Chiudo gli occhi e precipito nel vuoto.
La testa prende a girare vorticosamente, circondata da un'unica, profonda oscurità. Poi all'improvviso una luce. Una luce pallida, pulita che mi riallaccia al presente.
I miei piedi sono nudi, freddi, umidi, scivolano su quella che scopro essere rugiada. Cammino su una distesa di erba fresca. Quando i miei occhi si adattano alla luce grigia che domina il posto, la mia testa scava a fondo nella memoria nel vano tentativo di ricollegare questo luogo ad un ricordo. Nulla. I cassetti della mia memoria sono sgombri. Non ci sono più immagini, profumi, sensazioni felici né attimi tristi. Niente. Un'eco sorda.
Il mio sguardo vaga lungo i fili d'erba ed oltre, gli occhi registrano ogni minimo dettaglio. Mi accorgo subito che qualcosa non va, lo percepisco. Respiro senza ansimare, l'aria fresca mi solletica accompagnata da un soffice soffio di vento. Sento il suono degli steli d'erba frusciare uno contro l'altro, tanto è forte il silenzio attorno a me. Sono completamente immersa nel silenzio. Ascolto il mio respiro, i miei passi, le foglie accarezzate dall'aria. Le vedo ondeggiare, tenere il tempo di una coreografia che non posso conoscere ma solo ammirare. E in questa danza senza un inizio né una fine, qualche foglia accortacciata si libera dalla presa del ramo e comincia a volare.
Ma non cade. La forza di gravità non ha effetto su di lei, che, al contrario, si libra nel cielo raggiungendo il sole insieme ad altre decine di foglie.
Ecco cosa non va: gli alberi.
Di questi non vedo il tronco, no, vedo la cima, vedo la fine della chioma. Sono su un prato sospeso a centinaia di metri d'altezza.
Così com'è arrivata, l'euforia del momento lascia il posto al panico, che pian piano si impossessa di me. Come sono arrivata qui? Cosa ci faccio? Devo scendere.
Un ronzio. Un ronzio attira la mia attenzione, distraendomi dai miei pensieri. Un ronzio lento, costante che si insinua nel silenzio che mi circonda, colandomi addosso e gocciolando dalla punta del naso, dalle spalle fino ai piedi. Sembra un insieme di sussurri. Proviene da sottoterra, ne sono sicura, per questo motivo comincio a scavare scavare scavare, voglio trovare quella voce, voglio prenderla e chiederle se conisce la risposta alle mie domande. È solo dopo qualche minuto che mi rendo conto di stare scavando un buco nel cielo; sono su un prato che galleggia tra le nuvole, non posso scavare e rischiare di cadere,ma mentre ragiono le mie mani, che non hanno smesso di lavorare, toccano qualcosa. E non è il vuoto. Cemento. Sotto i miei piedi c'è del cemento. Incredula, mi avvicino al limitare del prato e guardo cautamente verso basso: il prato si trova sul tetto di un caseggiato infinitamente lungo, che si trova in mezzo ad una radura altrettanto immensa. Le domande sgorgano a fiotti, perché c'è un edificio al centro del nulla?, perché io sono qui?, dov'è "qui"?, che cos'era quel ronzio?
Sto per spostarmi verso il centro del prato a riflettere quando colgo un movimento provenire dal bosco. Per qualche strana ragione sento l'impulso di nascondermi, così mi sdraio sulla pancia e osservo la scena che si svolge ai piedi del palazzo.
Spunta dagli alberi una figura incappucciata, che indossa una tonaca semplice, di colore porpora, con un largo cappuccio che lascia in ombra il viso, e seguono ad essa altre figure, forse altre centinaia, tutte vestite allo stesso modo e si dirigono all'interno dell'edificio.
