Numero Due

2 0 0
                                    

Chiudo gli occhi e l'oscurità mi avvolge nel suo abbraccio gelido.
Li riapro e sbatto più e più volte le palpebre a causa di un continuo lampo di luce puntato dritto sul mio viso. Quando finalmente il luccichio smette, la vista mette a fuoco e riesco distinguere i contorni delle figure intorno a me.
Sto per fare qualche passo quando incespico e cado. Indosso dei tacchi. Alti. Non ho mai visto un trampoliere, ma credo che al circo facciano pratica con queste scarpe.
Una mano corre in mio aiuto e mi ci aggrappo come se fosse la mia unica via di salvezza. Non riesco a vedere il mio soccoritore perché la luce proviene da dietro di lui - le mani sono grandi, ruvide e decisamente da uomo - inondandolo di raggi che però lo nascondono alla mia vista. Borbotto un grazie e cerco di ricompattarmi e riacquistare un minimo di dignità. Qualcuno mi chiama, mi volto, sorpresa, e altri luccichii mi investono da ogni lato. Sono flash. Milioni di macchine fotografiche mi stanno scattando milioni di fotografie. Oddio. Perché? Guardo i miei piedi per studiare i tacchi, ma noto una gonna, una lunghissima gonna rossa, che si intreccia in vita e prosegue in una cascata di tessuto che svolazza attorno alle mie caviglie. Provabilmente prima sono inciampata nel vestito, dato che, oltre a non avere dimestichezza con i tacchi, non ne ho nemmeno per quanto riguarda gli abiti che vanno oltre il ginocchio.
Mentre studio la situazione attorno a me, noto che ho i capelli raccolti in uno chignon alto che lascia scoperte le orecchie dalle quali pendono due orecchini di diamanti. Non sono mai stata tanto elegante in vita mia. Ammetto che, tutto sommato, non mi dispiace.
Qualcuno mi fa cenno di proseguire e io mi affretto ad obbedire, punto dritta a quella sembra l'entrata, dato il cartellone e le luci stroboscopiche, e non guardo più nessuno. Cerco di ricordare dove sono, se questo posto lo conosco, perché qualcosa mi dice che l'ho già visto anche se non ricordo di esserci mai stata.
Arrivo finalmente all'ingresso e la notizia mi stordisce veloce come uno schiaffo: sono alla serata degli Oscar. Non ci posso credere. Cosa diavolo ci faccio io qui?
Un cameriere mi porge il braccio e mi accompagna al mio, presunto, posto. Strano, ricordavo dalle riviste e dai telegiornali che a questo genere di serate le persone si sedessero a dei tavoli e aspettassero ansiose il momento della dichiarazione del vincitore, invece la sala in cui vengo gentilmente portata è un cinema. Anzi no. Sono più schermi uno vicino all'altro, divisi in sezioni. Il mio posto a sedere corrisponde al colore viola, fila 24. Mi accomodo e comincio a far correre lo sguardo lungo tutta la lunghezza del salone per cercare qualcuno a me familiare o anche solo un altro cameriere a cui chiedere indicazioni per la toilette, giusto per non restare con le mani in mano, seduta, sola, al centro della mia sezione. Evidentemente sono in largo anticipo. Opto per la seconda opzione, quella di andare a nascondermi in bagno, quando la sala si riempie. All'improvviso, duecento persone riempiono i loro seggiolini e così accade anche nelle sezioni accanto alla mia e in quelle dopo ancora.
Il film comincia. No, i film cominciano. Ogni scomparto ha il proprio film e un vociare compatto prende possesso del mio udito catapultandomi in uno caos totale. Non capisco nulla, ci sono troppe immagini tutte insieme e troppe voci. Mi guardo intorno per vedere se anche le altre persone provano il mio stesso fastidio, ma niente, sono tutti immobili, che ridono al momento giusto, si soffiano il naso quando devono piangere e non staccano gli occhi dallo schermo. Non sono minimamente infastiditi dal trambusto che invece fastidisce me. Sembrano degli automi. Fanno paura. Mi allungo sul mio sedile per vedere negli altri settori e decido che voglio cambiare film, voglio spostarmi nello scompartimento alla mia sinistra perché danno un film che sembra molto più interessante di quello che sono costretta a vedere e forse perché, penso, magari le casse sono qui ed è per questo che sento le battute anche degli altri spettacoli. Quando mi alzo, nessuno fa commenti, non una voce, non un movimento, posso spostarmi da una parte all'altra senza preoccuparmi di chiedere continuamente scusa se pesto i piedi a qualcuno. Sono tutti catturati, assorti, completamente rapiti dallo schermo.
