedetta, dolce fanciulla, perché non mi avete subito respinto al primo momento, perché ormai posso dire di aver vissuto almeno due sere nella vita!»
«Oh no, no!» esclamò con forza Nàstenka, mentre due lacrimucce brillavano nei suoi occhi «no, questo non accadrà più, noi non ci separeremo così! Che cosa sono mai due sere?»
«Oh, Nàstenka, Nàstenka! Lo sapete per quanto tempo mi avete riconciliato con me stesso? Lo sapete che ormai non potrò più pensare così male di me, come mi accadeva in certi momenti? Sapete che forse non proverò più l’angoscia di aver commesso un delitto e un peccato nella mia vita, perché una vita come la mia è delitto e peccato? E non credete che io abbia esagerato, non credetelo, per amor di Dio, Nàstenka, perché a volte mi colgono certi momenti di tale angoscia, di tale angoscia che… Perché già in quei momenti comincio a pensare che non sarò mai più capace di vivere una vita reale, perché mi è già sembrato di aver perduto ogni sensibilità, ogni fiuto per ciò che è vero e reale; perché, infine, ho maledetto me stesso; perché, dopo le mie fantastiche notti, mi colgono dei momenti di ritorno alla realtà che sono terribili! Frattanto senti che attorno a te rumoreggia e tùrbina nel vortice della vita l’umana folla; senti e vedi come vivono gli uomini, come vivono nella realtà, vedi che per loro la vita non è circoscritta, che non si dissolverà come un sogno, come una visione, ma che, in continuo rinnovamento, è sempre giovane, che in essa non esiste un’ora simile all’altra, mentre è così triste e monotona sino alla nausea la timida fantasia, schiava di un’ombra, di un’idea, schiava della prima nuvola che a un tratto offusca il sole e stringe d’angoscia un vero cuore pietroburghese che ha tanto caro il proprio sole, e nell’angoscia quale fantasia vi può essere? Senti che questa inesauribile fantasia finisce con lo stancarsi e con l’esaurirsi in un’eterna tensione perché tu, infine, diventi più uomo, ti sbarazzi dei tuoi ideali di un tempo; essi si riducono in polvere, si frantumano e, se non c’è un’altra vita, ti tocca ricostruirla con quegli stessi frantumi. E frattanto l’anima chiede, esige qualcos’altro! E invano il sognatore fruga, come nella cenere, nei suoi vecchi sogni, cercando in quella cenere una sia pur piccola scintilla per ravvivarla, e con il rinnovato fuoco riscaldare il cuore intirizzito e far risuscitare in esso tutto quanto vi era prima di così caro, che toccava l’anima, che faceva ribollire il sangue, che strappava le lacrime dagli occhi e con tanta magnificenza ingannava! Sapete, Nàstenka, a che cosa sono giunto? Sapete che ormai sono costretto a celebrare l’anniversario delle mie sensazioni, l’anniversario di ciò che un tempo mi fu così caro, di ciò che, in sostanza, non è mai esistito, giacché quell’anniversario viene celebrato per gli stessi stupidi, incorporei sogni, e a fare questo perché anche di questi stupidi sogni non ce ne sono più, perché non so come sbarazzarmi di loro: giacché anche dei sogni ci si sbarazza! Sapete che ora io amo ricordare e visitare in un dato tempo i luoghi dove un giorno ero stato a modo mio felice, amo costruire il mio presente armonizzandolo con ciò che è passato e non ritornerà mai più e che spesso vago come un’ombra, senza scopo e senza meta, triste e avvilito, per i vicoletti e le vie di Pietroburgo? Quali, quanti ricordi! Mi torna alla memoria, per esempio, che qui, proprio un anno addietro, in questo stesso periodo, in questa precisa ora, erravo per questo medesimo marciapiede, sconsolato come adesso! E ti viene da pensare che anche allora i sogni erano tristi e, sebbene anche prima nulla ci fosse di più lieve, hai tuttavia l’impressione che tutto, invece, lo fosse e che vivere fosse più facile e più tranquillo, e che non ci fossero questi neri pensieri che ora ti serrano nella loro morsa, questi rimorsi tetri, cupi che ora non ti danno pace né giorno, né notte! E ti chiedi: dove sono dunque i sogni tuoi? E, scotendo il capo, dici: come veloci volano gli anni! E ancora ti chiedi: che ne hai fatto di quei tuoi anni? dove hai seppellito il tuo tempo migliore? Sei vissuto oppure no? Guarda, dici a te stesso, guarda come il mondo diventa freddo! Passeranno ancora degli anni e dopo di essi verrà la cupa solitudine, verrà, appoggiata alle stampelle, la tremante vecchiaia, e poi angoscia e desolazione… Impallidirà il tuo fantastico mondo, appassiranno e moriranno i sogni tuoi e cadranno come le foglie gialle dagli alberi… Oh, Nàstenka! Sarà triste restar solo, completamente solo, e non avere neppur nulla da rimpiangere, nulla, proprio nulla… perché tutto quanto perderò, non è stato che nulla, uno stupido, tondo zero, nient’altro che sogno!»
