Capitolo 1

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Mi svegliai di soprassalto nel buio della stanza e con il fiatone.Toccai con le mani tutto il corpo. Ero sveglia, ero nella mia camerae ogni cosa sembrava essere normale. Era stata solo un'illusione,un altro maledetto incubo! Fuori tutto taceva, ma dentro quellastanza qualcosa continuava a far un rumore assordante: i sogni.Dall'età di cinque anni ero solita affrontare delle strane visioni edero giunta alla conclusione che i miei non fossero banali sprazzi difantasticherie, piuttosto li avrei chiamati con il loro vero e proprionome: incubi. Perché questo? Per il semplice motivo che i sognisono dolci, ti cullano nella loro semplicità, nel loro divertimento,nella loro spensieratezza, mentre quelli che invadevano i miei sonnierano veri tormenti, di quelli che ti fanno svegliare nel cuore dellanotte urlando e supplicando aiuto, un aiuto che non ti tirerà maifuori dall'oscurità della sua prigione. Ogni visione mostruosa chevivevo era come se un pezzo della mia vita mi fosse stato strappatovia e cercasse di tornare dalla legittima proprietaria. Qualcosa didoloroso che non volevo ricordare e che mi sforzavo di far restarenei meandri della mia mente, al sicuro, rinchiuso.Sospirai passando una mano tra i capelli rossi e umidi. I mieiocchi stanchi e arrossati vagarono nella piccola stanza da letto incui mi trovavo. La porta della camera si spalancò improvvisamentee la figura sottile di mia madre corse da me tutta trafelata.«Sofia, cosa è successo? Ti ho sentita urlare. Un altro in-quietante sogno?» guardai mia madre sedersi al mio fianco e lasciaiche la testa ricadesse sulla sua spalla in modo leggero.«Sì, mamma, sempre lo stesso incubo. Ho avuto la sensazionedi essere richiamata in quel buio che mi circondava. Ho temuto di10non risvegliarmi più» spiegai stringendo le coperte intorno al miocorpo, come a creare una corazza impenetrabile.«Vuoi raccontarmelo?» chiese titubante carezzandomi la schie-na con movimenti circolari.«Delle mani mi afferravano, mi stringevano e mi strattonava-no. Gridavo, scalciavo e mi dimenavo con tutte le forze, ma nonriuscivo a liberarmi. Poi ho udito di nuovo quella voce...» Le mielabbra si muovevano appena, mentre cercavo di fare mente localesul mio sogno.«Cosa ti ha detto questa volta?» domandò, riferendosi a quelsuono soave e femminile che udivo. Scossi la testa frastornata eportai la mano sulla fronte imperlata di sudore.«Non ricordo» mentii, ciò che avevo udito era qualcosa che miturbava nel profondo e non avrei voluto affatto condividerlo conmia madre, avrebbe provato a sminuire la cosa e io non volevo,perché ero certa che quella voce fosse reale, tanto quanto la pre-senza di mia madre al mio fianco in quel momento.«Sai tesoro, i sogni rappresentano le nostre più grandi paureinteriori e, per far in modo che questi non ci rovinino la vita, li sideve affrontare» sussurrò vicino all'orecchio, schioccandomi uncasto bacio sulla testa ancora intenta a ripercorrere gli attimi chemi avevano svegliata. Se quello che diceva mia madre era vero,allora quale sarebbe stata la mia più grande paura? Non riuscivo atrovare un senso a tutto ciò.«Prova a dormire di nuovo, magari questa è la volta buona»mi consigliò alzandosi dal letto e iniziando a rimboccarmi le co-perte, come quando ero bambina, poi, lentamente, uscì dalla camerachiudendosi la porta alle spalle. Le tenebre tornarono a oscurare lamia cameretta e, nel silenzio della notte, le parole di quella vocefemminile si ripeterono come un mantra.«Richiama alla memoria la tua natura, ciò che è nato per essereunito, non può essere separato.»