1. Londra, chi poteva immaginarlo?

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Odiavo stare lontana da mio padre, ma visto che lui doveva partire per Perth, in Australia, dopo aver vinto un concorso per fare esperienza all'estero, avevo deciso di restare in Inghilterra e stare a casa dei miei zii, Joe e Rachel, e mia cugina Blair, della mia stessa età. D'altronde si trattava solo di sei mesi e la mia vita sarebbe tornata quella di prima. E poi non sarei stata sola, c'era Blair ed era come una sorella per me.

Eravamo molto simili, tranne per il fatto che lei era estroversa e quindi più pazza. Io invece ero sempre stata piuttosto timida. Lei era più disinvolta e se aveva qualcosa da dire la diceva senza peli sulla lingua, al contrario di me che avevo sempre avuto paura del giudizio degli altri, per questo motivo soffrivo in silenzio e non parlavo molto.

Probabilmente il motivo di questo carattere era dovuto al fatto che avevo perso mia madre all'età di sette anni e quindi non ero una persona molto aperta, nonostante ne avessi diciassette.

A parte questo ero felice di abitare a Londra, anche per poco tempo. C'ero stata una volta o due, ma ero piccola, quindi non ricordavo molto nonostante vivessi a Liverpool, perciò non molto lontano. In realtà non ero mai andata da nessuna parte se non a Manchester, dove vivevano i miei nonni paterni e altri miei zii, non perchè non avessi la possibilità, ma perchè avevo sempre sognato di viaggiare in tutto il mondo come un non-stop, quando avrei avuto tempo e una buona indipendenza.

Così quel 2 luglio io e papà ci ritrovammo in aeroporto per salutarci.

«Chiamami quando arrivi a Perth», raccomandai a mio padre con le lacrime agli occhi.

«Certo, Emma. Mandami un messaggio non appena arrivi a Londra. Salutami tutti» disse mio padre.

Mio padre, Tom Cooper, era anche lui un tipo silenzioso e non piangeva mai. L'unica volta che glielo vidi fare fu al funerale di mia madre. Però questa volta aveva gli occhi lucidi.

«Ovviamente, papà. Ti voglio bene», dissi, e all'istante lo abbracciai.

Ricambiò l'abbraccio e mi baciò sulla fronte.

«Te ne voglio anche io, tesoro», mi strinse più forte e mi guardò negli occhi. «Dai, devo salire sull'aereo. E tu non rischiare di perdere il pullman. Vai, piccola, e scrivimi ogni tanto».

«Un altro abbraccio» pregai, e lo strinsi di nuovo.

In quei sei mesi sapevo che le sue braccia, la sua voce e la sua protezione da papà mi sarebbero mancate.

«Ok, papà. Vai.. Ti voglio tanto bene», dissi, sciogliendo l'abbraccio.

«Ti voglio tanto bene», ribadì.

Mi asciugai le lacrime e mi voltai dirigendomi verso l'uscita. Diedi un'ultima occhiata al mio papà e uscii velocemente, combattendo la voglia di correre da lui.

Salii sul pullman e come al solito accesi l'iPod e mi isolai dal mondo, continuando a piangere.

Quando arrivai a Londra trovai già i miei zii e Blair che mi aspettavano alla fermata.

Ed eccola lì, la mia migliore amica. Bellissima come sempre, vestita in modo impeccabile, con la sua Céline a tracolla e i Ray-Ban che le coprivano gli occhi color cioccolato, stesso colore dei suoi capelli. Sembrava dimagrita, anche se suonava strano, dato il suo grande amore per il cibo. Non ero mai stata molto sociale a scuola. Avevo degli amici, sì, ma non ero mai riuscita a confidarmi apertamente come facevo con Blair. Lei riusciva a capirmi, a confortarmi e a darmi ottimi consigli. Mi conosceva alla perfezione. Sembravamo sorelle più che cugine.

E poi c'erano i miei adorati zii. Rachel, grande avvocato, ottima madre e amica, che più passavano gli anni e più diventava bella. Mia madre e lei erano molto intime, tanto che erano state testimoni l'una al matrimonio dell'altra. E poi Joe, fratello minore di mio padre e indaffarato imprenditore di un'azienda dolciaria famosa in tutto il Regno Unito.

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