«Su, basta, non commovetemi di più!» esclamò Nàstenka, asciugandosi una lacrimuccia che le sgorgava dagli occhi «Ora è finito! Ora saremo in due; ora, qualsiasi cosa mi accada, non ci separeremo più. Sentite: io sono una ragazza semplice, ho studiato poco sebbene la nonna mi abbia preso un maestro; ma, in verità, vi capisco, perché tutto ciò che mi avete ora raccontato l’ho già io stessa vissuto quando la nonna mi ha appuntato con lo spillo al suo vestito. Certo, non avrei saputo raccontarlo così bene come avete fatto voi, io non ho studiato,» aggiunse timidamente, perché provava tuttora un certo qual rispetto per il mio patetico racconto e il mio stile elevato «ma sono assai contenta che vi siate interamente confidato con me. Ora vi conosco, vi conosco bene, tutto… E sapete che cosa! Voglio anch’io raccontare la mia storia, senza sotterfugi e voi, dopo, mi darete un consiglio, Siete un uomo molto intelligente: promettete di darmi quel consiglio?»
«Ah, Nàstenka!» risposi «Sebbene io non sia mai stato un consigliere e, tanto meno, un consigliere intelligente, tuttavia ora vedo che se noi vivremo sempre così, sarà una cosa in certo qual modo intelligente, e ciascuno di noi darà all’altro moltissimi saggi consigli. Suvvia, mia graziosa Nàstenka, quale consiglio volete da me? Parlatemi francamente; io mi sento ora così lieto, così felice, così audace e intelligente che non dovrò frugare nelle tasche per trovare le parole…»
«No, no!» m’interruppe Nàstenka, mettendosi a ridere «Non mi occorre soltanto un consiglio intelligente, mi occorre un consiglio amorevole, fraterno, come se già mi aveste amata tutta la vita!»
«D’accordo, Nàstenka, d’accordo!» esclamai in estasi «E, se anche vi amassi già da vent’anni, non potrei amarvi più di quanto non vi ami adesso!».
«La vostra mano!» disse Nàstenka. «Eccola!» risposi, porgendogliela. «Cominciamo allora la mia storia!»
La storia di Nàstenka
«Metà della mia storia la conoscete già, cioè sapete che ho una vecchia nonna…»
«Se l’altra metà è lunga come questa…» la interruppi, ridendo.
«Tacete e ascoltate. Prima di tutto, un patto: non dovete interrompermi, altrimenti, magari, mi succede di non riuscire più ad andare avanti. Ascoltatemi. Io ho una vecchia nonna. Capitai da lei quando ero ancora bambinetta, perché avevo perduto il babbo e la mamma. C’è da pensare che un tempo la nonna fosse più ricca, perché anche ora ricorda giorni migliori. Fu lei stessa a insegnarmi il francese e, in seguito, a prendermi un maestro. Quando ebbi quindici anni (ora ne ho diciassette), abbandonai lo studio. Proprio a quel tempo combinai una marachella; quello che feci non ve lo dirò; vi basti sapere che non si tratta di cosa grave. Tuttavia la nonna, un bel mattino, mi chiamò a sé e mi disse che, essendo cieca, si trovava nell’impossibilità di sorvegliarmi; prese uno spillo, appuntò il suo vestito al mio e aggiunse che da allora saremmo rimaste così per tutta la vita a meno che, si capisce, io non fossi diventata più buona. Insomma, i primi tempi non era possibile in alcun modo allontanarmi: lavorare, leggere, studiare, tutto accanto alla nonna. Una volta provai a giocare d’astuzia e convinsi Fëkla a prendere il mio posto. Fëkla, una donna che ci fa i servizi, è sorda. Si sedette al mio posto; la nonna, intanto, si era addormentata nella sua poltrona, e io mi recai a trovare un’amica, non lontano. Ma la faccenda finì male. La nonna, durante la mia assenza, si svegliò e chiese qualcosa, credendo che io fossi sempre tranquillamente seduta vicino a lei. Fëkla vede, sì, che la nonna chiede qualcosa, ma non sente che cosa; poi, pensa e ripensa… che cosa fa? Stacca lo spillo e via di corsa…»
A questo punto Nàstenka si fermò e cominciò a ridere forte. Io presi a ridere con lei. Allora ella smise subito.
«Ascoltatemi, non dovete ridere della nonna. Io rido perché la cosa è buffa… Che farci se la nonna è così? Però io, nonostante tutto, un po’ di bene glielo voglio. Be’, quella volta le buscai anche; immediatamente ripresi il mio posto, e non mi fu più possibile muovermi… Ho dimenticato di dirvi che noi, ossia la nonna, ha una casa propria o, per meglio dire, una casetta con tre finestre in tutto, interamente di legno, e vecchia quanto la nonna; di sopra c’è un mezzanino; ed ecco che in quel mezzanino venne ad abitare un nuovo inquilino…»
«Sicché, prima ce n’era stato un altro?»
«Certo, che c’era stato,» rispose Nàstenka «e sapeva tacere meglio di voi. A dire il vero, moveva appena la lingua. Era un vecchietto secco, muto, cieco e zoppo, tanto che, un bel momento, non gli fu più possibile continuare a vivere così, e morì; ma poi avemmo bisogno di un nuovo pigionale, non possiamo tirare avanti; questo, unito alla pensione della nonna, costituisce quasi tutte le nostre entrate. Il nuovo pigionale, nemmeno a farlo apposta, era un giovanotto non di qui, ma di passaggio, poiché non contrattò sul prezzo, la nonna lo accolse subito, ma poi mi domandò: “Dimmi, Nàstenka, il nostro nuovo inquilino è giovane o no?” Io, non volendo mentire, risposi: “Nonna, non è proprio giovane, ma neppure si può dire vecchio…”
“Bene, ed è di bell’aspetto?” domanda la nonna.
Non volli mentire neppure quella volta. “Sì” dico “di piacevole aspetto, nonna!” E la nonna dice: “Ah, che castigo, che castigo! Ti dico questo, nipote, perché tu non lo guardi troppo. Che tempi sono questi! Ma guarda un po’: un inquilino meschinello, ed è anche di bella presenza. Non era così ai miei tempi!”
La nonna, lei, avrebbe voluto che tutto fosse come ai suoi tempi! Ai suoi tempi lei era più giovane, ai suoi tempi il sole era più caldo e persino la panna, ai suoi tempi, non diventava acida così presto! Io, intanto, me ne sto lì seduta e taccio, ma penso: che dunque mi vuole suggerire la nonna, chiedendomi se l’inquilino è bello e giovane? Ma lo pensai così, lo pensai di sfuggita, e subito ripresi a contare le maglie, a fare la calza e poi me ne dimenticai completamente.
Ecco che una mattina viene da noi l’inquilino per parlare della promessa che gli avevamo fatto di cambiare la tappezzeria nella sua stanza. Una parola dopo l’altra, la nonna, che è una chiacchierona, mi dice: “Nàstenka, va’ nella mia camera a prendere il pallottoliere”. Balzai subito in piedi, mi feci tutta rossa, non so perché, e mi dimenticai di essere appuntata con lo spillo; invece di staccarmi alla chetichella affinché l’inquilino non vedesse, diedi un tale strappo che mi trascinai dietro la poltrona della nonna. Quando vidi che, ormai, l’inquilino sapeva tutto di me, arrossii, rimasi sul posto come impietrita e, a un tratto, scoppiai in pianto; provai in quel momento tanta vergogna e tanta amarezza che non avrei più voluto vedere la luce! La nonna gridò: “Perché te ne stai lì impalata?” e io, sempre peggio… L’inquilino, quando vide che mi vergognavo di lui, salutò e se ne andò subito.