***11Quando la mattina arrivò, fin troppo in fretta, mi alzai dal lettoe, con aria stanca, mi diressi verso il piccolo bagno vicino alla miacamera. Afferrai lo spazzolino e lavai i denti il più velocementepossibile per dedicarmi alla spazzolatura dei miei capelli. I fili ros-si ricadevano lungo la schiena in morbide onde, l'unica cosa chedimostrava che in me c'era ancora vita. Persino i miei occhi gri-gi che solitamente apparivano luminosi sembravano di un colorespento quel mattino.Uscii dalla stanza e scesi le scale attraversando il corridoio dal-le pareti azzurrognole e il parquet rovinato. La casa era piccola,disastrata e necessitava di qualche lavoretto di restauro, ma nonavevamo soldi per permetterci migliorie e mia madre era ferma-mente convinta che Dio, un giorno, ci avrebbe ripagate per i nostrisacrifici.Sfortunatamente per me ero atea. Non credevo affatto alla pre-senza di un'entità esterna capace di grandi cose e, se fosse maiesistita, dubitavo fortemente che avrebbe speso il suo tempo adaiutare insignificanti creature mortali.Non appena riuscii ad aprire la porta d'ingresso, l'aria frescae umida mi carezzò la pelle stanca e, senza fermarmi a respira-re quella beatitudine, iniziai a camminare freneticamente lungo ilmarciapiede che conduceva alla fermata dell'autobus, dove la miaamica Rose mi aspettava ogni mattina.«Rose!» la chiamai non appena riuscii a vederla. La ragazzavoltò la testa castana verso di me e sorrise calorosamente prima divenirmi incontro tutta entusiasta sbattendo le folte ciglia scure cherisaltavano gli occhi smeraldini.«Sei in ritardo di cinque minuti!» esclamò facendomi sospira-re. Io e lei eravamo l'una l'opposto dell'altra, in ogni cosa. Roseeccelleva negli sport, io ero quella che arrancava verso la panchi-na sperando di riuscire ad arrivarci viva e, se io ero quella che lamattina riusciva ad alzarsi dal letto al secondo suono della sveglia,Rose era colei già in piedi da ore e pronta ad affrontare la giornatacon grinta.«Mi farò perdonare, promesso!» risposi, cercando di essere più12convincente possibile. Rose emise una smorfia che lasciava inten-dere chiaramente quanto fosse poco convinta al riguardo, ma fudistratta dall'autobus che si arrestò davanti a noi.«Va bene, ma muoviamoci a salire o dovremmo stare in piedi!»borbottò salendo sul mezzo, quasi ricolmo di ragazzi. Ci acco-modammo sulle poltroncine sporche e restammo in silenzio pergran parte del viaggio, lei con le cuffie nelle orecchie e io con latesta rivolta verso il finestrino, il mento appoggiato sul palmo dellamano. La mente iniziò a viaggiare lontana, verso quegli incubi ri-correnti e uno strano presentimento che aleggiava nell'aria umida.Una volta che l'autobus si fermò davanti all'istituto, mi sbrigaia scendere con impazienza. Desideravo ardentemente che quellagiornata terminasse al più presto, solo per poter tornare a casa e ri-posarmi, ma quando i miei piedi toccarono il cemento della strada,qualcosa mi afferrò al volo.«Mettimi giù, razza di gorilla!» strillai rabbiosa sotto le risate diqualcuno che conoscevo sin troppo bene.«Suvvia Sof, non fare l'acida! Che c'è? Ti sei alzata dal latosbagliato del letto stamane?» ridacchiò il biondino, mettendomicon i piedi per terra. Mi voltai di scatto e gli puntai il dito contro ilpetto massiccio. I suoi occhi azzurri si sgranarono dal divertimen-to e non dalla paura, come speravo facesse.«Tu, maledetto...» ringhiai facendogli chiudere le braccia sulpetto, come a voler mostrare quanto fosse più grosso rispetto a me.«Non sei molto simpatica la mattina» scherzò facendomi in-nervosire ancora di più. Gabriel era il mio miglior amico, nonchéquasi coinquilino dal momento che trascorreva le intere giornate incasa mia appisolato sul divano o intento a saccheggiare il frigo, maciò non lo difendeva dall'essere piuttosto fastidioso.«Gaby, sei terribile. Giuro che non ti sopporto più» risposi scoc-ciata, cercando di andarmene.«Avete saputo della novità?» Cercò di attirare la mia attenzionee ci riuscì.