[15 giugno 1984]
Stavo volando sul cielo di un mondo parallelo, ad osservare i movimenti dei personaggi del mio nuovo libro. Mi prese così tanto che la vera realtà faceva parte solo di uno sfondo sfocato di una fotografia. Uno sfondo a cui non dai importanza e non te ne frega niente. Il mio mondo ormai era scritto su quelle pagine. Mi trovavo in un parco, le foglie degli alberi a volte si muovevano per via del vento e le pagine del mio libro giravano per conto loro facendomi perdere il filo. La gente era tranquilla e c'era un'atmosfera di quiete e relax. Sotto un albero si trovava un'allegra famiglia intenta a fare un picnic, mentre alle mie spalle c'erano due bambini intenti a rincorrersi. Quel parco era il mio luogo di pace, il luogo in cui potevo decidere dove stare: tra le pagine di un libro o sotto l'ombra di un albero ad osservare le altre persone. Quello era uno di quei giorni in cui niente e nessuno avrebbe potuto riportarmi alla realtà, quella vera, quella che non piace a nessuno. Perchè stavo intrappolato lì dentro e non ne sarei uscito finchè la testa non avrebbe iniziato a farmi male per aver letto troppo.
Una, due, tre ore a leggere passarono ed io stavo quasi per finire il libro. Una leggera ondata di vento fece girare le pagine del mio libro e colsi l'occasione per distogliere lo sguardo da esso per osservare le fronde degli alberi ondeggiare. Mi sentii strano, come quando si esce dall'acqua del mare dopo aver fatto una gara di apnea.
Mentre osservavo gli alberi passò davanti a me una ragazza bionda, alta e magra, con gli occhi verdi come il prato di quel parco dove stavo seduto. Posò la sua borsa per terra e si sedette non troppo lontano da me, ad una distanza che permetteva di poter parlare senza alzare il tono di voce. Estrasse un libro dalla borsa e notai che era lo stesso che stavo leggendo io fino a poco fa. Ebbi l'impulso di parlare ma qualcosa mi frenò ed aspettai che finisse di leggere almeno un capitolo. La osservai per tutto il tempo, per essere certo che leggesse fino all'ultima parola, per non interrompere la sua lettura.
I suoi lineamenti erano dolci, bellissimi: il suo naso era piccolo e quasi all'insù, le sue labbra erano piccole ma carnose al punto giusto; solo guardandola attentamente notai che aveva un po' di lentiggini sotto gli occhi e sul naso. Le davano un'aria dolce e tenera. I lunghi capelli biondi erano raccolti in una coda alta che le cadeva sulle spalle, anche se qualche piccolo ciuffetto fosse come essersi ribellato all'elastico per cadere liscio sulla sua fronte. Quando i suoi occhi stavano per raggiungere la pagina accanto, dove iniziava il quarantaduesimo capitolo, la bloccai.
"Ehy!"
Si voltò verso di me confusa, accennando un sorriso.
"Uhm, ciao."
"Hai il mio stesso libro" lo chiusi e lo alzai leggermente per mostrarglierlo "io lo sto quasi finendo, tu dove sei arrivata?"
"Io, beh... sono arrivata al..." fece una piccola pausa e osservò il numero per qualche secondo "quara, quarantuesi...mo capitolo."
Credevo che non fosse di qui, dato il suo strano accento, la sua difficoltà nel dire i numeri e la sua carnagione molto chiara.
"È molto avvincente e il bello deve ancora venire. Aspetta di arrivare al cinquantatreesimo. Come ti chiami?"
"Sono Eleonore" sorrise ed accennò una risata "sì, proprio come la protagonista del libro."
Ricambiai il sorriso "Piacere, io sono Michael. Di dove sei? Non sembri di Los Angeles. Io vivo qui ma sono nato a Gary."
"Mi sono trasferita sei mesi fa qui in America, ma sono Tedesca. Vivevo a Berlino. Un po' mi manca quella città e poi qui non ho nessuno."
Non volevo essere azzardato, ma avrei voluto dirle qualcosa di dolce per farla sentire meno sola. Alla fine non dissi niente. Continuammo a parlare per un bel po' ed entrambi ci dimenticammo del libro finchè il sole non tramontò e ci salutammo. Ci scambiammo i numeri di telefono, forse per iniziare un bel rapporto di amicizia oppure per per parlare solo qualche volta, come quando si inizia un libro e poi si finisce, si posa su uno scaffale di una libreria e si dimentica e si impolvera se non gli dai più attenzioni.[23 settembre 1987]
Io ed Eleonore continuammo a sentirci giorno dopo giorno e diventammo migliori amici. Mi è stata vicina anche nei momenti più tristi della mia vita, dove lei era l'unico fiammifero che illuminava la stanza buia della mia mente. Mi ha aiutato, ed io mi sono innamorato di lei.
Eleonore sembrava ricambiare: ogni volta che uscivamo di pomeriggio -o di sera, per andare in pizzeria da buoni amici- mi abbracciava e mi dava baci in guancia. I suoi occhi mi penetravano ed era sempre affettuosa con me. Mi resi conto di amarla proprio durante una delle nostre uscite pomeridiane. Mi chiese di accompagnarla in un negozio di vestiti perchè le serviva un vestito elegante per un evento, ma mentre cercava dei capi da provare trovò una maglietta che la colpì. Aveva una larga scollatura sulla zona delle spalle lasciandole scoperte ed una manica era più lunga dell'altra. Il tessuto era lucido e sembrava attillato e sul retro, sulla spalla, c'era scritto Be the hero of your own story in un colore metallico. Eleonore restò a fissarla ed a toccarne il tessuto per un po', con un'aria un po' triste nonostante stesse sorridendo.