Da allora, non appena udivo rumore nell’ingresso, mi pareva di morire. Ecco, pensavo, ora viene… e pian piano, a ogni buon conto, staccavo lo spillo. Solamente non era mai lui, non si faceva più vedere. Passarono due settimane; l’inquilino mandò a dire per mezzo di Fëkla che egli aveva molti libri francesi, tutti belli e che si potevano leggere; non desiderava, forse, la nonna, che io glieli leggessi per scacciar la noia? La nonna accettò con gratitudine, ma solo volle sapere se fossero libri morali o no perché “se si trattasse di libri immorali” diceva “tu, Nàstenka, non li potresti assolutamente leggere, perché non impareresti che il male.” “Ma che cosa imparerei, nonna? Che cosa c’è scritto?” “Eh,” dice “è scritto in che modo i giovanotti seducono le fanciulle perbene, come essi, con il pretesto di volerle sposare, le portano via dalla casa paterna, come poi abbandonano queste sventurate fanciulle in balia del destino e come esse si perdono nel più penoso dei modi. Io” dice la nonna “ne ho letti molti di quei libri, e tutto vi è così ben descritto che passeresti la notte a leggerli di nascosto. E così tu, Nàstenka, bada, eh, di non leggerli! Che libri ti ha mandato?”
“Sono tutti romanzi di Walter Scott, nonna.”
“Romanzi di Walter Scott! Basta, non ci sarà mica qualche intrigo, lì sotto? Guarda un po’ che non ci abbia ficcato in mezzo qualche bigliettino amoroso…”
“No, nonna, non ci sono biglietti.”
“E guarda anche sotto la rilegatura: a volte, i bigliettini li ficcano sotto la rilegatura, quei mascalzoni…”
“No, nonna non c’è niente neppure sotto la rilegatura.” “Be’, allora va bene…”
Ed ecco che cominciammo a leggere Walter Scott e, in un mese circa, ne leggemmo quasi la metà. Poi l’inquilino ne mandò altri e altri ancora. Mandò anche Puškin, cosicché, alla fine, non potevo più stare senza libri e smisi persino di pensare al modo di sposare un principe cinese…
Eravamo a questo punto quando, una volta, mi accadde di incontrare per le scale il nostro inquilino. La nonna mi aveva mandato a fare non so più che cosa. Egli si fermò, io arrossii e arrossì lui pure; però si mise a ridere, mi salutò, chiese notizie della nonna e mi disse: “Ebbene, li avete letti i libri?” Gli risposi: “Li ho letti”. “Che cosa” chiese “vi è piaciuto di più?” Gli risposi: “Ivanhoe e Puškin mi sono piaciuti più di tutti”. Per quella volta finì così.Una settimana dopo, m’imbattei di nuovo in lui sulle scale. Quella volta
non mi aveva mandata la nonna, ma ero uscita perché avevo da fare una commissione per conto mio. Erano quasi le tre, e l’inquilino rientrava in casa. “Buongiorno” disse, e io a lui: “Buongiorno!”
“Ma ditemi un po’, non vi annoiate a stare tutto il giorno con la nonna?” Non appena mi ebbe fatto questa domanda, arrossii, non so perché, provai vergogna e rimasi mortificata, evidentemente perché anche gli altri avevano ormai cominciato a farmi domande su quella faccenda. Volevo quasi non rispondere, ma non ebbi la forza di farlo. “Sentite,” mi dice “volete venire a teatro con me?” “A teatro? E come faccio con la nonna?”
“E voi” dice “venite di nascosto dalla nonna…”
“No” gli rispondo “la nonna non la voglio ingannare. Addio!” “E allora, addio!” e non aggiunse altro.
Ma dopo pranzo venne da noi, si mise a sedere e parlò a lungo con la nonna, le chiese se qualche volta uscisse, se avesse conoscenze e poi, a un tratto, disse: “Oggi ho preso un palco per l’opera. Rappresentano Il barbiere di Siviglia. Dovevano venire con me certi amici, ma poi hanno rinunziato e così mi è rimasto il biglietto”.
“Il barbiere di Siviglia!” esclamò la nonna “Ma è quello stesso Barbiere che si dava ai miei tempi?”
“Sì,” rispose lui “è lo stesso” e mi gettò un’occhiata.
Io, allora, capii tutto, arrossii, e il cuore si mise a saltellare per l’ansia dell’attesa.
“E come non conoscerlo?” dice la nonna “Io stessa, ai miei tempi, facevo la parte di Rosina nel teatro di casa!”