«Quali novità? Alla Cattolica abbiamo momenti da dedicare al13gossip?» scherzò Rose facendomi annuire appoggiando il suo pen-siero. La scuola che frequentavamo vantava di essere conosciuta intutta la regione per la sua qualità e i grandi risultati degli studentinel mondo del lavoro. Non c'era da stupirsi se moltissime famigliealtolocate spedivano i figli in questa facoltà, persino mio padreaveva aperto un conto bancario per permettermi di studiare in quelluogo così rinomato, prima di morire. L'unica pecca era l'impegnomorboso che veniva richiesto dai docenti nei confronti degli stu-denti. La serietà, rispetto e disciplina erano le tre parole magicheche venivano ripetute come un mantra ogni giorno.«Dicono che oggi arrivi un nuovo docente, affiancherà per qual-che giorno la Boschi» ci informò pensieroso facendomi uscire unapiccola smorfia annoiata.«Sul serio? E per quale motivo dovrebbe aiutare una docente direligione?» domandai seccata avviandomi verso l'entrata.«Si dice che insegni filosofia e che sia un ricercatore di cimelibiblici...» rispose prontamente il biondo. Lanciai uno sguardo di-vertito e scherzoso alla mia amica che non attese molto prima dipunzecchiare il nostro giovane bell'imbusto.«Accidenti, ti sei interessato molto su di lui» scherzò Rose ti-randogli una piccola gomitata sul fianco. Lui arrossì e si schiarì lavoce.«Assolutamente, sto solo riferendo delle voci che ho sentito ingiro.»«Per essere uno poco interessato, ti sei informato bene» la ri-sata che uscì dalle nostre labbra fu genuina, per un attimo riusciipersino a dimenticare la stanchezza delle notti trascorse in bianco.Mentre camminavamo verso le nostre aule, non potei non udire ichiacchiericci dei compagni, tutti parlavano del nuovo professoree della sua vita lavorativa, come se l'avessero già conosciuto. Pos-sibile mi fossi persa un tale evento?«Dai, muoviamoci o la Boschi ci spedisce dalla preside» con-sigliò il biondo avviandosi verso l'aula di religione. Succedevaspesso che qualcuno fosse mandato dalla preside per il ritardo allalezione, e le punizioni non erano piacevoli. Ai compiti assegnati14dai docenti, che erano già molti, lei ne aggiungeva altri! Li tripli-cava!Quando giungemmo davanti alla nostra aula, rimasi sbalorditanel vedere quanto chiacchiericcio c'era nella stanza. L'arrivo delnuovo docente doveva aver suscitato tanta curiosità nei ragazzi,anche se io non ne capivo il motivo.Mi accinsi a raggiungere il mio posto tirando fuori i libri dallozaino. Rose mi affiancò subito dopo con le orecchie ancora tesesulle voci femminili. I miei occhi vagarono alla mia sinistra, sullavetrata che dava sul cortile esterno. Un temporale si stava facendostrada tra le nuvole color del latte, mi maledissi mentalmente pernon aver preso l'ombrello e sbuffai poggiando il mento sulla manocon il palmo rivolto verso il viso. Una goccia solitaria schizzò ilvetro facendomi sobbalzare e, in quel momento, mi resi conto chetutti stavano correndo ai propri posti, spaventati ed eccitati.«Buongiorno, ragazzi.» La voce sicura e decisa della Boschi fuaccompagnata dal suono del ticchettio dei suoi tacchi a contattocon il pavimento. Il silenzio regnò sovrano per alcuni minuti, pri-ma che la Boschi iniziasse a parlare.«Carissimi studenti, il signore al mio fianco si chiama MichaelVega e resterà con noi solo qualche giorno per eseguire delle ricer-che per i suoi studi. Vi prego di mantenere il controllo e il deco-ro per queste due ore di lezione che il professore ha gentilmenteproposto di trattare. Spero che la sua presenza al nostro fianco siamotivo di ispirazione per tutti noi...»Quando i miei occhi si posarono sulla figura al suo fianco, unnodo alla bocca dello stomaco mi fece quasi piegare in avanti.Quel viso mascolino, contornato da lunghi capelli biondi e mos-si, mi ricordava qualcosa di spiacevole, ma non riuscivo a com-prendere cosa fosse. Lo osservai con attenzione, non avrei potutonegare la sua bellezza, eppure qualcosa nel suo sguardo rigido ecomposto mi teneva in allarme.