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Stavo camminando nel giardino dietro casa. Avevo freddo e cercavo di raggomitolarmi nel leggero golfino che indossavo. Avrei potuto tranquillamente vestirmi in maniera più pesante, ma mi piaceva sentire il freddo entrarmi nelle ossa. Era una sensazione così pungente e fastidiosa che avevo finito per adorarla.

Vi potreste forse chiedere perchè una sedicienne, alle 10.47 di sera era nel giardino sul retro dell'appartamento in cui viveva con sua mamma e sua sorella. Potreste ipotizzare che avessi litigato con mia mamma perchè non mi aveva lasciata uscire una sera con i miei amici, o che forse avessi litigato con un ipotetico fidanzato e che stessi vagabondando nel guardino col cuore spezzato alla ricerca di un sollievo per la mia mente ferita. Be', la risposta è no.
Di amici ne avevo 2, e per una persona come me erano tanti.
Un fidanzato? Haha. Ha. Ha. Non avevo un fidanzato, se non si fosse capito.

Ero lì perché mi piaceva essere li. Adoravo quel giardino. Era pieno di fiori colorati e c'era anche un piccolo pozzo. Tutte le piante in quel giardino le curavo io. Il giardinaggio era la mia passione; la mamma me lo diceva sempre, "Hai il pollice verde, tesoro. Hai preso da tuo papà, purtroppo."

I rapporti tra i miei genitori non erano dei migliori, a dir la verità. Erano separati, e si odiavano con tutto il cuore. La colpa era di mio papà, questo l'ho sempre saputo. Lui aveva tradito lei, con una donna più giovane di mia mamma di 10 anni. Questo alle donne non piace, ve l'assicuro.

Mio padre fece molti torti anche a me e mia sorella, eppure non riuscii mai ad odiarlo. Per me non c'era mai stato, andavo a trovarlo si e no una volta al mese, non si era mai interessato alla mia situazione a scuola o in generale, ma non me la presi mai con lui. Non so perché, sinceramente. Forse era quell'aria tranquilla che emanava, come se tutto fosse sempre stato perfetto. Aveva gli occhi verdi, come i miei, ed erano la cosa più pacifica che avessi mai guardato in vita mia. Mi piaceva stare con lui, anche se non parlavamo tantissimo. Era mia sorella quella che dialogava con i parenti, io rimanevo al suo fianco, annuendo e sorridendo casualmente. Si può dire che non ero una delle persone più eloquenti al mondo, ecco tutto.

Mi sedetti nella piccola panchina di pietra davanti al pozzo. Era piccolo, e la pietra che lo componeva era sbeccata e annerita dagli anni, ma lo adoravo. Dell'edera percorreva tutto l'arco superiore, e del muschio si era stabilito tra una pietra e l'altra. Attorno crescevano delle violette selvatiche, il cui profumo riempiva l'aria. Dentro non c'era dell'acqua, ma c'era comunque un secchio di legno attaccato ad una cordicella.

Sentivo mia sorella parlare al telefono, dalla finestra di camera nostra che si affacciava al giardino. Stava probabilmente parlando col suo fidanzato. Erano carini insieme, lei lavorava e lui studiava. Diceva che voleva diventare qualcuno, così da poter trattare mia sorella come una principessa nel loro futuro. A quel punto lei gli faceva gli occhi dolci. "Come una regina, vorrai dire," lo correggeva lei. Lui rideva e le dava un bacio. Una coppia davvero bella. Ovviamente ero felice per mia sorella, dopo tutte le storie andate a finir male, se lo meritava qualcuno di speciale. Allo stesso tempo, però, ero gelosa. Anche io volevo qualcuno che mi trattasse come una regina. Qualcuno con cui avrei potuto stare nel mio giardino, tenendoci per mano e parlando tranquillamente. Qualcuno che mi dicesse che le rose che crescevano lì erano bellissime, ma che io ero il fiore più bello. Non sarebbe stato male, diciamo.
Ovviamente io non facevo niente per far accadere tutto questo. La sera non uscivo mai, e a scuola parlavo con al massimo due persone. Non perché non mi piacessero le persone, anzi. Credevo che molti dei miei compagni di classe fossero davvero simpatici, e tante persone avevano provato a fare amicizia con me. Ero io che sbagliavo. Non sono mai stata brava a relazionarmi, tutto qui. La gente cercava di parlare di qualcosa, ma io non trovavo modi di continuare la conversazione, e quella moriva li. Cosí loro si stancavano di provarci, e mi lasciavano stare. Per giunta, essere una completa secchiona e adorata dai professori non aiutava per niente. Durante le spiegazioni, tutti i prof guardavano me, come se fossi l'unica persona nella stanza. Lo facevano perché ero l'unica che seguiva le lezioni. Quando facevano delle battutine guardavano me, aspettandosi che ridessi, e io lo facevo. Non perché fossero divertenti o perché volessi ingraziarmi i professori; volevo solo essere educata, niente di più.