Afferro i lembi del vestito, mi tolgo le scarpe, dal momento che nessuno sembra prestare attenzione alla mia persona, comincio a scendere i gradini, avvicinandomi all'ala che più mi interessa. Per andare a prendere posto devo passare dalla prima fila, quindi è lì che mi dirigo.
Colgo uno spostamento provenire da destra, ma mi volto e gli invitati sono ancora con gli occhi incollati allo schermo, non si sono spostati di una virgola. Penso allora che sia stato un gioco di luce del proiettore, ma lungo la strada che mi separa dal secondo film, un'ombra mi spaventa. Ma anche questa volta, nient'altro che l'immobilità. Decido di non farci caso, ma appena varcata la soglia della nuova sezione, cado in direzione dello schermo. Qualcuno dietro di me mi dice di stare attenta a non inciampare nuovamente nei tacchi e sto per ringraziarlo sarcasticamente del consiglio quando ricordo che le scarpe le ho in mano e i piedi sono liberi dalla prigionia del vestito. Non sono affatto inciampata. Cerco di rialzarmi in fretta, ma qualcuno mi spinge - di nuovo - e quando credo di andare a sbattere contro il teleschermo, precipito. Precipito oltre il teleschermo. Atterro su una morbida collina, le scarpe qualche metro più in là e sento una voce profonda urlare "Stia attenta a non cadere una terza volta!".
È la stessa voce che mi ha aiutata a sollevarmi da terra sul tappeto rosso.
Guardo verso l'alto, ma sono decisamente troppo in basso per poter definire i lineamenti dell'uomo che ride di gusto dall'alto della sua arroganza. Non capisco perché mi abbia fatto questo o dove io sia finita né tantomeno come io ci sia arrivata fin qui. Non posso aver rotto lo schermo ed essermi immersa in un altro mondo. Non è fisicamente possibile. Non sono nemmeno ferita e nessuno si è alzato per fermare quell'uomo o per tendermi una mano di conforto...
Una nuvola oscura il sole e proietta ombre attorno a me. Mi alzo per andare a raccogliere le scarpe e mentre osservo i miei piedi calpestare i fili d'erba, un particolare mi colpisce e prende a pugni il mio stomaco. Non ho un'ombra. Le scarpe ne hanno una, il vestito ne ha una, ma io no. Le mie mani, la mia testa, i miei piedi sono come senza materia. Comincia a soffiare il vento, dapprima dolcemente e poi sempre più forte e fatico a rimanere aggrappata al terreno, rischio di volare via. Sono davvero senza materia.
Mille domande si affollano nella mia testa, un senso di panico si impadronisce di me, la paura comincia a divorarmi e le lacrime sgorgano a fiotti dagli occhi, che bruciano bruciano bruciano insieme ai muscoli, nello sforzo di restare con i piedi ancorati al suolo. Sono terrorizzata da quello che potrebbe succedermi se solo cedessi alla stanchezza.
Il vento cessa di soffiare. All'improvviso, così com'è cominciato.
Una risata. Sento la risata dell'uomo di prima, farsi sempre più vicina. È ovunque, fuori e dentro di me. Lo vedo nello stesso punto in cui l'avevo visto scomparire dopo la brusca caduta in questo mondo immateriale. Ha una cinepresa in mano, sta riprendendo ogni mio movimento. Forse riesce addirittura ad annusare il mio sconforto, a toccare con mano l'orrore dei miei pensieri. E di questo, lui ride. Una risata roca, che nasce dal profondo della sua gola e che sgorga dalle sue labbra e si fa sempre più forte, arrivando alle mie orecchie triplicata di volume.
Mi costringo a correre verso di lui. Voglio prenderlo e vedere la telecamera rotolare giù da questa collina e frantumarsi in tantissimi microscopici pezzetti. E la risata continua e io corro e i polmoni faticano a trovare aria per alimentarsi e il cuore cerca di pompare sangue, ma mi sento prosciugata e momentaneamente denutrita e le forze mi vengono meno. Arrivo sulla sommità della collina, allungo una mano verso l'uomo, sento l'eco delle sue distorte risate, lo sto per toccare, ma il vento riprende a soffiare e sono troppo stanca per oppormi.
Chiudo gli occhi e lascio che l'oscurità mi avvolga nel suo gelido abbraccio.

AD OCCHI CHIUSIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora