La gatta

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Mio zio era sempre stato un uomo solitario, introverso, di poca compagnia

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Mio zio era sempre stato un uomo solitario, introverso, di poca compagnia. Gli ultimi ricordi che ho di lui risalgono alla mia infanzia, quando a Pasqua e a Natale mia madre lo invitava a casa nostra, e lui restava tutto il tempo appoggiato al muro come se pensasse di doverlo reggere con le spalle, fumando con aria così truce che nessuno aveva mai osato chiedergli di non farlo. Quando i miei genitori erano morti e io ero andato a vivere coi nonni paterni, non avevo più visto quello strano parente di mia madre, che viveva solo, a parte la compagnia dei suoi gatti e delle sue sigarette puzzolenti, e non avrei più pensato a lui se tre settimane fa non avessi ricevuto una telefonata, che diceva che mio zio era morto e che io ero il suo unico erede.

Lo zio era morto come muore la maggior parte dei vecchi: solo, nel suo letto, mentre sonnecchiava guardando la TV. La sigaretta gli era caduta dalle labbra e gli aveva bruciacchiato il pigiama e la pelle, ma la piccola ustione post mortem non era certo il particolare che più colpiva lo spettatore: gli mancava completamente la guancia sinistra, il lobo dell'orecchio e parte del mento. Quando l'avevo notato, alla camera mortuaria, avevo chiesto spiegazioni al becchino, che si era esibito in un sorrisetto falso e aveva detto: "È normale che accada, quando ci sono dei gatti in casa."

L'eredità di mio zio si era subito rivelata molto deludente: qualche centinaio di euro, una collezione di enciclopedie tutte rigorosamente incomplete e, appunto, un gatto. O meglio, una gatta: il mostriciattolo che aveva mangiato la faccia di mio zio era una gattina piccola e brutta, ma affettuosa e straordinariamente intelligente. Era stato divertente osservarla durante il giorno, mentre apriva le porte di casa mia saltando sulle maniglie e spiava i piccioni appollaiati fuori dalle finestre. Ho pensato che sarebbe stata una piacevole convivenza... finché non è calato il buio.

Quella notte mi sono svegliato con un senso di oppressione al petto: nella penombra ho visto la gatta seduta su di me, che mi guardava fisso in viso. Pensavo volesse uscire, o che le fosse venuta fame... Ma appena ho allungato il braccio per accendere la luce, lei è saltata giù dal letto ed è uscita dalla mia camera, ondeggiando flessuosa oltre la porta. La scena si è ripetuta la notte successiva, e quella dopo ancora: ogni notte, ogni maledetta notte, alle tre e venticinque (l'ora in cui morì mio zio) mi sveglio con quel peso leggero sul petto, quegli occhi stregati puntati in viso!
Continuo a ripetermi che non è niente, che non devo pensarci, ma... Ma io ho paura di quella gatta! Quella gatta! Che spia ogni mio movimento, che ogni notte viene a visitarmi come un incubo: ho paura, ho paura, perché quel mostro ha assaggiato la carne umana e io temo (Dio!) che le sia piaciuta, e che non veda l'ora di assaggiarla ancora...

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