L'unica cosa che vedevo, di fronte e intorno a me, era un'immensa distesa di verde, alberi su alberi a cui non ero in grado di dare una denominazione. Sopra di noi il cielo era sempre più scuro, dandoci l'impressione che ci sarebbe crollato addosso entro poco tempo.
Camminavamo su di una strada cosparsa di ciottoli ed erbacce, che avevano rischiato di farmi inciampare più di una volta, eppure non era affatto quella la mia maggiore preoccupazione.Per quanto mi fossi sforzata di capirci qualcosa, la confusione era ancora l'unica cosa che mi fosse familiare.
Seguivo quell'uomo come un cane avrebbe fatto col suo padrone, sentendomi una stupida, perché dovevo aggrapparmi alle sue capacità di orientamento, invece che alle mie. Avevo perso tutto, compresa la facoltà di ragionare. Avevo perso la strada di casa e, probabilmente, anche me stessa.
Mi sentivo un'anima in pena, che vagava in un oblio da cui sembrava non esserci alcun ritorno; continuavo a chiedermi dove fossi, dove quei due mi stessero conducendo e -il dubbio che più mi tormentava la mente- che cosa mi fosse accaduto mentre ero in macchina. C'era qualcosa che mi ronzava nelle orecchie, una parola sussurrata in modo talmente confuso e strascicato, al punto che non riuscivo a distinguerne il significato.Smisi di pensarci quando qualcosa mi si gettò contro le gambe, afferrandole da dietro e inducendomi a spalancare la bocca in un'esclamazione di sorpresa.
Mi voltai appena per rivolgere uno sguardo al vispo bambino che mi stava appiccicato quasi come una seconda pelle e lui, in risposta, mi regalò un sorriso a trentadue denti. Che bambino strano.-È la prima volta che lo vedo comportarsi così, in presenza di un estraneo- mi spiegò il padre, senza voltarsi. Dal suo tono di voce colsi un pizzico di divertimento e compiacimento, che mi portarono a chiedermi perché qualcuno avrebbe dovuto essere compiaciuto del fatto che suo figlio si comportasse in modo così assurdo con una sconosciuta.
-Di solito è molto più taciturno e silenzioso- continuò l'uomo, conducendomi lungo una stradina tortuosa, -oggi, invece, sembra tutto l'opposto. È una buona cosa.-Non risposi, principalmente perché non avevo idea di cosa dire. Mi stavo trovando a disagio, spaesata dal loro strano modo di fare, di parlare, di approcciarsi. Nessuno che conoscessi mi si era mai rivolto con tanta grazia e gentilezza, e fu una cosa che mi spiazzò, letteralmente.
Forse avrei dovuto dire qualcosa, qualcosa che assomigliasse a un "grazie", ma non riuscivo a farlo. Gli ero grata per avermi portata via dalla spiaggia, dove sarei stata ancora, probabilmente, se non mi avessero trovata, eppure non mi fidavo, non ancora. Probabilmente, riflettei, perché non mi avevano ancora detto i loro nomi, ma io non mi azzardavo a chiedere.
Sembrava che fossi diventata muta, un burattino i cui fili venivano guidati da due sconosciuti, eppure io non avevo la forza di rialzarmi. Mi sentivo impotente, imprigionata in un mondo a cui sapevo di non appartenere, e quella consapevolezza mi provocava quasi dolore.Mentre avanzavo come un cieco mendicante, riflettevo sul perché la gente, lì, indossasse quegli strani abiti e quelle insolite calzature: l'uomo che mi stava davanti, di cui vedevo principalmente l'ampia schiena, calzava degli stivali di pelle scamosciata, con dei lacci stretti lungo i lati e dall'aria apparentemente pesante; il bambino, quando ruotai il capo per scrutarlo, portava gli stessi stivali, di un colore appena più sbiadito.
-Fate per caso parte di una commedia o tragedia teatrale?-
La domanda mi sfuggì dalle labbra prima che mi rendessi conto di quanto suonasse inappropriata, e mi guadagnai uno sguardo stranito da parte dell'uomo. Si fermò, voltandosi il giusto necessario affinché potessi distinguere bene la risposta.
-Cosa ve lo fa credere?-
Parlava con un accento marcato, duro. Era come carta vetrata sulle mie orecchie.
Scossi la testa, guardandomi intorno, per poi continuare a camminare.
-È tutto così strano- borbottai sottovoce, ma non troppo perché il bimbo mi afferrò il polso, tirandomi verso di lui. -Come ti chiami? -
Aggrottai la fronte, decidendo che non era il caso di rivelare il mio vero nome, così scrollai le spalle. -Non ti dirò il mio nome fin quando voi non mi direte il vostro- sussurrai in tono quasi scherzoso. Anche se, vista la situazione, non c'era proprio niente su cui scherzare.
Gli occhi del bambino si ingradirono ancor di più, e divennero improvvisamente vigili, come se stesse per rivelare un segreto di vitale importanza. -Io sono Rupert- disse a bassa voce, forse per evitare che il padre lo sentisse. -E lui è il mio papà, Duncan, ma non dirgli che te l'ho detto.-
Tentai un sorriso, che però risultò soltanto una misera smorfia, e gli strapazzai i capelli con la mano. -Piacere di conoscerti, Rupert- gli strizzai l'occhio e ripresi a camminare, bloccando tutte le altre domande che mi frullavano nella testa.
