Capitolo 2

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— Un teschio! — ripeté Legrand. — Ah, sí, sulla carta c'è una certa somiglianza, senza dubbio. Le due macchie nere superiori, gli occhi, eh?, e quella piú lunga, sotto, la bocca; e la forma dell'insieme è ovale.
— Può darsi, — risposi io — ma temo, Legrand, che non siate un artista. Bisognerà che aspetti di vedere l'insetto stesso per farmene una vera idea.
— Come volete, — rispose lui, un po' seccato — eppure io so disegnare, o almeno dovrei saper disegnare: ho avuto buoni maestri e mi lusingo di non essere assolutamente un idiota.
— Ma allora, caro mio, voi volete scherzare — soggiunsi. — Come teschio è passabile, anzi direi che è un teschio eccellente, secondo le nozioni che si hanno volgarmente su questi esempi di fisiologia, e il vostro scarabeo deve essere il piú strano scarabeo del mondo se gli somiglia. Anzi, ci si potrebbe fabbricar sopra la sua brava superstizione; raccapricciante addirittura. Suppongo che gli metterete nome scarabaeus caput hominis, o qualche cosa di simile: nelle Storie Naturali si trovano molti nomi del genere. Ma dove sono le antenne di cui mi avete parlato?
— Le antenne! — fece Legrand, che prendeva a riscaldarsi su quel soggetto in modo irragionevole. — Bisogna bene che vediate le antenne. Le ho fatte tali e quali sono nell'originale, mi pare che basti.
— Va bene, — dissi io — mettiamo pure che le abbiate fatte: il fatto è che io non le vedo; — e gli resi la carta senza altre osservazioni, non volendo farlo inquietare, ma ero molto sorpreso della piega che prendeva la faccenda; il suo cattivo umore mi dava da pensare, mentre il disegno dell'insetto non presentava traccia di antenne, ed era senza dubbio molto somigliante all'immagine solita di un teschio.
Legrand riprese la carta di malumore, e stava per spiegazzarla, apparentemente per buttarla nel fuoco, quando un'occhiata distratta al disegno parve improvvisamente richiamare su quello la sua attenzione. In un momento il suo viso diventò rosso di bragia, e subito dopo pallidissimo. Seguitò qualche minuto, senza muoversi di dove stava, a esaminare minutamente il disegno. Finalmente si alzò, prese di sulla tavola una candela e andò a sedersi su un baule da marinaio nel canto piú lontano della stanza. Là riprese con ansia a esaminare la carta, rigirandola in tutti i sensi. Però non diceva nulla, e il suo modo di fare mi stupiva estremamente; comunque io giudicai prudente di non esacerbare il suo crescente malumore con qualche commento. Poi dalla tasca della giacchetta egli prese il portafogli, vi mise accuratamente la carta, e lo ripose in una scrivania che chiuse a chiave. Cominciò allora a calmarsi; ma il suo entusiasmo di prima si era spento affatto. Tuttavia pareva piuttosto astratto che scontroso. Col protrarsi della serata, si assorbí sempre piú nelle sue fantasticherie dalle quali i miei tratti di spirito non riuscivano a destarlo. Avevo avuto l'intenzione di passare la notte nella capanna, come m'era successo altre volte, ma visto l'umore del mio ospite, riputai conveniente prender congedo. Legrand non mi esortò a restare, tuttavia, quando partii, mi strinse la mano anche piú cordialmente del solito.
Fu circa un mese dopo (e per tutto questo tempo non avevo saputo piú nulla di Legrand) che ricevetti la visita, a Charleston, del negro Jupiter. Non avevo mai visto il buon vecchio cosí avvilito, ed ebbi paura che fosse avvenuta qualche grave disgrazia al mio amico.
— Dunque, Jup, — gli dissi — cosa c'è di nuovo? come sta il tuo padrone?
— Per dir la verità, massa, potrebbe stare anche meglio.
— Non sta bene? Me ne dispiace davvero. Ma che cos'ha, di cosa si lamenta?
— Eh, appunto...; non si lamenta di nulla... ma è malato lo stesso; malato grave.
— Grave, Jupiter!... perché non me l'hai detto subito? È a letto?
— Nemmeno per sogno! Non trova pace in nessun posto, questo è il male... io sto molto in pensiero per il povero massa Will.
— Spiegati chiaro, Jupiter, santo Dio! Dici che il tuo padrone è malato. Non ti ha detto che cosa ha?
