Quella sera John se ne stava seduto sulla sua poltrona, con una tazza di thé caldo tra le mani e lo sguardo puntato sul fuoco che bruciava scoppiettante nel camino. I suoi amici, da Mike Stanford a Greg Lestrade, Molly Hooper e la signora Hudson, perfino Mycroft Holmes, avevano lasciato l'appartamento da circa un'ora, dopo i festeggiamenti per il suo compleanno, e finalmente era riuscito a far addormentare Rosie, che se ne stava raggomitolata nella sua culla accanto il padre. Aveva impiegato le sue ultime forze per farla quietare e convincerla a non buttare via in continuazione il ciuccio, e di conseguenza giaceva stanco e soddisfatto e un tranquillo silenzio aleggiava nel salotto dopo tanto casino e tante risate. Sulla scrivania i resti di vari tipi di carta da imballaggio colorata ingombravano la superficie, e un piattino di plastica con ancora della torta era appoggiato sbilenco poco distante dal portatile spento. John aveva socchiuso gli occhi, piacevolmente abbracciato dal torpore delle fiamme, e non parlò quando sentì i lenti passi di Sherlock arrivare nella stanza. La voce del detective giunse poco dopo bassa e roca
- Devo ancora darti il mio regalo John Watson -
Il tocco carezzevole di una mano scivolò lungo la spalla ferita e il soldato ebbe come l'impressione di sentire il respiro dell'amico terribilmente vicino al suo orecchio. Sherlock gli girò intorno e si sedette di fronte a lui, poggiando le ginocchia sulla moquette. Una mano andò ad accarezzare quella di John, che aveva aperto gli occhi e lo guardava stranito ma allo stesso tempo troppo compiaciuto e addormentato per spostarsi.
- Ti devo delle scuse - iniziò con tono serio, chinando il capo come se quelle parole gli mozzassero il respiro - per ogni mio comportamento da idiota, cretino e sociopatico. -
Sherlock scosse la testa e i riccioli castano scuro gli ricaddero scompigliati sul volto: non aveva nessuna vena sarcastica nella voce che tradisse l'eventualità che stesse scherzando.
- Più di ogni altra cosa ho bisogno di ringraziarti perchè mi sopporti esattamente per come sono, e sai che anche volendo non cambierò mai del tutto. Resterò sempre senza cuore, ma devo essere grato di averti al mio fianco come mio unico amico. Quindi grazie, John, per ogni singolo giorno speso risolvendo crimini, seguendomi dappertutto senza mai fare domande, accettando di correre rischi che avrebbero potuto ferirti, o addirittura ucciderti. Giuro che da questo momento in poi farò di tutto per proteggerti. Lo so che non sono un granchè con le promesse, ma ho realizzato troppo tardi quanto tenessi a te. Grazie per avermi perdonato per tutto questo. »
Per Mary e per il mio falso suicidio
Quelle ultime parole rimasero sospese nel vuoto, mai pronunciate, ciò nonostante Sherlock capì da una lacrima che John aveva inteso, e che aveva suggellato per la seconda volta il loro legame abbandonando per sempre i vecchi rancori. Il detective sorrise, prese gentilmente dalle mani del dottore la tazza tiepida di thè che stava reggendo, e l'appoggiò sul tavolino lì vicino.
«Si farà un brutto alone e la signora Hudson si lamenterà, forse dovrei portarla in cucina » disse John, con l'aria un po' accaldata, e fece per alzarsi posando le mani sui i braccioli, ma la delicata stretta sul suo ginocchio lo fece desistere.
«Ho ancora un'altra cosa per te, seguimi» Sherlock si alzò in piedi con agilità e gli tese la mano. Allo sguardo sconcertato di risposta inarcò le labbra in un ghigno divertito, era impossibile per lui non apprezzare di avere il controllo totale della situazione. Sapeva che la figura di fronte a lui pendeva dalle sue labbra, lo capiva dagli occhi lucidi, dovuti a qualche bicchiere in più di vino, che trapelavano confusione, soprattutto bramosia di continuare quella specie di limbo borderline. John tirò un sospiro e si tirò su a sua volta, esitando in un primo momento ad accettare quella mano lì per lui, in un gesto che non aveva mai condiviso con Sherlock, poi scacciò i suoi pensieri complicati e strinse le dita attorno a quelle sottili e affusolate. Si fermò un attimo giusto per abituarsi a quella nuova e piacevole sensazione.Trotterellò in silenzio dietro i passi suoi passi ampi, e ne approfittò per mordersi il labbro per l'ansia senza che l'altro se ne accorgesse. Si fermarono davanti alla porta scura che era sempre stata della stanza di Sherlock, a pensarci bene John non la conosceva molto bene. C'era la sua, piccola e ordinata con una scrivania spesso sgombera (in quanto la maggior parte del lavoro era svolto in salotto) e un letto singolo, così tutto d'un tratto gli parve strana l'idea che in tanti anni fosse entrato poche volte nella camera del suo coinquilino. Alcune sere lo aveva portato in braccio e fatto stendere sul materasso perché magari era troppo stanco o in preda al circolo della droga per poter reggersi sulle sue gambe, però non si era mai soffermato a osservare cosa ci fosse davvero tra quelle mura.
«Ora devi chiudere gli occhi » l'ordine impartito con voce carezzevole lo riportò alla realtà e gli provocò tutti brividi lungo la schiena: spostando gli occhi verso Sherlock inarcò il sopracciglio in segno di dubbio.
«Perché?»
«Fidati delle persone John. Siamo tutti umani, per quello che mi costa ammetterlo »
Una mano del riccio andò a posarsi sulla maniglia della porta una volta aver verificato che l'altro avesse fatto come richiesto, e l'altra guidò all'interno il festeggiato di quella serata. Lo fece accostare al muro e richiuse la porta.
Sherlock si avvicinò al viso del dottore in silenzio, lasciandosi scappare un breve respiro sulle sue labbra così vicine, si permise addirittura di sfiorare con timore la guancia.