La Varrone ci scruta con il suo solito sguardo cadente, il dito che scorre ( troppo ) lentamente sul registro. Si aggiusta gli occhiali, lancia al suo immancabile compagno di lavoro un'ultima occhiata. Pronuncia la sentenza - " Tassoni e Villa interrogati ". La classe si rianima in un batti secondo, chi sbuffa, chi sorride, chi riemerge dagli anfratti del banco dove si era nascosto. Io e Fabio Tassoni, mio compagno di banco e amico, ci guardiamo negli occhi e ci comprendiamo come solo due prossimi allo stesso destino sanno fare. Ci tocca. Appoggio i libri sulla larga scrivania davanti alla classe e mi butto sulla sedia, di malavoglia. Lei si sta sfregando le mani ossute, pregustando già la mezz'ora di tortura che dovremo passare insieme. È sadica, un po' come tutti i prof. " Villa comincia tu. Traduci la prima frase." Abbasso lo sguardo. Il Tantucci appare ostile come non mai: il testo potrebbe benissimo essere eschimese o ugrofinnico. Non banale latino.
" Iginitur initio reges - nam in terris nomen imperi id primum fuit. "
" Che subordinata abbiamo ? "
" Temporale? "
" No! "
" Finale? "
" No! Tassoni tu lo sai? "
" Consecutiva prof? "" Certo che il cinque e mezzo poteva darcelo quella stronza " - commenta Fabio, giocherellando con la sigaretta. Seduti su una vecchia panchina verde, gli zaini buttati a terra contempliamo, senza grosso interesse per la verità, il cielo di novembre, con le sue tinte scure e l'aria nostalgica. Intorno a noi, Milano volge al termine un'altra giornata di lavoro. La gente esce dagli uffici e dai negozi come api attratte dal miele consapevoli di trovarlo alla solita ora, tutti i giorni, tutti gli anni. Hanno sviluppato una sorta di orologio interno che pare si svegli alle sette e dica " hey, è ora di tornare a casa. " Sciami di persone si riversano per strada, un colonnato di macchine si immette nel traffico. Puzza di sudore, di smog, urla, rumori di gambe che corrono, telefoni che squillano. Fabio si passa una mano tra i capelli neri, la sigaretta accesa in bocca. Non che sia un fumatore abituale, ne gira una solo quando è nervoso. " Speriamo che col triennio le cose migliorino. " - commento io cercando di dargli ragione. Lui caccia fuori una boccata di fumo, mugugna qualcosa di incomprensibile . Capisco che non il è il momento adatto per parlargli. Lo saluto, raccolgo la cartella e mi dirigo verso la metro
Appena giunto in casa butto la cartella in un angolo e entro a passo stanco nel terrazzo che da' sul cortile interno del condominio. Sembrerà strano, data la sua esposizione agli occhi di tutti, ma il balcone di casa è un mio punto di riferimento. Adesso è triste e spoglio, ma in primavera il pollice verde di mia madre unito al bel sole fanno miracoli. Spuntano fiori dappertutto. Da piccolo mi piaceva correre, annusare, giocare con gli amici. Ora si è trasformato in una sorta di zona di riflessione, un muro del pianto nei giorni tristi, un piccolo paradiso in quelli felici. Chiudo gli occhi, ma il relax dura poco. Il cellulare suona dal tavolo della sala. Maledicendo mentalmente chi abbia scelto quel momento per farsi sentire, rientro in casa e rispondo
" Pronto? "
" Salve, parlo con Villa Andrea, sezione Seconda A del Parini di Milano? " E chi sei, una spia?
" Si. Chi parla ? "
" Ciao Andrea sono Raviolotti, il portavoce di quinta. Ci siamo visti all'incontro di settembre del preside."
Cristo, Raviolotti no. Tanto per la cronaca, faccio anche il rappresentante di classe ( vita impegnata ) e ho conosciuto questo tizio all'ultima riunione indetta nella scuola, essendomi pure dovuto sorbire un suo " piccolo intervento " di un'ora e mezza. Il solito secchione primo della classe, voti altissimi, zero vita sociale e un nome che è tutto un programma. Ostento una risposta entusiasta
" Ciao che piacere! Ti serve qualcosa?" Mi spiega, con la solita abilità di sintesi che lo contraddistingue, che domani tutti i rappresentanti del liceo sono convocati in presidenza per una questione della massima importanza. Annuisco, pensando alla lezione di matematica che vola via dal programma. Un problema in meno. Spento il cellulare, mi stravacco sul divano bianco della sala. Dal piano superiore arrivano delicate note di pianoforte. Sorrido, mamma sta suonando di nuovo. È sempre stata un'artista, mia madre, un animo creativo insomma. Mio nonno avrebbe voluto una figlia medico o avvocato, lui che dal suo paesino calabrese si era conquistato una fetta dell'industria brianzola producendo matite. Le stesse matite su cui mia madre aveva affinato la sua tecnica e creato il suo lavoro. Disegnava straordinariamente bene e mio nonno, dopo mesi di incertezza, si convinse che la pittura fosse la strada di sua figlia. Lei si era trasferita a Milano, aveva aperto una galleria d'arte e conosciuto mio padre, ad uno dei suoi eventi. In famiglia ce la raccontiamo ancora col sorriso. " Due tipi talmente diversi che potevano stare bene solo assieme " - commentava sempre la zia Tiziana col suo modo di fare sornione, per poi lanciarsi in un accurata descrizione dei miei; mia madre sgargiante ed estroversa, intenta ad esporre il suo lavoro, e mio padre in un angolo, timido e riservato come sempre nel suo completo messo alla meno peggio, i capelli arruffati e gli occhiali calati sul naso. Dopo quell'incontro ne seguirono altri e in capo a un anno mio padre le chiese di sposarlo. Mio nonno non ne fu contento - " un professore di matematica! Ti farà diventare pazza Lidia! Tutto il giorno dietro ai numeri!". Ma come probabilmente ogni volta nella sua vita mia madre fece di testa sua e disse di si. Mio nonno se ne fece una ragione e come " suo personale segno di benedizione ", subito dopo il matrimonio, comprò loro un attico in via della Spiga, tutt'oggi casa nostra. Mio padre diventò professore associato di matematica alla Bocconi, la prestigiosa università milanese, e mia madre apri' una seconda galleria vicino al Duomo. Intanto nacqui io e fin da subito fui causa di contesa in famiglia. " Leonardo! Galileo! Niccolo! " - diceva mio nonno paterno, a sua volta ex matematico, quando toccò pronunciarsi sullo spinoso tema del nome. " Vito! Giuseppe! Salvatore! " - ribatteva mio nonno materno, che non disdegnava le sue origini meridionali. Alla fine mi chiamarono Andrea, mamma in onore di Andrea Boccelli, il suo cantante preferito, papà per Andrea Pirlo, calciatore del Milan di cui era tifosissimo. Un rumore proveniente dalla porta, una chiave che gira nella toppa, mi riporta al mondo reale. Mio padre fa capolino dal corridoio. Appoggia la borsa, si toglie la giacca, sbottona la camicia, scioglie la cravatta ( c'è poco da fare, gli piace vestirsi elegante ). Mi lancia un occhiata di sottecchi. " Come è andata la scuola Andre? "
" Bene, non mi lamento "
" Che significa? "
" Che me la sono cavata pa' ". Non ho intenzione di riferirgli subito della mia pietosa performance in latino. Lui mi scruta ma decide di non indagare oltre. " Vado a farmi una doccia, prepara la tavola. "
YOU ARE READING
Il silenzio degli anelli
Fiksi RemajaAndrea è un adolescente uguali a tanti altri: fa il liceo, ama il calcio, vive in una eclettica famiglia milanese e passa le giornate divertendosi insieme all'inseparabile amico Fabio. Tutto cambia quando nella sua vita entra in punta di piedi Arian...