Routine.
Era quella una di quelle cose che l'avevano salvato. La routine.
Niente cambiamenti improvvisi, fughe, attacchi, guerre. Solo la certezza che ogni giorno sarebbe stato come il precedente: sicuro.
Alzarsi, uscire, pranzare, cenare, dormire. Azioni che rendevano la vita ripetitiva, ma soprattutto normale.
La normalità era una delle cose più preziose della nuova vita di Percy, anche se ci si doveva ancora abituare.Si alzò dal letto, o dal divano. Dipendeva dall'ora: di giorno era un divano, di notte un letto. Quel divano-letto aveva una doppia vita, come un vero supereroe.
Questi erano i pensieri di Percy alle otto della mattina mentre si preparava il caffè. Ma anche questo faceva parte della routine.
Mentre sorseggiava il caffellatte, osservò il calendario settimanale appeso al muro: quel giorno, un martedì, avrebbe avuto tutta la mattinata libera, mentre il pomeriggio avrebbe dovuto tenere una lezione di nuoto e poi lavorare al ristorante.Per riuscire a pagare l'affitto di quel misero appartamento, era costretto a fare due lavori. Anzi, per un periodo ne aveva avuto anche un altro -il guardiano notturno in un acquario- ma una volta, dopo una giornata stancante, si era addormentato durante il suo turno e dei ragazzi erano riusciti ad entrare. Non che avessero combinato granché: i filmati delle telecamere avevano ripreso i ragazzi mentre cercavano di rubare un pinguino, impresa che era terminata con Percy che chiamava un'ambulanza per i ragazzi, mezzi congelati per aver fatto un tuffo nella piscina dei pinguini, dopo che essi gli si erano rivoltati contro. Nonostante tutto, però, Percy era stato licenziato, dato che il capo aveva deciso che non gli serviva uno zombie come guardia notturna.
Comunque, lo stipendio di due lavori era sufficiente per pagare l'affitto, le tasse e tutto il resto.
Il cellulare vibrò; Percy lo prese, e lesse il messaggio inviatogli da Helen:
"Sono da te tra cinque minuti. Che diavolo ti è successo ieri sera?"Percy chiuse gli occhi: aveva cercato in tutti i modi di convincersi che l'incidente non era niente di più che quello, un incidente, appunto. Una coincidenza, uno scherzo di qualche divinità che traeva parecchio gusto nel complicargli la vita... E la salute mentale.
Aveva fatto bene a ricominciare?
Certo che sì. Ora stava bene, gli piaceva la nuova vita.
Ne era davvero sicuro? Non gli mancava niente?Si premette le mani sulle tempie.
In quel momento, il campanello suonò, e Percy corse ad aprire la porta.
Helen fece il suo ingresso nell'appartamento accompagnata da una folata d'aria gelida."Hey, Perce." Helen si sedette su uno sgabello del tavolo, e Percy prese posto davanti a lei.
Le prese una tazza e la riempì con il caffè rimasto che si era preparato prima, senza aggiungere lo zucchero, come piaceva a lei, e la poggiò sul tavolo davanti a lei.
I suoi grandi occhi lo guardavano con preoccupazione. I riccioli castani erano infilati sotto ad un cappello giallo di lana con un grosso pon pon in cima. Percy conosceva quel cappello: gliel'aveva regalato lui, insieme ad una sciarpa abbinata, per il Natale di quell'anno. Ad Helen era piaciuto un sacco, e gli aveva dato un bacio sulla guancia. "Che è successo ieri sera? Tutto okay?"
"Certo. Non mi sentivo molto bene. Tutto qua." Percy scrollò le spalle.
Lei lo scrutò con attenzione per un lungo momento. "Quindi non conoscevi quella ragazza?"
"Quale ragazza?"
"Lo sai quale. Quella del tavolo trentuno. Alta, capelli biondi, occhi grigi."
"No."
"Ha detto di chiamarsi Annabeth. Sembrava ti conoscesse."
