A me. La storia di una delle mie follie. Da tempo mi vantavo di possedere tutti i possibili paesaggi, e trovavo risibili le star della pittura e della poesia moderna. Mi piaceva la pittura idiota, sovrapporte, scenografie, fondali da saltimbanco, insegne, miniature popolari; la letteratura fuori moda, latino di chiesa, libri erotici sgrammaticati, romanzi dei nostri nonni, favole, libricini per l’infanzia, opere stantie, ritornelli insulsi, ritmi facili. Sognavo crociate, viaggi di scoperta di cui non abbiamo resoconti, repubbliche senza storia, guerre di religione soffocate, rivoluzioni dei costumi, spostamenti di razze e di continenti: credevo a tutti gli incantesimi. Inventavo il colore delle vocali! – A nero, E bianco, I rosso, O azzurro, U verde. – regolavo la forma e il movimento di ogni consonante, e, coi ritmi istintivi, m’inorgoglivo d’inventare una parola poetica accessibile, un giorno o l’altro, a tutti i sensi. Tenevo per me la traduzione. Prima fu un tentativo. Scrivevo dei silenzi, delle notti, annotavo l’inesprimibile, ancoravo le vertigini. ____________ Lontano dalle greggi, dalle pastore, dagli uccelli, Cosa bevevo, ginocchioni nelle brughiere Circondato dagli alberi teneri di nocciolo, Nella foschia di un pomeriggio verde e mite? Cosa potevo bere in questa giovane Oise, - Olmi senza voce, erba senza fiore, cielo coperto! – Bere in borracce gialle, lontano dal mio angolino Preferito? Qualche dorato elisir che fa sudare. Ero un’infida insegna di taverna, - Un temporale venne a spazzare il cielo. A sera L’acqua dei boschi si spandeva sulle sabbie vergini, Il vento di Dio gettava ghiaccioli fra i flutti; Piangendo, vedevo l’oro – e non potei bere. – ______________ Alle quattro del mattino, d’estate Il sonno d’amore dura ancora. Sotto le fronde ormai svapora L’odore festivo delle serate. Laggiù, nei loro vasti cantieri Al sole delle Esperidi Già s’adoperano – in maniche di camicia I carpentieri. Nei loro deserti di muschio, tranquilli, Preparano i loro intonaci pregiati Su cui la città Dipingerà i suoi cieli impiallacciati. Oh, a questi Operai deliziosi, Schiavi d’un re di Babilonia, Venere! Lascia un istante gli Amori Che ti coronano l’anima. Oh Regina dei Pastori, Porta l’acquavite agli operai, Che la loro forza si ristori Nell’attesa del bagno meridiano nei mari. _______________ Il vecchiume poetico teneva un posto importante nella mia alchimia della parola. Mi abituavo all’allucinazione semplice : vedo proprio–perbene una moschea al posto di una fabbrica, una scuola di tamburi composta da angeli, e carrozze sulle rotte del cielo, un salone in fondo a un lago ; i mostri, i misteri ; un titolo da farsa rizzava spaventi al mio cospetto ! Poi spiegavo i miei magici sofismi con l’allucinazione della parole! Finii per trovare sacro il disordine del mio spirito. Ero ozioso, in preda a una febbre pesante: invidiamo la felicità delle bestie, – i bruchi, che rappresentano l’innocenza del limbo, il sonno della verginità! Il mio carattere si faceva acido. Dicevo addio al mondo con delle specie di romanze: CANZONE DELLA PIÙ ALTA TORRE. Che venga, che venga, Il tempo che ci accenda. Ho fatto tanta pazienza Che per sempre ho scordato. Paure e sofferenza Ai cieli son andate E la sete dura Le mie vene oscura. Che venga, che venga, Il tempo che ci accenda. Come la prateria All’oblio lasciata. Fatta vasta e fiorita D’incensi e loglio, Alla rabbia ronzante Delle mosche ripugnanti. Che venga, che venga, Il tempo che ci accenda. Amai il deserto, gli orti bruciati, le botteghe sfatte, le bevande tiepide. Mi trascinavo nei vicoli fetidi e, ad occhi chiusi, mi offrivo al sole, dio del fuoco. “Generale, rimane un vecchio cannone sulle mura in rovina, bombardaci con zolle di terra secca. Agli specchi dei mirabili empori ! Nei