«Buongiorno a tutti, resterò in vostra presenza il più breve tem-po possibile. Sono qui solo per svolgere delle ricerche importanti,poi me ne andrò altrove, ma spero che questo nostro incontro pos-15sa rivelarsi illuminante per ognuno di noi» schioccò la lingua sulpalato. La sua voce era così compatta e solida che per un momentoimmaginai di schiantarmi su una parete rocciosa.Voltai la testa verso la finestra osservando rapita la tempesta. Ifulmini squarciavano quel velo sottile che avvolgeva la terra e ilvento carezzava le piante che si piegavano a esso, come a tentaredi fuggire da quel tocco irruento. Ogni volta che i tuoni rimbomba-vano nell'aria, dentro di me qualcosa spingeva per uscire. Riuscivoa percepire il grido della rabbia, il desiderio di fuggire via, altrove,e la folle adrenalina di una pazzia che avrei voluto commettere.Il cielo azzurro e limpido colorava i miei occhi illuminati dallafievole luce del sole, coperto a sua volta dalle nuvole bianche ecotonate. Strinsi gli occhi con forza portando persino una manosulla fronte, spinta dalla curiosità di ammirare quella stella infuo-cata che mai ero riuscita a vedere in modo nitido.«La luce della stella più brillante creata da mio padre è magni-fica, non trovi? Così calda e splendente che illuminerebbe il cam-mino più oscuro.» La sua voce mi arrivò alle orecchie facendomisussultare dallo spavento.«Bello, certo, ma perché non sembra volersi mostrare per ciòche è?» chiesi curiosa continuando a fissare quella luce accecante.«A volte credo di udire parlare mio fratello» borbottò spazien-tito facendomi arrossire.«Pensaci bene, se davvero può illuminare un sentiero oscurato,perché non ce lo mostra? Forse, tuo fratello ragiona...» osai az-zardare sentendo il suo respiro farsi pesante.«Il destino del primo figlio procederà nelle tenebre, se continu-erà a osannare la ragione...» Le sue parole sembrarono una mi-naccia, ma cercai di non dargli troppo peso, poi la sua voce si fecesentire ancora, ma con più forza.«E tu, minuscolo giglio, dovresti porti una domanda importante:può un fiore di luce illuminare l'oscurità più cupa al mondo?»«Sofia!» la professoressa Boschi mi richiamò facendomi sob-16balzare. Dei piccoli risolini divertiti risuonarono lievi nella classe,mentre i miei occhi puntavano quelli marroni della docente.«Sì?» chiesi timorosa della sua reazione.«Non è educato, da parte tua, voltare la testa altrove, mentre uninsegnante espone le sue ricerche.»«Mi perdoni professoressa Boschi, ma devo prendere le partidella studentessa» il ricercatore entrò davanti alla mia visuale conun sorriso pacato che, agli occhi degli altri, si mostrava rilassantee piacevole, ma che ai miei risultava sgradevole.«La ragazza puntava con lo sguardo al cielo, se non mi sbaglio.Forse, il suo desiderio di avvicinarsi a nostro Signore e Creatoreè tanto!» esclamò euforico spalancando le braccia verso il cielo.Restai a fissarlo con un'espressione inebetita, indecisa se rispon-dere alla tentazione di ribattere alla sua affermazione o seguire ilbuonsenso e restare nel muto silenzio, ma se c'era una cosa in cuiero incapace, era proprio restare in un angolo in disparte.«No, in realtà osservavo il temporale» risposi con le soprac-ciglia aggrottate. In quel preciso momento il silenzio calò su dinoi, tutti gli occhi premettero sulla mia figura rannicchiata al ban-co. Non potei evitare di notare uno strano scintillio negli occhidel ricercatore che aveva serrato la mascella, come se fosse statocontraddetto in maniera indicibile.«Mi stai dicendo che non aspiri a raggiungere il Creatore?»«Perché dovrei farlo? Non desidero morire se è questo che in-tende per raggiungere Dio.»«Sofia!» mi sgridò la Boschi.«Lasci parlare me con la ragazzina» alzò la mano Vega.«Un giorno dovrai sfiorare il velo che conduce oltre l'esistenzaterrestre, ne sei consapevole?»«Ovviamente.»«Credi che il nostro Signore sarà lieto di accogliere una ragazzache ha temuto la morte?»«Mi toglierò ogni dubbio quando lo vedrò, se mai accadrà» si-bilai, lasciandolo sconvolto.«Ciò mi spinge a comprendere che tu sia atea» assaggiò quelle17parole affilando gli occhi azzurri su di me.«Esatto» ricambiai lo sguardo sollevando appena il mento.