Game, Set, Match

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Quando era solo un cucciolo, Nicolas Wilde era psicologicamente incapace di mentire.

Un cucciolo allegro, sveglio, estroverso e pieno di voglia di vivere, con una tendenza quasi patologica all'onestà. Non poteva nascondere nulla alla madre: gli insuccessi a scuola, le litigate con gli amici, quella ciocca di peli mancante che stonava così tanto sulla sua coda folta.

Persino la prima cotta non seppe nasconderla: nonostante l'imbarazzo di sognare una storia platonica con la maestra, fu costretto da qualcosa dentro di sé a vuotare il sacco senza nemmeno prendere in considerazione anche solo l'idea di dissimulare.

Sua madre sorrideva e scuoteva la testa, avvolgendolo nella sua coda grande e soffice mentre lo abbracciava e gli sussurrava nell'orecchio di quanto la rendesse fiera e felice. Lui sorrideva ogni volta, al settimo cielo per la gioia di aver strappato un sorriso ad una volpe che non si era mai ripresa dalla scomparsa di suo padre.

Lei era il suo ricettacolo di segreti, la sua cassaforte per tutti gli episodi che solo lui avrebbe dovuto conservare. Molto più avanti, quando il piccolo ed innocente Nick sarebbe stato meno piccolo e molto meno innocente, avrebbe ripensato alla madre ed a quel giorno divenuto lontano in troppo poco tempo.

Complice un piccolo ciuffo candido di peli sulla sua pelliccia, ben nascosto dalla camicia, avrebbe pensato alla madre come un letto di neve che copre e nasconde e rende tutto bianco e puro e bello, indipendentemente da quanto marcio fosse il mondo. E formulando quel pensiero sarebbe tornato ad essere un volpacchiotto onesto a livelli imbarazzanti per una manciata di secondi.

Si ricordava perfettamente della prima volta che aveva detto una bugia; aveva valicato un confine nascosto da cui non sarebbe mai più tornato indietro ed aveva trovato quasi surreale la facilità con cui era successo. Era come se una parte di lui fosse finalmente riuscita a farsi largo in tutta quell'innocenza, quella gioia di vivere apparentemente non conforme ad un predatore come lui.

Io, Nicolas Wilde

Era stato il giorno dei cambiamenti in lui e non solo per la capacità tutta nuova di mentire: il progressivo rifuggire del contatto fisico, l'abitudine di usare il naso prima della bocca al cospetto di un piatto, la necessità di mettersi davanti allo specchio della sua cameretta per ore e dare i primi colpi di scalpello per modellare la sua parlantina.

Ma tutte quelle cose, dal passarsi una zampa sulla nuca ogni volta che pensava allo smettere di ridere forte per evitare di attirare l'attenzione, non battevano quel nuovo gioco della falsa verità: era un gioco proibito e per questo affascinante, ammaliante, lo attirava a sé come quei caldi abbracci che cominciava a sentire troppo stretti.

E la prima volta è sempre quella che resta, sempre quella che lascia una cicatrice che non guarisce mai del tutto, che pizzicherà per tutta la vita al cospetto della verità. Era stato un tragitto tanto breve all'andata come lungo una vita al ritorno; la figura della madre si stagliava da qualche parte nella sua mente, talmente sfocata da apparire come una sagoma indistinta e fumosa.

prometto di essere

Si vedeva riflesso nelle pozzanghere: una piccola volpe dentro un'uniforme da scout nuova di zecca che sarebbe dovuta appartenere ad una zebra o ad un ippopotamo. Che ci faceva in quella divisa una volpe? La madre lo aveva accolto con uno degli ultimi abbracci che lui avrebbe tollerato volentieri e l'aveva guardato dritto negli occhi chiedendogli se avesse fatto amicizia, com'erano i cuccioli al quartier generale degli Scout Ranger.

In quel momento, il piccolo Nick aveva sentito la gola bruciare e la lingua pizzicare: non si era mai accorto che la verità fosse così sgradevole di tanto in tanto. Sentiva dentro di sé l'urgenza, il bisogno di raccontare alla madre tutto: il giuramento finito con l'assalto di cinque cuccioli che ridevano e lo schernivano e giocavano un gioco che l'aveva terrorizzato a morte.

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