“E non avreste voglia di andarci stasera?” disse l’inquilino “Ho un biglietto che andrebbe sciupato.”
“Sì, forse ci andremo;” dice la nonna “perché non andarci? Ecco, la mia Nàstenka non è mai stata a teatro…”
Mio Dio, quale gioia! Ci preparammo immediatamente, prendemmo tutto il necessario e andammo. La nonna, benché cieca, desiderava tuttavia sentire la musica e, oltre a ciò, era una buona vecchietta; soprattutto voleva che io mi divertissi un po’ e noi, per conto nostro, non ci saremmo mai decise. Quanto all’impressione che mi fece Il barbiere di Siviglia, non starò a dirvela; ma per tutta la sera il nostro inquilino mi guardò così affettuosamente, parlò così affettuosamente che io subito capii che egli, la mattina, aveva voluto provarmi, proponendomi di andare sola con lui. Quale gioia! Andai a coricarmi così fiera, così allegra… e il cuore mi batteva talmente che mi venne una leggera febbre e tutta la notte delirai pensando al Barbiere di Siviglia.
Credevo che dopo di questo egli sarebbe venuto a trovarci sempre più spesso, ma non fu così. Smise quasi del tutto di farsi vedere. Così capitava che venisse sì e no una volta al mese per invitarci a teatro. Ci siamo andate un paio di volte ancora. Ma io non ero affatto contenta. Vedevo che egli aveva semplicemente compassione di me per il fatto che vivevo così solitaria in casa della nonna, ma niente di più. E avanti, avanti a questo modo, finì così: seduta non ci stavo, leggere non leggevo, lavorare non lavoravo, qualche volta ridevo e facevo qualche dispetto alla nonna, tal altra semplicemente piangevo. Alla fine smagrii e poco mancò che non mi ammalassi. La stagione dell’opera era finita, e il nostro inquilino smise del tutto di venire da noi; quando c’incontravamo, sempre s’intende per quella medesima scala, egli mi salutava in silenzio, con un’aria così seria come se non avesse alcuna voglia di parlare e, mentre lui era già del tutto fuori, io continuavo a star ferma a metà scala, rossa come una ciliegia perché, ormai, ogniqualvolta m’incontravo con lui, tutto il sangue mi saliva alla testa.
E ora siamo subito alla fine. Giusto un anno fa, nel mese di maggio, l’inquilino viene da noi e dice alla nonna che ha portato a buon fine i suoi affari e che ora deve andare a Mosca per un anno. All’udir questo, impallidii e mi abbandonai su una sedia, come morta. La nonna non si accorse di nulla ed egli, dopo avere annunziato che ci lasciava, ci salutò e se ne andò.
Che dovevo fare? Pensa e ripensa, angustiati e angustiati, presi finalmente una decisione. Il giorno dopo egli doveva partire, e io stabilii che avrei concluso tutto la sera stessa, quando la nonna fosse andata a dormire. E così fu. Legai in un fagottello tutto ciò che possedevo di abiti e quanto mi occorreva di biancheria e, con il fagottello in mano, più morta che viva, salii al mezzanino dal nostro inquilino. Credo di essere rimasta un’ora intera per le scale. Quando, poi, aprii la sua porta egli, nel vedermi, mandò un grido. Pensò che io fossi un fantasma e si precipitò a darmi dell’acqua perché a stento mi reggevo sulle gambe. Il cuore mi batteva talmente che la testa mi doleva, e mi si offuscò la ragione. Quando mi riebbi, cominciai con il posare il fagottello sul suo letto, mi ci sedetti accanto, mi coprii il viso con le mani e scoppiai in un pianto dirotto. Egli, a quanto pare, aveva capito tutto in un attimo e, in piedi davanti a me, mi guardava con tanta tristezza che mi sentii spezzare il cuore.
“Sentite,” cominciò “sentite, Nàstenka, io non posso far niente. Sono un uomo povero, non possiedo nulla e, per ora, nemmeno un posto decente; come potremmo vivere, se vi sposassi?”
Parlammo a lungo ma io, alla fine, in preda alla frenesia, dissi che dalla nonna non potevo più vivere, che sarei fuggita, che non volevo più essere attaccata con uno spillo e che, se egli voleva, sarei andata con lui a Mosca perché, senza di lui, non potevo più vivere. E la vergogna, l’amore, l’orgoglio parlavano in me tutti insieme, e io caddi sul letto quasi in convulsioni. Avevo una tal paura di un rifiuto!