"Ti piace?"
"Sì, moltissimo. È stupenda, è davvero bellissima. Costa un botto, non ci arrivo con i soldi." Mi rispose continuando ad ammirare la maglietta.
"Se vuoi ripassiamo un altro giorno così la compri, per me non è un problema"
"Guarda il cartellino..." accennò, indicando un avviso di cartone sopra l'appendiabiti dov'era poggiata "dice che è della stagione scorsa ed è per questo che ha uno sconto del 10%. Della stagione scorsa. È l'ultima in vendita. Non la troverò un altro giorno, qualcun'altra l'avrà già comprata." Sospirò tristemente.
"Costa tanto per essere una semplice maglietta, solo perchè è firmata. Che cazzo." Sbuffò.
Ricordai di avere un po' di soldi nel mio portafogli, ma non sapevo se sarebbero bastati. Lo presi fuori dal marsupio e controllai. Avevo cinquantaquattro dollari, ne sarebbero rimasti sette. Cazzo, se costava.
"Se non posso comprarla, almeno la provo." La prese e la poggiò sul braccio, dove c'era già posato il vestito elegante che le serviva. La seguì e l'aspettai davanti al camerino.
Mentre provava la maglietta mi poggiai al muro con aria convinta e fiera, tenendo in mano quei cinquanta dollari. Misi una gamba incrociata all'altra, e il braccio sinistro sorreggeva quello destro dove impugnavo i soldi ed indossai un mezzo sorriso con aria convinta.
Aspettai che uscisse.
Quando mi trovò in quella posizione e con 50 dollari davanti a lei, sgranò gli occhi.
"A cosa pensi che servano questi?" Chiesi.
"Ad andare a puttane questa notte."
"Sei una cretina." Le diedi un buffetto in spalla "Seria. A cosa servono?"
"Non lo so, ma te li ruberei volentieri."
"Spostai la tenda del camerino in modo da poter vedere la maglietta poggiata sullo sgabellino e la indicai "Vedi quella?"
"Mh?"
"Te la regalo io."
"Tu sei scemo. Tu non mi regalerai niente."
"Ho il piacere di farlo. E so che ti renderebbe felice."
"Ma non è giusto, quei soldi sono tuoi, dovresti usarli per te..."
"Appunto, i soldi sono miei e decido io cosa farci. Sempre meglio che andare a puttane no?" risi "Avanti provala, fammi vedere come ti sta."
Quando uscì restai imbambolato a guardarla, avevo paura che mi uscisse la bava proprio come succede nei cartoni animati. Quella maglietta le calzava perfettamente, le sue forme saltavano fuori e la rendevano una star di Hollywood. Era bellissima e il mio battito cardiaco velocizzò. Qualcosa scattò dentro di me, forse è stato quello l'istante in cui mi innamorai.
Girò su sè stessa e nel retro la maglietta aveva una scollatura sulla schiena che lasciava scoperto un tatuaggio.
"Cos'è?"
"È una rosa stilizzata. Mio padre me ne regalava sempre una al mio compleanno. La mia famiglia era povera e non potevano permettersi di comprarmi dei ciocattoli, così mio padre mi regalava sempre una rosa, la più bella che trovava, diceva lui. Una notte si suicidò. Ero ancora una bambina di nove anni. Trovammo il suo corpo che pendeva da una corda legata ad un albero non troppo lontano da casa nostra. Dentro la sua giacca c'erano delle lettere per ogni componete della famiglia e per i suoi più cari amici. Aveva progettato e tentato il suicidio, con ottimi risultati. Purtroppo. La mattina del suicidio trovai una rosa accanto al mio letto. Non era il mio compleanno, ma la trovai comunque. Questo tatuaggio l'ho disegnato io, ispirandomi al ricordo dell'ultima rosa che mi regalò. Questa rosa mi ricorda che la morte è un muro che separa solo se lo si vuole. Non ho mai detto addio a mio padre, ma gli ho sempre detto "ci vediamo dopo" la mattina, aspettando che si facesse sera per riabbracciarlo. Questa rosa significa questo. Ci vediamo dopo."
Aveva le lacrime agli occhi, ma era troppo orgogliosa per piangere davanti a me. Entrai in camerino con lei per farla sentire meno imbarazzata, senza gli occhi degli altri puntati addosso. L'abbracciai senza pensarci due volte, e mentre aveva la testa poggiata sulla mia spalla sentii una lacrima inumidirmi i vestiti. Sciolsi l'abbracio e le presi il viso tra le mani e le asciugai le poche lacrime che ebbe il coraggio di mostrare. Eravamo così vicini che potevo sentire il suo respiro sfiorarmi la pelle.
"Non si piange per un arrivederci. Vieni, su" e l'abbracciai di nuovo "Tu rivedrai tuo padre. A prescindere da cosa credi, a prescindere da cosa credeva tuo padre. Lo rivedrai. Piangere è inutile. Sorridi, perchè sono sicuro che tuo padre amava, anzi, ama il tuo sorriso, tanto quanto... tanto quanto lo amo io." e cadde in un pianto liberatorio, cercando di essere più silenziosa possibile.
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Fragments || Michael Jackson
FanfictionUna raccolta di One Shot su Michael Jackson scritti da Me (Viola) e @iamhisdirtydiana (Diana). Il titolo "Fragments" rappresenta i "frammenti" di piccole storie sparse, divise l'una dall'altra. Ne leggerete di tutti i tipi: allegri, tristi e spinti...