Capitolo 2

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Fulvio nel suo orto coltivava cose particolari. Era un segreto che non aveva condiviso con nessuno. Ai pochi che lo conoscevano sarebbe sembrato comunque bizzarro, visto che Fulvio con le piante non ci aveva mai saputo fare. Orto e giardino erano spazi dai quali il droghiere di Zerbo si era sempre tenuto lontano. Erano il mondo di Silvana. Fulvio non ne aveva mai capito il senso. Tanto faticare per cosa? Soprattutto l'orto. Quanto si raccoglieva non era più buono di quello che si trovava al mercato, e alla fine dei conti neppure così economico. Tutto si riduceva a puro esercizio fisico, inutile fatica. A me rilassa da morire, ripeteva sempre Silvana.

Rimasto solo, questa come tante altre cose cambiarono. Quando iniziò a concepire il suo assurdo piano, si ricordò delle parole della moglie e decise di prenderle alla lettera. Silvana, in fondo, aveva ragione: di giardinaggio si può morire. L'idea sbocciò poco alla volta, si prese il suo tempo, e alla fine allargò i petali senza alcun indugio: le piante l'avrebbero aiutato a farla finita, a chiudere la questione una volta per tutte, e alla fine si sarebbe potuto ricongiungere serenamente con l'amore della sua vita.

Con internet fu semplice: trovò decine di piante capaci di uccidere. Con pochi euro si potevano comprare semi e bulbi provenienti dalle parti più remote del pianeta. Bastava piantare un seme, attendere con pazienza e quindi curare il germoglio, accompagnarlo fino alla completa maturazione, alla fioritura e alla nascita del primo frutto. Fulvio organizzò l'orto in sei aree: daphne, edera, tasso, oleandro, aconito napello e ricino. Seguì alla lettera le indicazioni scaricate dalla rete. Acquistò anche alcuni libri per diventare esperto di terricci, concimi e costruzione di serre. Il primo raccolto degno di questo nome richiese oltre due anni di duro lavoro e non pochi soldi. Tutto si svolse sempre in gran segreto e nella solitudine del suo orto, se si escludono i forum ai quali partecipava in forma anonima per sottoporre i dubbi e condividere i lenti progressi.

Il piano era semplice: farla finita sfruttando i veleni che aveva elaborato con tanto impegno e fatica. Senza coinvolgere nessuno, in modo naturale. Solo che a un certo punto, iniziò a chiedersi perché dovesse pagare lui il prezzo più alto. Perché doveva morire solo lui?

I sacrifici che aveva compiuto negli ultimi due anni potevano essere messi a servizio di tutta la collettività. Le piccole e fragili creature che abitavano nella sua terra, avevano un potere strabiliante. Erano in grado di abbreviare le sofferenze dell'uomo. Erano dei farmaci al contrario: individuavano il male che tormentava il loro ospite e lo alimentavano fino a condurlo alla morte. La cosa funzionava soprattutto con persone con problemi cardiaci e respiratori, ma anche gastrici e neurologici. In pratica quasi tutti i disturbi di cui soffrivano gli abitanti di Zerbo che avevano superato la sessantina.

Era inutile tentare di negare la verità: la sventura caduta sulla sua famiglia era da attribuirsi proprio a quella gente, erano loro i traditori. Gli anziani avevano condizionato le giovani generazioni, i primi a voltare le spalle a lui e Silvana.

Non fu una decisione semplice. Fulvio, l'abbiamo già detto, non era un'anima buona come Silvana. Non aveva un carattere semplice, non era mai stato molto socievole, si scaldava per un nonnulla, ed erano più le cose che lo disturbavano di quelle che gli davano piacere. Aveva preso da suo padre. Ma da qui a diventare un serial killer ne passava. Passò ore intere davanti allo specchio a farsi domande. Cosa avrebbe detto Silvana? Un atto tanto orribile, continuava a domandarsi Fulvio, avrebbe risolto i suoi problemi? Come avrebbe potuto continuare a vivere dopo?

Eppure, Fulvio aveva già ucciso un uomo. Certo, quella volta, era stato un incidente, non gli era stata attribuita alcuna responsabilità. Il pazzo era saltato fuori all'improvviso da un cespuglio, lontano da qualsiasi passaggio pedonale, distratto a litigare in mezzo allo spartitraffico con un suo connazionale. Aveva perso l'equilibrio ed era volato contro il muso dell'auto di Fulvio che non aveva fatto in tempo a frenare. Quello che il parabrezza e il frontale avevano risparmiato, l'avevano completato le ruote e l'asfalto. Dopo due mesi di coma il lavavetri marocchino era passato a miglior vita. Fulvio si era sentito lo stesso colpevole. Salire in auto e affrontare la strada per anni non fu più come prima dell'incidente. Ma col tempo, le cose poco alla volta erano tornate a posto.

Certo, le circostanze erano differenti, ma di sicuro sarebbe accaduto lo stesso anche questa volta.

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