Capitolo 5.

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Le sue mani iniziarono a percorrere freneticamente il corpo nudo e infreddolito di Irina. Ad ogni palpata, ad ogni tocco, un pezzetto di luce si staccava dalla sua pelle. Non aveva senso ribellarsi. Era debole, lui era quello forte. Presto lei stessa iniziò lentamente a scivolare nell'oblio. Quelle mani le stavano rubando l'anima, la stavano stracciando, imbrattando. Ogni colore stava abbandonando il suo corpo. Ogni emozione stava volando via, andavano a rannicchiarsi sul cumulo dei vestiti lacerati lanciati sguaiatamente in strada. Non sentiva più nulla, ma percepiva chiaramente la sua anima sporca che chiedeva aiuto. Sentiva la sua dignità sgretolarsi, diventare polvere e disperdersi nel vento che, in quel giorno di luglio, non c'era. Ma lei lo sentiva. Sentiva il vento che le gelava le ossa, che le ripuliva il corpo di ogni granello di dignità che era depositato in lei.

Improvvisamente l'essere si sbottonó i pantaloni e, con un movimento fluido ma forzato, entrò in lei con una violenza che la portó a strabuzzare gli occhi e a soffocare un urlo disperato. Le lacrime ormai le aveva appannato la vista, ma Irina riusciva a vedere lo sguardo malato dei novanta chili che la comprimevano al muro. Lui si muoveva velocemente ma lei era come impassibile. Ogni spinta divideva la sua anima in pezzi sempre più piccoli. Aveva implorato troppo. Non aveva più la forza. Ora quell'anima segnata, rotta non riusciva più a chiedere aiuto. Non c'era nessuno lì dentro. Quello sotto l'uomo era un corpo vuoto. Senza dignità, con un'anima a pezzi.

Affranta, distrutta, Irina non si accorse nemmemo che era faccia a muro e che ora era il dietro ad essere violato.

"Va tutto bene zuccherino, sei proprio brava lo sai?" le sussurró l'uomo all'orecchio. Quella voce pacata, calda e sottile risaltava in quel corpo malato e perverso, ma ormai Irina non percepiva più niente, solo vergogna. Non aveva senso capire. Non avrebbe vissuto più. Forse, in realtà, non aveva mai iniziato a vivere. Ma adesso aveva smesso davvero. La sua anima non sarebbe mai più tornata. Sarebbe morta senza vedere mai più un colore, perché i colori erano ormai scomparsi. Non avrebbe saputo dire di che colore fossero i graffiti su cui quell'uomo l'aveva sbattuta. Non si ricordava nemmeno più come ci fosse finita lì. Non aveva più la cognizione del tempo. Non si accorse nemmeno quando "l'ospite" uscì dal suo corpo. Non sentí nemmeno il "Sei stata la mia troietta preferita, lo sai?" che egli pronunciò rivestendosi. Si lasciò solo cadere al suolo, stanca, violata e infreddolita. Mentre lei si rannicchiava premendo le ginocchia contro il petto nudo, lui scappò con un sorriso soddisfatto dipinto in volto.

Era finita, ma lei non notava alcuna differenza. Insieme alla violenza, era terminata anche la sua esistenza.

~continua

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