saloni ! Fai abbassare la cresta alla città. Arrugginisci le statue. Riempi le stanze chiuse di scottante polvere di rubino…” Oh! Il moscerino euforico nel pisciatoio della locanda, innamorato della borraggine, e che un semplice raggio dilegua. FAME Se qualcosa mi piace, non è certo Il gusto delle pietre e della terra È fatto d’aria il mio pasto Di roccia, di carbone, di ferro. Cambiate, miei appetiti. Pascolate, appetiti, Nel prato dei suoni. Attirate il gaio veleno Dei convolvoli. Mangiate i sassi spezzati, Le vecchie pietre delle chiese; I ciottoli di diluvi andati, Pani sparsi nelle valli grigie. ______________ Il lupo gridava sotto il fogliame Sputando fuori le belle piume Del suo pasto di pollame Come lui io mi consumo. Le insalate, i frutti Aspettano solo di esser colti Ma il ragno nascosto nella siepe Mangia soltanto le violette. Che io dorma ! Che io arrivi a bollore Sopra gli altari di Salomone. Il brodo denso sulla ruggine qui si frammischi al Cedrone. Infine, oh gioia, o ragione, scartai l’azzurro dal cielo, velo nero, e allora vissi, scintilla d’oro della luce natura. Dalla gioia, prendevo un’espressione grottesca e confusa oltre ogni dire: E’ ritrovata ! Che cosa ? L’eternità E un mare in cui sta Disciolto il sole. La mia anima eterna Tiene fede al suo patto Malgrado la notte E il giorno in fuoco. E così ti distacchi Dagli umani attracchi, Dagli slanci comuni Voli secondo… – Mai la speranza, Nessun orietur. Scienza e pazienza, Il supplizio è certo. Nessun domani, Brace di seta, Il vostro ardore E’ il mio dovere. E’ ritrovata ! – Che Cosa ? L’Eternità. E’ un mare in cui sta Disciolto il sole _________________ Divenni un’opera favolosa ; vidi che tutti gli esseri hanno sono fatalmente destinati alla gioia : l’azione non è la ma vita, ma un modo per sprecare qualche forza, un logorio. La morale è la debolezza del cervello. Ad ogni essere, molte altre vite mi sembrano dovute. Quest’uomo non sa quel che fa: è un angelo. Questa famiglia è una cucciolata di cani. Dinnanzi a molti uomini, parlai a gran voce con un attimo di un’altra delle loro vite. – Perciò ho amato un porco. Nessuno dei sofismi della follia, – la follia che si rinchiude, – è stato da me dimenticato: potrei ripeterli tutti, conosco il sistema. La mia salute fu minacciata. Il terrore veniva. Precipitavo in un sonno di vari giorni, e poi, alzatomi, continuavo i sogni più tristi. Ero maturo per il decesso, e su una strada di pericoli la mia debolezza mi conduceva ai confini del mondo e della Cimeria, patria dell’ombra e dei gorghi. Mi toccò viaggiare, distrarre le malie raccolte nel mio cervello. Sul mare, che amavo come se avesse saputo lavarmi d’una macchia, vedevo levarsi la croce consolatrice. Ero stato dannato dall’arcobaleno. La Gioia era il mio fato, il mio rimorso, il mio verme: la mia vita sarebbe stata sempre troppo immensa per essere destinata alla forza e alla bellezza. La Gioia ! Il suo morso, mortalmente dolce, m’avvertiva al canto del gallo, – ad matutinum, al Christus venit, – nella più oscura delle città: Oh stagioni, o fortezze! Quale anima è senza sconcezze? Ho compiuto il tirocinio fatato Della gioia che nessuno ha scansato. Ave a lui, ogni volta Che il gallo dei Galli canta. Ah! Niente più m’invita: E’ lui che riempie la mia vita. La sua malia ha preso anima e corpo E dissipato ogni sforzo. Oh stagioni, o fortezze! L’ora in cui se ne andrà, purtroppo! Sarà l’ora del decesso. Oh stagioni, o fortezze ! _________________ Così è stato. Ed oggi so dire addio alla bellezza.
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Arthur Rimbaud - Una Stagione all'inferno
PoetryTesto originale di Rimbaud, da me solo ricopiato dalla versione italiana di Pierre Lepori, per riproporlo su questa piattaforma. Adatto a chi ama i poeti maledetti...