Morte.
Sin da piccolo è stata una costante della mia vita, una delle poche certezze che io avessi mai avuto.
Nella città sotterranea i decessi erano all'ordine del giorno, anzi, senza una morte non poteva dirsi una giornata completa.
A causa della fame, della sete, delle malattie, di un'altra persona.
Lì la morte si mostrava in ogni sua più piccola sfaccettatura.
O almeno questo era quello che pensavo.
La verità era che la morte peggiore era fuori dalle mura, lontano dalla propria casa, per chi ce l'aveva, e lontano dai propri cari, per chi ancora non li aveva persi.
Al di fuori delle mura la morte era ancora più spregevole di quanto non lo fosse all'interno.
Perché era lì fuori che li avevo persi, che me li avevano portati via.
Se ci ripenso, ancora oggi mi pervade uno strano senso di nausea.
Corro, schivo e attacco. Il gigante è morto.
Cambio le spade, ormai sul punto di spezzarsi, e mi dirigo verso un gruppo di classe cinque metri che sta accerchiando dei soldati a corto di gas.
Un grido fende l'aria e vedo una ragazza che viene afferrata da un gigante.
Lei si dimena, strilla, chiede aiuto e i compagni le vanno in soccorso.
Usano del gas, lo finiscono, ma la salvano.
Ora sono bloccati su un tetto, con solo delle spade spezzate in mano.
Dannati mocciosi imprudenti!
Corro, salto, volo.
Cerco di raggiungerli in tempo, di non avere altre vite innocenti sulla coscienza, ma è tutto inutile.
Vengono divorati ad uno ad uno e io non posso far niente, perché sono troppo lontano anche se sto usando tutto il gas che mi è rimasto, se non sentire le loro grida strazianti di dolore.
Un rigurgito. Corpi umani che si fondono insieme, nessuno riesce a capire dove inizi una persona e dove ne finisca un'altra.
Tutto ciò che rimane sono delle uniformi logore, sporche, dei numeri, non delle facce.
Dannati mocciosi, muoiono troppo facilmente.
Me ne vado, sento il bisogno di allontanarmi da tutta quella sporcizia, da tutta quella morte.
Eppure è questo il mio lavoro: vedere i miei compagni morire facendo quasi sempre la scelta sbagliata.
Stringo più forte l'impugnatura della mia spada mentre sento dei passi di gigante.
Non ce la faccio, mi gira la testa, mi viene da vomitare.
Mi sento svenire, cadere nell'abisso pieno di cadaveri di persone che avrei potuto salvare.
Loro mi afferrano le gambe, i piedi, cercano di trascinarmi nel regno dei morti, come sempre.
Il gigante si fa più vicino e io mi preparo ad attaccare.
Resisto alla loro chiamata, ancora, ma sono stanco. Davvero stanco. Perché continuare ad opporsi?
Perché continuare quel surrogato di vita?
Perché non lasciarsi andare?
Potrei rivedere molti miei compagni se mi lasciassi morire.
STAI LEGGENDO
Lα τεrzα cοsταητε //Eruri Fanfiction//
FanfictionAnche Levi ha delle costanti, delle certezze, nella sua vita.