Affogo.

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Riesco solo a vomitare lacrime e scarabocchi.
Diventa tutto grigio e tutti i suoni muoiono.
La mia penna diventa nera, la mia mente diventa sera.
E non c'è più niente da udire da me se non urli strazianti che provengono dalla mia testa.
Dal mio cuore.
Ho la gola dolorante perché li soffoco di continuo.
Avessi fatto altri passi non starei così adesso,
ma ho continuato e non mi sto muovendo.
E non ho intenzione di muovermi.
Sono cambiata ed andrò affondo.
Ci sto credendo
e sto perdendo ogni barlume di lucidità.
Sto perdendo il senno e la ragione,
strappo arterie al mio cuore come fosse quello di qualcun altro.
Il grigio si mescola al nero.
Il nero si mescola al nero.
Vedo solo una luce nel buio.
E non è la via di fuga.
Non è la salvezza.
Non è una metaforica luce divina che mi risolleva dall'ammasso di nulla al quale mi sto amalgamando.
È un cellulare.
È la luce di una distrazione.
È qualcosa che mi aiuta a non urlare così tanto da cacciare anche le costole.
Qualcosa che mi aiuta a tenere tutto dentro.
E cerco di soffocare il male respirando profondamente.
Cerco di gonfiarlo come un palloncino ed aspetto solo il momento in cui sarà troppo pieno e scoppierà. Ma non succede.
Non scoppia mai.
Scoppio io,
scoppia il mio cuore,
ma l'oceano nero,
sibillino,
pece,
che pare quasi senza fondo
(o forse lo è),
non si prosciuga mai.
Bevi,
O tu mistico cuore selvaggio,
tutta l'acqua torbida di queste acque,
ed io,
a mio tempo,
soffierò via le tue nuvole cupe.
Strozzami con i filamenti dei tuoi muscoli,
con la tua giugulare,
con le arterie principali del tuo cuore
e non permettermi via di fuga.
Usa le tue parole migliori,
ammaliami col tuo canto soave,
sii una sirena che mi porta alla rovina.

I poeti scrivono di notteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora