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Oggi, ventisette Maggio, il sole batte forte sui palazzi di Chicago.
Per le vie del Millennium Park, nell'aria alleggia un dolce profumo di rose e di erba appena tagliata; i genitori passeggiano allegramente con la propria progenie, fermandosi ogni tanto per ammirare una pianta o un fiore particolarmente colorato. Alcuni ragazzini sfrecciano con i roller e gli skateboard accanto ai passanti, facendo attenzione a schivarle.
Per il resto, è uno spettacolo mozzafiato: gli alberi in fiore regalano i colori della primavera, l'aria fresca ci prepara all'imminente botta di caldo estiva, e in lontananza possiamo scorgere le rive del lago.
Accanto alla panchina su dove sono seduta, c'è un pesco, e la maggior parte dei suoi fiori cade proprio sopra il libro che porto in grembo, facendolo quasi scomparire. Li scrollo di dosso, e cerco di concentrarmi sulla lettura.
Non molto lontano da qui, riesco a vedere l'appartamento del palazzo in cui abito, da cui si ha una vista perfetta di grand parte del parco. Inspiro profondamente, facendomi cullare da una dolce melodia in lontananza, probabilmente di qualche spot pubblicitario. E poi, alzando lo sguardo, mi concentro sul cielo. Immediatamente, le immagini mie e di Simon da piccoli mi scorrono davanti agli occhi.
Non posso che ricordare con il cuore pieno di felicità quei giorni passati insieme, e anche con un po' di tristezza, perché probabilmente resteranno solo nei miei ricordi.
Ci sto ancora pensando, quando una palla mi investe in pieno viso, facendomi sbattere la faccia sulla panchina.
Nei pochi istanti in cui non sento alcun dolore, vedo un ragazzo che se la sta svignando, e un secondo che invece viene verso di me, allarmato.
-Mi dispiace...- mormora -il mio amico è proprio un deficiente.
Prende da terra il libro, me lo porge, e solo quando alza gli occhi per guardarmi, lo riconosco.
Il mio cuore perde un battito, il libro mi cade dalle mani, troppo stupefatta per poter sopportare anche un minimo peso.
Sento gli occhi riempirsi di lacrime e le mani tremare quando pronuncio le seguenti parole:
-Simon...-, mi limito a dire.
Passa qualche secondo, e poi anche lui mi riconosce.
Non posso ancora credere possa capitarmi una cosa bella in questa vita piena di dolore. Per una volta, i miei desideri più intimi si sono realizzati.
Simon era il mio migliore amico, prima che mi trasferissi poco più di sei anni fa a Chicago. Era il mio vicino di casa preferito, sopratutto perché il resto delle case erano per lo più disabitate e ridotte in rovina.
In tutti questi anni, ho pregato perché potessi incontrarlo di nuovo, per poterlo abbracciare, per avere qualcuno accanto. Finora ho avuto una sola vera amica, che si è trasferita da più di un anno in Italia, il suo paese natale; e sapere che non sarò più sola d'ora in poi -o almeno così spero-, mi riscalda il cuore.
-Tess...
Ci abbracciamo. L'abbraccio più lungo che abbia mai dato, ma che vorrei durasse per sempre.
-Dio, non sai quanto ho sofferto in tua assenza. Tutti quegli anni passati a piangere sulla vita che mi ero lasciata alle spalle, su quello che aveva fatto papà, e sopratutto sulla mancanza di una persona di cui fidarmi...
Vorrei raccontargli tutto, ma scoppio in un pianto di gioia quasi isterico.
-Shh. Ora sono qui. - mi consola, accarezzandomi i capelli.
-Per sempre?
-Per sempre.
Sono passati cinque mesi esatti da quando Simon ha fatto la sua ricomparsa nella mia vita. Cinque mesi passati alle gare di automobili sulla PlayStation, i cinque mesi delle partite di pallavolo nel suo cortile, i cinque mesi fatti di silenzi, silenzi che dicevano molto più delle parole. Avevamo entrambi bisogno l'uno dell'altra, e non serviva parlassimo; non c'era niente si potesse dire essere più comunicativo dei nostri silenzi.