Sono curiosa, troppo curiosa e voglio scendere, capire, ma resto immobile fino a che l'intera processione non è terminata. Nell'attesa studio gli alberi più vicini a me e valutando attentamente la situazione, decido che posso tentare di saltare e agganciarmi a un ramo. Scelgo un albero alla mia destra, dal tronco robusto e mi preparo al lancio. Conto mentalmente fino a dieci, poi prendo la rincorsa e stacco appena prima del cornicione. Per un momento immagino di avere le ali e di scappare lontano da qui, ma la visione finisce, affero un ramo e mi isso su di esso cercando di fare meno rumore possibile. Sono in un punto strategico, riesco a vedere da una finestra cosa accade all'interno, ma la cosa mi sconvolge. Ciò che vedo infatti è un altare e una figura massiccia con indosso la stessa tonaca ma di colore marrone che, rivolta verso il centro della sala, tende le braccia verso l'alto e si mette in quello che posso solo interpretare come un atteggiamento da preghiera. I fedeli/adepti lo imitano, alzando le grandi maniche larghe verso il cielo uno dopo l'altro. Sono rapita dalla scena e non mi accorgo del tempo che passa, del dolore alle gambe e dei graffi alle mani che cominciano a bruciare. Voglio capire. Mentre cerco un ramo che mi permetta di avvicinarmi, le persone in sala si destano dal torpore della preghiera e ricominciano a sussurrare, riproducendo il ronzio che sentivo appena prima di vederli comparire nella radura. La persona vestita di marrone si avvicina ad un incappucciato della prima fila e, dopo uno scambio di rapide battute tra i due, gli sfila dalla testa la stoffa porpora. Nello stesso momento il cuore mi si gela nel petto, sento freddo, comincio a sudare, sgrano gli occhi, sento le vene lottare per riportare il sangue al suo normale corso. Non posso credere a quello che sto vedendo. Conosco quella persona. È stata la mia vicina di banco durante gli anni del liceo, ma è così pallida, esile, ha lo sguardo che vaga nel vuoto, che non l'avrei riconosciuta probabilmente se non si fosse presentata all'assemblea come tale. Mentre cerco di assimilare quello che è successi un'altra persona viene interpellata, mio cugino; poi si presentano il mio professore di disegno della scuola elementare, la mia maestra d'asilo, alcuni lontani parenti, i miei amici più stretti. Secondo dopo secondo a turno tutti dicono ad alta voce quale legame hanno con me e come mi hanno conosciuta. Sento un brivido lungo la colonna vertebrale. Non dovrei essere qui non dovrei essere qui non dovrei essere qui, continua a ripetermi la coscienza, ma non riesco a sentirla, sovrastata dal rumore più prepotente di altri pensieri che inondano la mia mente, pensieri che non portano ad altro se non una serie di domande che conduce a un circolo vizioso senza risposte. E mentre penso una cosa mi colpisce: è tornato il silenzio.
Mi ridesto dal luogo in cui mi ero rintanata a pensare e vedo la stanza vuota. Centinaia di persone sono scomparse. Sbatto le palpebre, veloce, sperando in un qualche cambiamento, le sbatto di nuovo e ancora e alla terza volta qualcosa vedo, ma non mi piace. L'incappucciato marrone mi guarda dalla finestra. Guarda me.
Si fa sempre più vicino e la mia paura cresce man mano che lui, o lei, non si è presentato all'assemblea, accorcia le distanze. Decido di scendere e correre, prima o poi la radura e il bosco finiranno e io tornerò alla normalità e archivierò questo episodio come qualcosa di folle che forse non ho nemmeno vissuto, ma la speranza che ripongo in questo piano di fuga viene brutalmente spenta quando guardo verso il basso.
Gli incappucciati mi aspettano. Formano un muro di persone impossibile da valicare. Sono in trappola. Ma finché rimango qui sono al sicuro, sono... no, si stanno arrampicando, arrivano, cosa vogliono? Perché vogliono me? Con uno sforzo enorme torno sul prato e comincio a correre, lontano da dove loro sono. E mentre corro il tetto sembra allungarsi e la distanza tra me e gli incappucciati, no, i miei amici, le persone della mia vita, che ormai hanno raggiunto il prato, si accorcia, un passo dopo l'altro. La vista mi si appanna, non ci vedo, ho paura.
Una collina. Si è materializzata una collina alla fine del tetto, posso saltare, posso sopravvivere. Li sento sempre più vicini, mi hanno quasi presa, ma io continuo a correre, sto per saltare. Ecco, ci sono, salto.
Volo.
Sono come le foglie, ho le ali e vengo spinta verso l'alto, verso le nuvole, il cielo, il sole, niente gravità, sono leggera e libera libera libera
Qualcosa o qualcuno mi afferra per un piede e mi graffia e io cado, sprofondo sempre più in basso, verso il buio. Sono di nuovo nell'oscurità.
Chiudo gli occhi e mi lascio precipitare nel vuoto.