Come ho già detto, di amici ne avevo due. Una era la mia migliore amica fin dai tempi delle elementari, Michela. Era una ragazza entusiasta e felice per ogni singola cosa. Pioveva? Lei era felice. Un cane per strada aveva scodinzolato vedendola? Lei era felice. Io scivolavo e sbattevo il sedere per terra? Lei era felice.

L'altro era Luca. Lo avevo conosciuto in prima superiore, quindi eravamo amici da 3 anni. In realtà, era amico di Michela, all'inizio. Lei attirava la gente, con quell'aura di gioia che emanava. Con me non parlava molto, si limitava a salutarmi quando salutava Michela. Le cose cambiarono a metà del primo anno, quando io, Michela e Luca stavamo andando alla fermata della corriera. Lei aveva pestato una foglia bagnata ed era scivolata, sbattendo la faccia contro un albero. Io scoppiai a ridere senza ritegno, non riuscendo a trattenermi. Avevo le lacrime agli occhi quando lei si rialzò, e mi mandò a quel paese. Luca mi guardava esterrefatto: era la prima volta che mi sentiva ridere così, a quanto pareva. Quando riuscii a smettere, Michela era arrabbiata ed indolenzita, mentre Luca mi guardava e sorrideva. Quando gli chiesi cosa aveva, mi disse che gli piaceva la mia risata, e che avrei dovuto fargliela sentire più spesso. Rimasi ferma un attimo, e poi sorrisi imbarazzata e lo ringraziai, mentre Michela ci urlava di prenderci una stanza e che le stava salendo il diabete. Io alzai gli occhi al cielo e Luca la spinse avanti, dicendole che avremmo perso la corriera se fosse caduta di nuovo.

Da li cominciammo ad essere amici. Il pomeriggio ci trovavamo tutti e tre in piazza, o a volte nel mio giardino. Adoravamo passare il tempo li, anche se Michela aveva la sbadata tendenza di pestare tutti i miei fiori. Luca le lo faceva notare e lei saltava urlandomi delle scuse. Io rimanevo in silenzio, maledicendola internamente perchè sapevo che non lo faceva apposta. Luca rideva, mentre Michela si precipitava dritta sopra un altro fiore, pronta per scusarsi subito dopo. Passavamo così i nostri pomeriggi liberi, e mi piaceva moltissimo.

Mi alzai dalla panchina e mi appoggiai al pozzo. Guardai dentro, aspettandomi di vedere la classica chiazza di terra e i classici ciuffi d'erba, invece vidi solo nero. Diedi la colpa al buio della sera, dimenticandomi che la luna avrebbe dovuto riflettere la propria luce proprio li dentro. Rimasi a fissare il vuoto, un po' incantata e un po' persa nei miei pensieri. Il giorno dopo avrei avuto una verifica di inglese, senza dimenticarsi dell'interrogazione di tedesco.
Sentii un fruscio tra i cespugli ai lati del giardino, ma non ci badai.
Michela voleva andare in un centro commerciale per comprare un nuovo vestito, ed io sarei dovuta andare con lei.
Notai qualcosa di bianco con la coda dell'occhio saltare sul bordo del pozzo.
Forse avrei potuto convincere Luca a venire con noi, così non sarei stata l'unica ad essere torturata dall'indecisione di Michela in fatto di vestiti.
C'era un coniglio bianco vicino a me, che mi fissava con i suoi occhietti rossi. Lo guardai incuriosita, forse era scappato da qualche famiglia.
C'erano compiti di italiano per il giorno dopo?
Stavo per allungare la mano per accarezzarlo, quando lo sentii parlare. "Stai per cadere" disse con voce profonda. "Non è vero" risposi, assicurandomi di avere i piedi attaccati al suolo. "I conigli non parlano" pensai subito dopo, mentre il mondo si rovesciava e gli occhietti rossi si ingrandivano in una forma più umana e una mano mi spingeva nel pozzo. "Che coniglio bastardo" pensai mentre il nero mi inghiottiva.

"Tanto ora tocco per terra, questo coso è profondo si e no un metro," cercai di convincermi. Eppure il fondo non lo toccai per dieci minuti buoni. Continuavo a cadere nel nulla, guadagnando sempre più velocità nella discesa. A quanto pareva stavo cadendo al contrario, perchè quando toccai terra, lo feci con la testa. Non so quanto veloce stessi andando, ma era sicuramente molto veloce. Svenni per l'impatto e rimasi la per non so quanto tempo, mentre degli occhi rossi perseguitavano i miei sogni.

Alla prossima voltaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora