1- sesto capitolo.

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Più mi guardavo intorno, meno capivo dove fossi capitata: non c'era un impianto elettrico, una televisione, un pavimento fornito di mattonelle, quadri appesi alle pareti, non c'erano telefoni cellulari, lampadari.
Non c'era niente, se non un lungo tavolo in legno talmente consunto da sembrare striato di cicatrici, un focolare che partiva dal suolo per arrivare al soffitto, e una panca che percorreva tutta la lunghezza del tavolo. In aria, appesi ad un filo, c'erano degli utensili da cucina, aglio, peperoncini. Non avevo mai visto una casa più spoglia, ma non era quella la cosa che mi metteva più a disagio. Era il modo in cui quella donna mi fissava; nonostante cercassi di sostenere il suo sguardo con tutta la dignità che mi era rimasta, riconoscevo di non avere più alcuna tenacia. Mi stavo abbandonando alla confusione, bramando il mio vecchio mondo più di quanto avessi mai immaginato di fare.

-Come sei arrivata qui?- mi chiese la donna, mentre Rupert si ruzzolava a terra con le galline e Duncan si scolava un boccale di birra.
-Intendo, giù al lago. Come ci sei arrivata?-
Deglutii, cercando di stemperare la mente dal disagio e i dubbi. Potevo davvero essere in grado di rispondere a quella domanda? Non lo sapevo. Per quanto avessi cercato di dare un senso a quanto mi era accaduto, tutto mi rimandava all'idea di un sogno, un incubo. Forse ero in paradiso, ma non lo avevo ancora capito. La sola cosa che ricordavo era quella maledetta luce che, se avessi chiuso gli occhi, ero certa avrei rivisto. Non avevo provato dolore e non lo percepivo nemmeno in quel momento. Il senso di vuoto allo stomaco e alla testa, era tutto ciò che mi rimaneva.

Scrollai le spalle, ispirando a fondo.
-Non lo so.-
Lei afferrò uno sgabello e ci si lasciò scivolare sopra, accarezzando il capo del piccolo tra le sue braccia con gesti ritmici e cadenzati.
Allargando gli occhi, esclamò: -Che significa non lo so?
Con la coda dell'occhio colsi il movimento di Duncan nell'accavallare le gambe, per poi spalancare la bocca per dire qualcosa. Qualcosa che, repentinamente, sua moglie bloccò sul nascere.
-Almeno sai dirmi come ti chiami?-
Stavolta la sua voce risultò lievemente più morbida, gentile.
Tacqui, cominciando a torturarmi nervosamente le unghie delle dita, un gesto che compivo usualmente, quando ero agitata. Non potevo rivelare il mio nome a dei perfetti sconosciuti, mio padre mi aveva impartito quella lezione di vita decine di volte nel corso della mia infanzia, eppure lì, in quel momento di chissà quale anno, lui non c'era.
Mio padre. Fu a lui che pensai non appena mi venne rivolta quella domanda. A lui, perché non avevo avuto il tempo di salutarlo, non gli avevo nemmeno dato il buongiorno, come facevo sempre, tramite un messaggio. Non avevo mai avuto chissà quale stretto legame con quell'uomo, eppure, nonostante questo, iniziai a sentire la sua mancanza come qualcosa che mi era stato sottratto, il pezzo di un puzzle  che non sarebbe più appartenuto al suo disegno originario: non avevo perso solo la cognizione del tempo e della realtà, avevo perso anche la mia famiglia, che si riduceva a mio padre, l'unica persona che contasse ancora qualcosa, per me, dopo che la mamma mi aveva lasciata. Ed ora non c'era più o, precisamente, non c'ero più io. Chissà dov'era, cosa stava facendo, qual era stata la sua reazione quando non mi aveva vista tornare a casa, cosa stava provando in quel momento. Egoisticamente, speravo di avergli lasciato quell'impronta nel cuore, che lo aveva portato a pensare ho perduto una parte di me, mia figlia.
Ma non ne ero così certa.

La donna si schiarì la gola, facendomi trasalire e interrompendo il corso dei miei pensieri.
La guardai, stavolta, senza più dubitare e sussurrai: -Katherine, mi chiamo Katherine.

-Bene, Katherine- disse lei, accennando un sorriso e rivolgendo al marito uno sguardo d'assenso, che lui ricambiò amabilmente.
-Avrai bisogno di qualcosa da mettere addosso e da calzare.-

Abbassai lo sguardo sul tessuto del mantello che mi copriva a stento le ginocchia e annuii, senza guardarla.
-Seguimi- proruppe, alzandosi e affidando il bimbo a Duncan, che lo prese con dolcezza.
Adesso aveva uno sguardo gentile, quasi materno, nonostante sembrasse non molto più vecchia di me.
-Eliza avrà qualcosa tra i suoi abiti che potrebbe starti bene.-
Mi tese la mano e io la fissai; osservai la pelle raggrinzita in alcuni punti, osservai il pallore che la velava, che ne percorreva ogni tratto, poi sollevai lo sguardo e indugiai nel suo. Nero contro azzurro.
Posso davvero fidarmi di te, di voi?

La donna parve leggermi quella tacita domanda negli occhi, perché mi sorrise, accompagnando quel gesto con un cenno del capo. -Puoi farlo, Katherine.-
In quel momento, il battito tumultuoso del mio cuore rallentò, tornando al suo ritmo regolare; afferrai quella mano, forse con troppa veemenza, ma lei non ne sembrò infastidita.
Lasciai la cucina sotto lo sguardo di Duncan e di Rupert, ancora intento a trastullarsi con i polli. Quando mi vide allontanarmi, il piccolo mi sorrise, per poi tornare al suo passatempo e io mi lasciai condurre dalla donna, di cui ancora non conoscevo il nome, in un'altra stanza.

                            ***

Quando mi tolse il mantello dalle spalle, un'ondata di freddo mi pervase le membra, provocandomi un brivido.
-Sei stremata- constatò la donna, avvicinandosi a uno sgabello e posandoci sopra l'indumento.
Poi si diresse ad un armadietto, ne aprì un'anta, estraendone una saponetta smussata agli angoli, e tornò da me.
-Siediti- m'invitò accennando allo sgabello dietro di me. Obbedii, non sapendo bene cosa aspettarmi.
Delicatamente, lei passò il sapone sulla mia pelle: aveva un tocco leggero, quasi intangibile, e mi ricordò quello di mia madre. Malgrado tutti gli sforzi per costruirmi quella corazza di ragazza dura che non teme niente, gli occhi mi si riempirono di lacrime, ma le trattenni.
La donna mi spostò i capelli dietro le spalle passandomi il sapone anche lungo il collo e a quel punto tornai in me e allungai il braccio, bloccando i suoi movimenti.
-Ti ringrazio, posso fare da sola.-
Lei scosse la testa, decisa, e continuò il suo lavoro con meticolosità. La lasciai fare, osservando la stanza intorno, dalle pareti spoglie, con l'unica presenza di un armadietto, due sgabelli e tre letti, o quanto di più vicino a dei letti fossero, e nessuna finestra, come non ne avevo viste nella cucina.
-Posso sapere come ti chiami?- le chiesi, stringendo le gambe e vergognandomi della mia nudità. Lei si accorse di quel gesto e mi sorrise, incoraggiante, quando scese con il sapone sotto il mio ombelico.
-Layla- rispose in un sussurro. Mi guardò, finché io non trovai il coraggio di aprire le gambe e di lasciarmi lavare.
La sensazione che mi avvolse fu una delle migliori mai provate: riuscii a rilassarmi, malgrado tutto, e a godermi quegli attimi di benessere.
-Vieni- disse Layla, guidandomi verso un altro sgabello. Aprì di nuovo l'armadietto e ne estrasse vari indumenti: una camicia di lino color beige, una sottoveste bianca, una sottogonna di cotone, un corpetto grigio, di un grigio sbiadito, e delle calze scure. Poi cominciò a vestirmi, borbottando qualcosa quando i miei capelli, troppo lunghi, le intralciarono il lavoro. Involontariamente mi sfuggì una risatina e mi affrettai a facilitarle il compito, spostandomeli dietro le spalle.
Lei sorrise insieme a me, mentre mi faceva alzare le braccia per infilarmi il corpetto. Era strano indossare una cosa del genere: mi sentii d'un tratto intrappolata, le stecche che facevano pressione contro le costole, in modo da tenermi il seno sollevato. Mi scappò un mugolio dalla bocca, quando Layla si mise a stringerne i nodi dietro la schiena. -Perdonami- si scusò subito, tornando sul davanti per ammirare il lavoro.
-Ti dona molto questo colore- commento in tono gentile, -si abbina ai tuoi capelli rossi.-
In quel momento sgranai gli occhi, rimanendo di stucco, quasi inebetita.
-I miei capelli... rossi?- ripetei, fissandola a metà tra l'angoscia e la confusione.
Lei sembrò non capire, arricciando le labbra in una smorfia appena accennata.
-Sì, Katherine- disse, afferrandone una ciocca e spostandomela davanti agli occhi, -i tuoi capelli, sono rossi.-
Mentre fissavo allibita il colore di quei riccioli che fino a ventiquattro ore prima erano stati neri, non potei fare a meno di assumere un'espressione costernata.
Come diavolo era possibile?

-Stai bene, cara?- mi chiese Layla, in tono premuroso. Mi afferrò le mani e le strinse delicatamente, finché non ricambiai il suo sguardo.
-Io... sì, sì, sto... bene- farfugliai parole sconnesse, mentre un'altra orda di domande cominciava a riempirmi la testa.
-Sei sicura?-
Annuii, stringendomi le braccia intorno al corpo per proteggermi dal freddo che mi aveva assalita, ancora una volta.
-Torniamo in cucina, così ti riscalderai- disse Layla, offrendomi la mano, ancora.
La presi, deglutendo nervosamente, impacciata in quegli abiti che non avevo mai indossato prima e continuando a chiedermi come potesse essermi accaduta una cosa simile.

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