Io sospiravo, lui sospirava di rimando.
Dopo il primo incontro, passammo tutta l'estate a vederci, io, Simon e Peter, il ragazzo dello sfortunato-fortunato incidente del pallone. Ero piacevolmente sorpresa che la casa di Simon non era cambiata, o almeno non era cambiata la disposizione dei mobili. Quest'ultimi, ad occhio e croce, avevano dovuto avere una cinquantina d'anni, ma sapevo benissimo che lo stile retrò si adattava perfettamente alla personalità della mamma di Simon, Veronica. Le persiane erano sempre abbassate, niente a che fare con le enormi vetrate che davano luce e colore alla mia di casa. Veronica passava molto tempo con mia madre, in veranda a chiacchierare, mentre sorseggiava una tazza di Caffè Nero o mentre si rinfrescava con un ghiacciolo.
Io e Simon dovevamo sembrare fratelli, agli occhi delle persone, forse non molto per i miei capelli. Ricci. Rosso fuoco. E i suoi. Castani. Indomabili.
Certo pomeriggi ci dilettavamo passeggiando sul ungo lago, o al Millennium Park, mentre altro restavamo più semplicemente in casa, a guardare un film o proprio a fare niente.
Si, avete capito bene. Ci divertivamo anche solo a stare sdraiati sulla moquette, luna di fianco all'altro, e la sola nostra presenza ci bastava. Sforzarci di parlare del più del meno non era fatto per noi, specialmente perché non c'erano molte cose da raccontarsi quando lo avevo convinto a iscriversi nella mia stessa scuola, La C.H.I.A.R.T.S.-ma, francamente, si era già convinto quando, leggendo il depliant, aveva espressamente annunciato che i corsi di arte sarebbero stati la cosa più bella che gli potesse capitare.
E così ci ritrovammo nella stessa scuola, come ai vecchi tempi. Le lezioni andavano a rilento, sopratutto nei primi giorni.
Le lezioni di pianoforte per me, quelle di arte per Simon e quelle di teatro per Peter sono sfiancanti, e sono pochi i pomeriggi della settimana in cui possiamo vederci tutti e tre insieme.
Non vi ho ancora parlato di Peter. Be', che dire, è un ragazzo spiritoso, un burlone, una vera peste, che si diverte a fare scherzi e battutone stupide a chiunque; ma in fondo, conoscendolo, si capisce che non è tutto uno scherzare con lui. La mamma è coreana, ma vedendolo non ci crederebbe nessuno. Non ha i tradizionali occhi a nocciola, per esempio, e neanche la carnagione bianca bianca. L'aspetto fisico, diciamocelo, lo aveva preso dal padre, un omone che faceva parte dei Marines, abituato a trattare tutti come reclute, un buon padre.
Quando lo incontrai la prima volta, mi chiesi come passassero le loro giornate. Deve essere davvero bello avere un padre con cui giocare il sabato pomeriggio, una spalla più resistente della propria nella quale accucciarsi.
Forse è per questo motivo che non facevo visita molto volentieri a Peter.
Mancano quattro giorni alla festa di Halloween; io, Simon e un gruppo ristretto di amici di Peter andremo a festeggiare in una distcoteca locale, agli estremi della metropoli. Non sono ancora sicura di come abbiano fatto a convincermi ad accettare l'invito. Rigorosamente vestiti con costumi raccapriccianti-o, almeno, questo è quello che hanno scelto per loro, non so ancora come vestirmi-, ci faremo largo tra un mucchio di persone deliranti, frastornati dal volume al massimo d gruppi punk che suonerà quella sera. Ecco, è così che descrivi la giornata che dovrò passare con i miei migliori amici.
Cosa dovevo aspettarmi, che Simon fosse cambiato e che avesse finalmente finito di mettersi nei guai?

Spazio autrice

Ciao a tutti! Eccomi con il secondo capitolo. Spero di non avervi delusi, e che vi sia piaciuto allo stesso modo del primo. Lasciate una stellina che non costa nulla, e magari un commento.
Giulia

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⏰ Ultimo aggiornamento: Dec 09, 2016 ⏰

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