Percy chiuse gli occhi per qualche secondo. Sentire il suo nome dopo così tanto tempo era come ricevere un pugno nello stomaco, di quelli che ti mozzano il respiro. "Non ho idea di chi sia."
"Mi ha detto di darti questo." Helen gli stava porgendo un pezzetto di carta, probabilmente strappato da un'agenda. Sopra c'era scribacchiato un numero di telefono. Percy riconobbe la scrittura frettolosa e un brivido gli salì lungo la schiena: era il numero di Annabeth.Quindi l'aveva riconosciuto. Aveva passato tutta la notte nel cercare di autoconvincersi che, magari, Annabeth non aveva fatto caso a lui. Forse era troppo presa dal ragazzo davanti a lei per essersi accorta del cameriere che li stava servendo.
Ma questa era la prova inconfutabile che Annabeth si era accorta di lui.
"Non lo voglio."
"Percy, chi era quella ragazza? Penso che dovresti chiamarla. Sembrava sconvolta."
"No. Non era nessuno." La sua voce si spezzò nel pronunciare l'ultima parola. "Ti prego, vai. Ti prego."
Helen si avviò verso la porta. Lo guardò con un misto di tristezza e compassione.
"Non puoi scappare dalla tua vita passata, Percy. Non hai mai pensato che tu possa aver ferito delle persone?"
Aspettò una qualche risposta da parte di Percy; vedendo che non arrivava, aprì la porta e se ne andò.Percy tornò verso il tavolo, riflettendo.
Qualcosa, per terra, attirò la sua attenzione: era il foglietto stropicciato che Helen gli aveva dato prima.
Lo fissò per un lungo momento: osservò la scrittura, contorta ma elegante, leggermente inclinata.
Si concesse, per un momento, di pensare a lei. Alla sua pelle abbronzata. Alla sua intelligenza. Al profumo di limone che avevano i suoi capelli.
Ma poi, a seguito dei bei ricordi, vennero anche quelli cattivi. La paura. Un fiume di fuoco. Una caduta lunghissima, una battaglia infinita.
Ormai, ricordare era come una formula di una reazione chimica, in cui i bei ricordi erano i reagenti, e quelli brutti i prodotti.Il cuore prese a battergli velocemente.
Inspira.
Espira.
Inspira.
Espira.Non poteva negare a sé stesso che una parte di lui -più grande di quanto volesse ammettere- aveva sperato che Annabeth lo riconoscesse. Magari mentre la stava servendo, al tavolo trentuno, dove lei era seduta davanti ad un ragazzo che non era lui. Una parte di lui aveva sperato che saltasse in piedi, e piangesse, e lo abbracciasse; che lo riportasse a New York.
Ma poi c'era l'altra parte di lui, quella razionale. Questa parte sapeva che ora che era andato così avanti, che era cambiato così tanto, non poteva permettersi di tornare di nuovo indietro. Non poteva buttare via due anni della sua vita.
Per questo, invece che due anni, nel cestino buttò il biglietto con il numero di Annabeth.
Guardò il calendario settimanale, dove era segnato il programma di ogni giorno: alle dieci e un quarto, doveva farsi la doccia.
Andò in bagno, prima di correre nuovamente in cucina e riprendere il biglietto dal cestino della plastica, dove l'aveva buttato.
Lo fissò ancora un istante, poi lo buttò nel cestino della carta: da buon ambientalista, teneva alla raccolta differenziata.Nota dell'autrice: ecco qua il secondo capitolo! Spero veramente che vi piaccia :3
Vi ringrazio per tutti i commenti lasciati nello scorso capitolo, siete dolcissime!
I commenti e le critiche costruttive sono sempre ben accetti!
Alla prossima,
Ecila:3
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Begin to Begin ~pj
FanfictionNon sapeva quando aveva iniziato a sentirsi così. Le emozioni, lentamente, cominciarono a scivolare via da lui. Diventava triste per cose stupide, come quando veniva ignorato nella chat del gruppo che aveva con i Sette, quando Annabeth non gli rispo...