Egli rimase seduto per qualche minuto in silenzio, poi si alzò, mi venne vicino e mi prese una mano.
“Ascoltate, mia buona, mia cara Nàstenka!” prese a dire anch’egli tra le lacrime “Ascoltate! Vi giuro che, se un giorno sarò in condizione di sposarmi, sarete voi, assolutamente voi sola, a formare la mia felicità; vi assicuro che voi sola ormai potete rendermi felice. Sentite, ora andrò a Mosca e ci resterò un anno giusto. Spero di poter sistemare i miei affari. Quando tornerò, se voi mi amerete ancora, vi giuro che saremo felici. Ora non è possibile, ora io non posso, non ho il diritto di promettere alcunché. Ma vi ripeto che, se questo non accadrà tra un anno, accadrà senza fallo un giorno a meno che, si capisce, voi non mi abbiate preferito un altro, giacché io non posso e non oso legarvi con una qualsiasi parola.”
Ecco che cosa egli mi disse, e all’indomani partì. Fu stabilito di non dire alla nonna neppure una parola di tutto questo. Così volle lui. Ecco, ora la mia storia è quasi finita. È passato un anno giusto. Egli è arrivato, egli è qui da tre giorni interi e, e…»
«E che cosa, dunque?» gridai, impaziente di udire la fine.
«E finora non è venuto!» rispose Nàstenka, come raccogliendo tutte le sue forze «Non si è fatto vivo!»
A questo punto si fermò, rimase un po’ in silenzio, chinò il capo e a un tratto, coprendosi il viso con le mani, scoppiò in singhiozzi tali che il mio cuore ne fu sconvolto.
Non mi attendevo in alcun modo una simile conclusione.
«Nàstenka!» cominciai con voce timida e insinuante «Nàstenka, in nome di Dio, non piangete! Come fate a saperlo? Forse egli non è ancora qui…»
«È qui, è qui!» insisté Nàstenka «È qui, lo so. C’è stato un patto tra noi, quella sera stessa, vigilia della sua partenza; quando già ci eravamo detto tutto ciò che vi ho raccontato e ci eravamo messi d’accordo su tutto, scendemmo qui a passeggiare, proprio su questo lungofiume. Erano le dieci; eravamo seduti su questa panchina; io non piangevo più e mi era dolce ascoltare ciò che egli diceva… Disse che, non appena arrivato, sarebbe venuto da noi e che, se io non l’avessi respinto, avremmo detto tutto alla nonna. È arrivato, lo so, e non viene, non viene!» E di nuovo scoppiò in pianto.
«Mio Dio! Ma non è dunque possibile rimediare al vostro dolore?» gridai, balzando in piedi, in preda alla disperazione «Ditemi, Nàstenka, non potrei recarmi io da lui?»
«Ma vi pare possibile questo?» chiese lei, sollevando subito il capo.
«No, si capisce, no!» osservai, riprendendomi «Ma ecco: scrivetegli una lettera.»
«No, è impossibile, non si può!» rispose ella con decisione, ma abbassando il capo e senza guardarmi.
«Come, non è possibile? E perché non è possibile?» proseguii, aggrappandomi alla mia idea «Ma sapete, Nàstenka, che genere di lettera? C’è lettera e lettera e… Ah, Nàstenka, è così! Fidatevi di me, fidatevi di me! Io non vi darò un cattivo consiglio! Tutto questo si può sistemare. Voi avete già fatto un primo passo, perché dunque ora…»
«Non si può, non si può! È come se volessi appiccicarmi a lui…»
«Ah, mia buona Nàstenka!» la interruppi, senza nascondere un sorriso «No, no! Voi, infine, siete nel vostro diritto, perché egli ve l’ha promesso. Sì, da tutto io capisco che egli è un uomo delicato, che ha agito bene» continuai, sempre più entusiasmato dalla logica delle mie convinzioni e deduzioni. «Come ha agito? Si è impegnato con una promessa. Ha detto che non avrebbe sposato altra donna che voi, se sarà in condizione di sposarsi; a voi, invece, ha lasciato piena libertà di rinunziare a lui anche adesso… Così stando le cose, voi potete fare il primo passo, ne avete il diritto, avete su di lui un vantaggio, non fosse altro, per esempio, se voleste scioglierlo dalla parola data.»
