Capitolo Primo

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359 giorni dopo l'abbandono.

Drew Wyatt

Resto a fissare il cielo stellato sdraiato sul cofano della mia vecchia Jeep verde. La notte scorre tranquilla, cullandomi in uno strano stato di malinconia. Il vento soffia leggero, accarezzando le foglie di due enormi pini.

Il parcheggio è illuminato da due lampioni non al meglio delle loro condizioni che donano un'atmosfera soffusa e romantica all'ambiente.

Tutto giace tranquillo, come se il mondo si fermasse ai confini di Wilmington, nella Carolina del Nord.

Alzo il polso davanti ai miei occhi e do uno sguardo all'orologio: le lancette segnano le 9:30 di sera.

Ci vorrà ancora molto prima che qualcuno venga qui dietro a chiamarmi, così prendo il cappello nero che avevo appoggiato al petto e mi copro il viso, spegnendo la luce naturale della luna.

Chiudo gli occhi e lascio che la mia mente si rilassi per la prima volta da settimane, ripensando al giorno in cui è iniziato il mio viaggio, quasi un anno fa.

Il suo viso è la prima cosa a cui penso: gli occhi verdi che si increspano agli angoli, lo sguardo caloroso, i capelli neri sempre in ordine e la sua pelle morbida e calda.

Sento la malinconia e la tristezza pesare sul mio petto. Trecentocinquantanove giorni sono passati dall'ultima volta che l'ho vista e, certi giorni, mi sembra di non riuscire a respirare. Il peso della malinconia sembra tenuto sospeso sul mio petto da una flebile corda e, il più delle volte, essa si spezza senza che io possa accorgermene. E in questo periodo, il vuoto generato dalla sua assenza, dà vita ad un tipo di tristezza che non riesco a fermare o a spiegare.

Sospiro mentre delle minacciose lacrime iniziano a pungermi dietro gli occhi. Le respingo, stringendoli forte. Non posso lasciarmi andare, non adesso, non ancora. Ho fatto molta strada da allora e sono vicino abbastanza a riuscire a trovare delle risposte e a rimediare al dolore che lei ha vissuto.

Inspiro profondamente, poi espiro, buttando fuori tutte le emozioni tristi che mi annebbiano l'anima.

Il rumore regolare delle auto che si inseguono sulla strada è rilassante mentre la musica soffocata nel locale inizia a farsi più forte: dovrebbe mancare poco.

Sento dei passi decisi girare l'angolo alla mia destra e dirigersi verso il parcheggio. Dei piccoli sassi vengono scalciati verso di me.

«Merda, Steph, dove diamine ti sei cacciata?» urla feroce una ragazza, «Il nostro turno sarebbe dovuto iniziare due ore fa, dannazione! Richiamami!»

Chiude quello che presumo sia stato uno sfogo rivolto a una segreteria, poi lascia andare un urlo gracchiante e nevrotico.

«Se non ti dispiace, avrei bisogno di riposare e concentrarmi!» borbotto stufato. Non mi volto né mi scomodo ad aprirli, lasciandoli nell'ombra generata dal cappello.

«Oh, mi scusi buon uomo, ma devo gentilmente invitarla ad andare a farsi fottere. Se vuole riposare, si prenda una stanza. I motel sono più avanti, questo è un fottuto pub.» gracchia ancora arrabbiata.

Resto perplesso dal suo modo sfrontato. «Be', se la metti così, non è nemmeno un manicomio, quindi...»

Finge una risata, poi mi lancia quello che presumo essere un sassolino, che si schianta su un'altra auto. «Divertente! A differenza tua, non ho tempo di riposare né di parlare con un inglesino spocchioso!»

Sento i suoi passi strisciare avanti e indietro sul terriccio del parcheggio, poi il rumore dei tasti del cellulare.

«Spocchioso?» chiedo basito.

Frammenti di un addioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora