Darkness

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Darkness

Buio. Tutto intorno a me era oscurità, mi ritrovavo sola.
Non sapevo dove mi trovassi, ma avevo un'insolita paura, paura di cosa mi sarebbe potuto accadere.
Ero raggomitolata su me stessa in un angolo di quella che credevo fosse una stanza, ma era troppo piccola per esserlo, lo sentivo dall'aria che si faceva sempre più soffocante.
Più tempo stavo lì dentro più mi mancavano le forze, non riuscivo ad alzarmi, le gambe mi tremavano, non reggevano il mio peso.
Non ricordavo come fossi arrivata fin lì, non ricordavo cosa mi fosse successo, solo un'ombra.
Una sagoma che si avvicinava sempre più a me, e la mia paura che si faceva sempre più profonda. Poi il buio.
E mi risvegliai in questo cunicolo, frantumata, rotta, spaesata, stanca, impaurita.
Avevo lividi dappertutto.
In mente solo una certezza: mi avevano violentata.
Iniziai a piangere, ad urlare.
Non era così che avevo immaginato la mia prima volta.
Niente petali di rosa, niente cielo stellato.
Nessun picnic. Nessuna cena a lume di candela.
Non quegli occhi verdi.
Non quell'amore.
Non le sue mani delicate sul mio corpo.
Non le sue labbra bramose delle mie.
Nulla di tutto ciò.
Strinsi forte le gambe al mio petto.
Un dolore lancinante mi attraversava il corpo.
Pensai solo a quella voce.
Violenta. Perversa. Sadica.
Sei solo una puttana.
Quella frase impressa nella mia mente.
Non riuscivo a sopportare che qualcuno avesse potuto torturarmi così.
Sentivo ancora il ribrezzo che mi provocavano quelle mani sul mio corpo.
Iniziai a gridare.
Un urlo straziante, un pianto di rabbia e terrore.
A quel punto sentii dei passi e delle voci silenziose che parlottavano su cosa farne adesso di me.
Due uomini.
Quella voce.
« Cazzo amico, fammi entrare da lei » diceva.
Era il mio stupratore, l'avevo riconosciuto, quella voce che mi penetrava dentro con violenza.
Scacciai subito quei pensieri e continuai ad ascoltare.
« No amico, è senza forze, la ucciderai così » rispose l'altro.
Mi volevano viva.
Lo stupratore – perché è così che lo rinominai – scoppiò a ridere, era ubriaco fradicio.
« Vai a dormire » disse l'altro.
Lo stupratore lo ascoltò.
Riuscii a capirlo dal suono di quei pesanti passi che si facevano sempre più lontani.
L'altro invece rimase lì.
Lo immaginai spalle contro il muro e braccia incrociate a sorvegliare la mia cella.
Poi sentii qualcosa, due parole dette piano per non farsi sentire « Mi dispiace » disse.
Con chi stava parlando? Con se stesso?
O forse con me? Forse si era pentito.
Forse lui non c'entrava nulla in tutta questa merda.
Sentii un tonfo, credevo avesse tirato un pugno sul muro.
Poi silenzio.
Continuai a pensare a quelle parole, e stanca mi addormentai.
Mi svegliai di soprassalto, non saprei dire quanto avessi dormito se per un'ora, un giorno o anche solo dieci minuti.
Da quando ero rinchiusa lì dentro avevo perso la cognizione del tempo.
Sapevo solo quando era ora di mangiare perché uno dei due rapitori apriva la porta e mi portava un vassoio di qualcosa di appiccicoso che immaginavo fosse purè di patate e un bicchiere d'acqua.
In fin dei conti si stavano prendendo cura di me.
"No amico. E' senza forze, la ucciderai così"
Mi tornarono in mente quelle parole, mi stavano trattando come se fossi Hansel della famosa favola che mia madre mi raccontava da bambina.
Hansel e Gretel incappati nella casetta di pan di Zenzero della strega, ammaliati dai dolciumi con i quali la strega li ingozzava per poi mangiarli.
Mi davano forze, mi facevano mangiare per poi violentarmi di nuovo, con più violenza, torturandomi come la prima volta.
Ebbi un flash.
Manette. Corde. Frusta. Io che grido. Lui dentro di me. Io che mi dimeno.
Lui che mi blocca.
Mi tappa la bocca legandomi uno straccio.
Lui che mi guarda. Io che lo supplico.
Neanche un briciolo di compassione, neanche un briciolo di pietà.
Solo desiderio prorompente. Violenza. Crudeltà.
Solo le mie lacrime.
Il rumore dei passi mi distolse dai miei pensieri.
La porta si aprì di nuovo.
Un uomo sulla soglia mi guardava disgustato.
« Devi darti una ripulita » mi disse, si avvicinò a me e mi prese da un braccio « Alzati! » urlò stringendo la presa sul mio polso.
Cercai con tutte le mie forze di rialzarmi, mi appoggiai al muro ma mi accasciai subito a terra. L'uomo mi diede un calcio « Ormai sei carta straccia, non so perché ti devono lasciare in vita » un altro calcio, più forte allo stomaco.
Feci un verso per il dolore, lui avvicinò il suo volto al mio.
«Stai zitta, non gridare » disse, cercando di addolcire la voce, ma tirandomi i capelli.
« sh .. sh.. » continuava a ripetere « Se stai zitta non ti farò del male ».
Altri passi, più veloci.
« Che stai facendo? » l'uomo aveva la voce dello stesso che la volta precedente aveva detto " mi dispiace", ero sicura fosse lui. « Che stai facendo? » gli urlò contro.
« La signorina si deve dare una ripulita e la stavo aiutando ad alzarsi » mi guardò, come a dirmi non fiatare, io lo feci.
Sia per paura, sia perché non ricordavo più come si parlasse.
L'uomo, che da vicino sembrava molto più un ragazzo, mi si avvicinò e mi sorrise.
« Puoi andare » si rivolse a lui, quello uscì dal cunicolo e se ne andò.
Il ragazzo aveva due strani occhi neri come il colore della notte, si abbassò e mi prese in braccio.
Non riuscivo a sopportare nessun contatto fisico.
Mi dimenai tra le sue braccia.
Iniziai a gridare.
Tremavo.
« Non devi avere paura di me »
Al suono della sua voce, mi arrestai.
Mi rasserenava, ma non ne conoscevo il motivo.
« Ora vieni a darti una ripulita » mi disse.
Lo guardai ancora una volta negli occhi e non so perché ma mi fidavo di lui.


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