«Ditemi, come scrivereste?» «Che cosa?»
«Ma questa lettera!»
«Ecco come io scriverei: “Egregio signore…”»
«Ma sarebbe proprio necessario scrivere “Egregio signore?”» «Assolutamente. Del resto, perché poi? Io credo che…» «Su, su, e poi?»
«“Egregio signore! Scusate se io…” ma no, non occorre alcuna scusa! Qui il fatto stesso giustifica tutto: scrivete semplicemente:
Vi scrivo. Perdonate la mia impazienza ma io, per un anno intero, sono vissuta felice nella speranza. Sono forse colpevole se ora non posso più sopportare neppure un giorno di dubbio? Forse, ora che siete arrivato, avete mutato le vostre intenzioni. Allora questa lettera vi dirà che io non mi lamento e non vi accuso. Non vi accuso perché non ho potere sul vostro cuore; tale è, ormai, si vede, il mio destino! Voi siete un uomo d’onore. Non sorridete e non irritatevi per le mie righe impazienti. Pensate che le ha scritte una povera fanciulla, che ella è sola, che non ha nessuno che le possa insegnare, né dare un consiglio e che non è mai stata capace di padroneggiare il proprio cuore. Ma perdonatemi se nella mia anima, sia pure per un attimo solo, si è insinuato il dubbio. Voi siete incapace di offendere anche soltanto con il pensiero colei che vi ha tanto amato e tanto vi ama!»
«Sì, sì! Proprio così avevo pensato io!» gridò Nàstenka, e i suoi occhi sfavillarono di gioia «Oh, voi avete risolto i miei dubbi… è stato Iddio che vi ha mandato a me. Vi ringrazio, vi ringrazio!»
«Per che cosa? Perché Iddio mi ha mandato?» risposi, guardando estatico il suo visetto gioioso.
«Sì, anche per questo.»
«Ah, Nàstenka! Non ringraziamo forse certe persone per il solo fatto che vivono con noi? Io vi ringrazio perché vi ho incontrata e per questo vi ricorderò tutta la vita!»
«Suvvia, basta, basta! E ora ecco di che si tratta, ascoltate: stabilimmo allora che, non appena egli fosse arrivato, avrebbe subito dato sue notizie, lasciando per me una lettera in un certo posto, presso alcuni miei conoscenti, persone semplici e buone, che non sanno nulla di tutto questo; oppure, se non gli fosse stato possibile scrivermi una lettera perché non sempre in una lettera si può dire tutto, il giorno stesso del suo arrivo, alle dieci in punto, sarebbe stato qui, dove avevamo deciso di incontrarci. Io so già del suo arrivo, ma ormai siamo al terzo giorno e non si vede né lui, né una lettera. Allontanarmi dalla nonna, di mattina, non mi è assolutamente possibile. Consegnate voi stesso domani la mia lettera a quelle brave persone di cui vi ho parlato; esse gliela faranno avere e, se ci sarà una risposta, me la porterete voi stesso alle dieci di sera.»
«Ma la lettera, la lettera! È necessario che prima scriviate la lettera. Così tutto si potrà fare dopodomani.»
«La lettera…» rispose Nàstenka un po’ turbata «la lettera… ma…»
Non terminò la frase. Dapprima voltò da un’altra parte il suo visetto, arrossì come una rosa e, d’improvviso, sentii nella mia mano la lettera, evidentemente scritta già da un pezzo, pronta e sigillata. Un ricordo noto, caro e gentile mi passò per la mente: «R-o-Ro, si-si-na-na…» cominciai. «Rosina!» ci mettemmo a cantar tutti e due, io quasi abbracciandola per l’entusiasmo, ella arrossendo quanto è possibile arrossire e ridendo attraverso le lacrime le quali, simili a piccole perle, tremolavano sulle sue ciglia nere.
«Be’, basta, basta adesso! Addio, per ora!» disse ella, parlando in fretta «Eccovi la lettera ed eccovi l’indirizzo dove portarla. Addio! A rivederci! A domani!»
Mi strinse con forza tutt’e due le mani, abbassò il capo e, rapida come una freccia, sparì nel suo vicoletto. Rimasi a lungo fermo al mio posto, accompagnandola con lo sguardo.

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