— Ecco, massa, perché vi arrabbiate? Massa Will dice che lui non ha niente: ma allora cos'è che lo fa andare di qua e di là, a questo modo, con la testa giú e le spalle su, e bianco come un'oca? E poi quelle cifre, sempre...
— Cosa, Jupiter?
— Le cifre, sulla lavagna, le cifre piú strambe che io abbia mai visto. Ve lo dico io: io comincio ad aver paura. Bisogna che non lo perda di vista un momento. L'altro giorno m'è scappato prima dell'alba ed è rimasto fuori tutto il giorno. Io avevo preparato un bel bastone per dargli una lezioncina quando sarebbe tornato... ma son tanto bestia che poi non ho avuto il cuore di dargliela: aveva tanto brutta cera.
— Come?... Ah... sí! Tutto considerato direi che sarebbe meglio non far troppo il severo con quel povero figliolo. Non bisogna bastonarlo, Jupiter, non potrebbe sopportarlo; ma non hai un'idea di cosa sia stata l'origine di questa malattia, o piuttosto di questo mutamento di condotta? È accaduto nulla di spiacevole da quando ci siamo visti?
— No, massa, da allora in poi nulla; è di prima che ho paura, fu il giorno che c'eravate voi.
— Cosa? Che vuoi dire?
— Ecco, massa, voglio dire lo scarabeo... ecco, ora l'ho detto.
— Lo...?
— ... scarabeo. Io son proprio sicuro che massa Will è stato morsicato in qualche posto nel capo da quello scarabeo d'oro.
— E cos'è, Jupiter, che ti fa supporre...
— Le pinze non gli mancano, né la bocca. Non ho mai visto un insetto cosí dannato: urta, morsica tutto quel che gli viene vicino. Massa Will l'ha preso per il primo, ma lo dovette lasciare andare alla svelta. Ve lo dico io: è allora che è stato morsicato. Quella bocca non mi piaceva punto, a me; ma proprio punto; con le dita non l'avrei preso davvero, io lo presi con un pezzo di carta ch'era lí in terra. L'involtai nella carta e gliene ficcai un pezzo in bocca: quello era il modo.
— Dunque tu credi che il tuo padrone sia stato morsicato davvero dallo scarabeo e che sia stata la morsicatura a farlo ammalare?
— Io non credo nulla: lo so. Che cos'è che lo fa sognare sempre oro, se non perché è stato morsicato dallo scarabeo d'oro? Ne ho sentito dir tante di questi scarabei d'oro.
— Ma come fai a sapere che sogna sempre oro?
— Come lo so? Ne parla mentre dorme, ecco come lo so.
— Mettiamo che tu abbia ragione; ma a quale fortunata circostanza debbo attribuire l'onore della tua visita oggi?
— Cosa volete dire, massa?
— Hai forse da farmi un'ambasciata da parte di Mister Legrand?
— No, massa, vi porto questa lettera — e qui Jupiter mi porse un biglietto che diceva:
«Mio caro
«Per quale ragione non vi fate piú vedere? Spero che
sarete stato tanto sciocco da prendervi a male i miei modi bruschi di quel giorno; ma questo non è possibile. «Da quando vi ho veduto l'ultima volta, ho avuto di che esser molto preoccupato. Ho qualche cosa da dirvi, eppure non so come dirvelo, e nemmeno se ve lo debbo dire.
«Da qualche giorno non sto bene e il mio buon vecchio Jupiter mi secca in modo insopportabile con le sue benevoli attenzioni. Lo credereste? l'altro giorno aveva preparato un bel bastone per castigarmi di essere riuscito a scappargli e di aver passato tutta la giornata, solus, sulla terraferma, fra le colline. Credo in verità che soltanto la mia cattiva cera mi abbia risparmiato una bastonatura.
«Da quando ci siamo visti non ho aggiunto nulla alla mia collezione.
«Se vi è possibile, in un modo o nell'altro, tornate con Jupiter. Venite. Vorrei vedervi stasera per affari d'importanza. Vi assicuro che è cosa della piú alta importanza.
«Sempre vostro William Legrand.»
Nel tono di quel biglietto c'era qualche cosa che mi mise addosso un gran disagio. Il suo stile differiva assai dal solito di Legrand. Che cosa mai andava sognando? Quale nuova ubbia aveva preso possesso della sua mente eccitabile? Quale affare della piú alta importanza poteva egli aver mai da trattare? Quel che di lui raccontava Jupiter non dava nulla di buono da presagire. Temetti che il continuo peso delle disgrazie avesse, col tempo, scosso la ragione del mio amico. Senza piú un momento di esitazione, mi preparai ad accompagnare il negro.

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