«Sono lieto di dover affrontare un discorso di ateismo» pro-ruppe improvvisamente abbandonando il mio banco.«Qualcuno di voi conosce la storia del Creatore e del figlio dan-nato?»Rimasi leggermente sconvolta dalla rapidità con cui scattò ver-so la cattedra della professoressa, ma ancor di più da quel cambiodi argomento. Moltissime mani si alzarono per proferire sul tema,tutte tranne le mie.«Sì, proprio tu» indicò Matteo seduto dietro di me.«Sta parlando di Lucifero, vero? Abbiamo trattato spesso lacaduta...» non persi tempo ad ascoltare le solite storie su quellacreatura divina. Il figlio esiliato e condannato per essersi mostratoper ciò che era realmente, un'anima libera e ribelle. Forse, ciòche aveva spinto Dio a spezzare la libertà della sua prole era ilsemplice fatto che il suo magnifico uccellino si era rivelato esserenon un tenero e pacato canarino, bensì un'aquila maestosa e biso-gnosa di indipendenza.«Sofia, che ne dici di darci un tuo parere su Lucifero?» doman-dò improvvisamente la professoressa Boschi attirando la mia at-tenzione. I ragazzi si voltarono verso di me e io non potei far altroche avvampare dall'imbarazzo.«Lucifero ha detto?» cercai di guadagnare tempo. Ma che razzadi domanda era?«Un tuo parere personale, non vogliamo niente di storico o re-ligioso, giusto signor Vega?» mi incalzò lei cercando il consensodell'uomo al suo fianco.«Perché proprio io?» chiesi titubante guardandomi intorno neltotale imbarazzo. La Boschi sollevò gli occhialini sul naso e sor-rise.«Così smetterai di avere la testa tra le nuvole. Dunque?» con-tinuò facendomi ingoiare un groppo di saliva.«Io credo che...» lasciai la frase a metà pensando bene se riferi-re il mio pensiero o modificarlo, ma poi riflettei sul da farsi e decisi18di esprimere il mio vero pensiero sulla faccenda.«Sostengo che Lucifero fosse stato incompreso da suo padree dai suoi fratelli. Ha sempre servito con amore e dedizione lasua famiglia, perché mai avrebbe dovuto tradire il padre? Nessunfiglio odia il proprio genitore. Io penso che Lucifero abbia avutoaltre ragioni, tutto qui» buttai fuori d'un fiato continuando il miopensiero lasciato a metà. I miei polmoni ripresero a respirare, comese improvvisamente si fossero ricordati il loro funzionamento. Laprofessoressa Boschi mi osservò stupita e così tutti gli altri cherimasero a fissarmi con la bocca spalancata in una gigantesca "o".«Cosa ti porta a pensare questo?» domandò Vega.«Lucifero non era malvagio. Lui era...» Mi soffermai a pensarebene a cosa avrei detto, non conoscevo un termine giusto per de-scrivere quella creatura, eppure dentro di me sapevo che esisteva,lo percepivo sulla punta della lingua.«Era diverso» sussurrai mentre le parole uscivano da sole dallamia bocca.«Ognuno di noi è diverso dagli altri, ma non per questo cerchia-mo di spodestare i nostri genitori nel mondo del lavoro o proviamoa ucciderli.»«Magari i reali motivi della sua ribellione non sono mai statisvelati ai nostri occhi» supposi, scrollando le spalle.«Spesso diciamo che qualcosa è cattivo perché qualcun altroprima di noi lo ha sostenuto. Dovremmo pensare con le nostre tes-te e osservare il mondo con i nostri occhi piuttosto che con quellidegli altri» terminai sotto un "oh" meravigliato della docente.«Non è affatto come credi» sentii bisbigliare in modo lento esensuale, quasi come un sibilo.«Cosa?!» Scattai guardando la docente.«Cosa succede Sofia?» domandò preoccupata la professoressafacendomi confondere.«Sofia, va tutto bene? Ti vedo molto pallida» continuò. Quellavoce l'avevo udita solo io? Forse era la stanchezza?«Posso andare in bagno? Non mi sento in forma oggi» mi scusaiprima di sgattaiolare fuori dall'aula con gli occhi dei presenti fissi19su di me, come avvoltoi in attesa della morte della preda, ma ciòche percepivo maggiormente sulla mia schiena era quello sguardofreddo e rigido che non mi abbandonava.

INFERNALE- La guerra degli angeliDove le storie prendono vita. Scoprilo ora