-E tu?- chiese Rupert, a voce un po' più alta, sempre tirandomi per un braccio. -Qual è il tuo nome?-
-Sì, ragazza, qual è il vostro nome?-
Cercai di non bloccarmi. Avevo sperato di evitare la domanda, ma evidentemente dovevo aver fatto male i conti.
-Perché dovrei dirvi il mio nome se non so quale sia il vostro?-
Sentii una sottospecie di risata risuonare nell'aria, attutita dall'ampiezza delle spalle e della schiena dell'uomo. -Mio figlio vi ha già messo al corrente di tutto- disse, mentre si fermava, all'improvviso, davanti a quella che aveva tutta l'aria di essere una fattoria.Era una costruzione in legno, né troppo grande né troppo piccola, ricoperta da un tetto formato da assi e paglia, dall'aria così instabile che per un attimo rimasi interdetta: sembrava sul punto di crollare da un momento all'altro.
Aggrottai la fronte, spalancando la bocca ma, prima che avessi il tempo di dire qualunque cosa, il cielo, sopra di noi, venne squassato da un enorme boato. Feci appena in tempo a sollevare lo sguardo verso l'ammasso di nuvole del grigio più scuro che avessi mai visto, prima che la mano di Duncan si chiudesse intorno al mio braccio nudo e mi trascinasse via.
Rupert corse dietro di noi, appiattendosi poi contro il retro delle mie ginocchia e stringendole come fossi stata la sua ancora di salvezza.
In quel momento, mentre una cascata di pioggia cominciava a riversarsi sul paesaggio, vidi correre verso di noi una giovane donna, con in braccio un bimbo che doveva avere, al massimo, un anno. Rimasi stupita, ancor più di quanto lo fossi stata nel notare gli inusuali vestiti di Duncan e Rupert, nel notare che indossava un corsetto piuttosto malconcio, cucito sopra un'ampia gonna che le arrivava fino ai piedi.
Non appena mi vide spalancò la bocca, squadrandomi allibita, con un paio di occhi azzurri penetranti, come se si trovasse in presenza di un fantasma.
Non ebbi il tempo di sentirmi imbarazzata o altro, che Duncan mi trascinò verso l'entrata del piccolo cottage, facendo un lieve cenno del capo in direzione della donna, che si fece da parte e afferrò con la mano libera quella del piccolo Rupert.
Lanciai uno sguardo al cielo e alla pioggia, che aveva inzuppato la terra, e mi lasciai condurre all'interno, dove mi accolse il calore, proveniente da un focolare d'altri tempi. Sgranai gli occhi, ritrovandomi davanti una dozzina di polli e galline che si muovevano in circolo intorno a un lungo tavolo di legno, al centro del locale.
-Ma cosa diavolo...
-Non fare domande, ragazza- m'interruppe Duncan con una certa rigidità, facendomi cenno di sedermi sull'unico sgabello libero, accanto al focolare.
La stanza era vuota, se non si contavano gli animali e la presenza di padre, figlio e della donna che era entrata dopo di noi.
Obbedii, facendomi largo tra il pollame e senza sapere bene cosa dire o, peggio ancora, se fosse necessario dire effettivamente qualcosa. Mi strinsi forte il mantello intorno alle spalle, chiudendo ermeticamente le gambe e abbassando lo sguardo. I miei capelli erano ancora piuttosto umidi e si erano ammassati davanti agli occhi; non potei che ringraziarli, perché mi stavano nascondendo, almeno parzialmente, dalla visuale della donna.
Il calore del fuoco mi regalò immediatamente un sollievo di cui avevo disperatamente bisogno, e mi indusse a chiudere gli occhi.
Ero così stanca.-Allora.-
Quella voce femminile mi arrivò alle orecchie come un gracidio, resa così probabilmente dal freddo, facendomi trasalire.
-Credo proprio che voi due dobbiate darmi qualche spiegazione.-
Anche senza guardarla, compresi che si stava rivolgendo a Duncan e Rupert, che erano rimasti in piedi, al centro della stanza.
Aprii appena gli occhi per vedere l'uomo lasciarsi cadere sulla panca in legno, e passarsi una mano sul volto. Mi accorsi di quanto fosse stanco e di come ora, a dispetto di prima, sembrasse molto più vecchio.
Rupert intrecciò le mani dietro la schiena e cominciò a dondolarsi sui piedi, con aria colpevole.
La donna li fissava in attesa di qualche risposta, cullando il piccolo tra le braccia con una grazia che mi sorprese.
Decisi che tenere la bocca chiusa fosse la soluzione più saggia che potessi prendere, così lo feci, mentre Duncan si preparava ad affrontare quella che avevo supposto fosse sua moglie.-L'abbiamo trovata giù al lago- spiegò con un sospiro, -era nuda e infreddolita e sembrava più spaesata che mai. Non potevo lasciarla lì.-

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Trapped.
FantasyKatherine ha diciassette anni quando un incidente le stronca la vita. È quello che si convince di essere: morta. Non sa che lì, nel posto in cui è capitata, c'è ancora la vita, c'è il mondo di quasi mille anni prima che continua a vivere, a respira...