Capitolo 2 - Sjakkmatt (Scaccomatto)

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Degli occhi di cristallo uscirono fuori dall'ombra. A passi lenti, la figura avanzò, tenendo lo sguardo ben fisso verso il suo obiettivo, in alto – il cielo. Le mani in tasca, cappuccio sollevato, un ciuffo nero disordinato faceva capolino, per ricoprire parte del volto, la testa leggermente battuta in avanti, in linea con la schiena, spalle strette.
Non badava a chi fossero le persone che circolavano intorno, ma allo stesso tempo si teneva ad una distanza tale da non sfiorarle con nessuna parte del corpo: non osava immaginare che cosa sarebbe successo, in caso contrario.
Non aveva paura di certo di quegli uomini tutto fumo – e in maniera letterale, anche. L'unico quid di spicco era la loro massa, specie l'addome dalla forma quasi deforme, o troppo gonfio, o troppo pendente, l'aria da ubriaconi per professione: sclera costantemente lucida, gote arrossate, sguardo appesantito. E non dimentichiamo quella tipica faccia da schiaffi che si ritrovavano nonostante gli effetti sfumati dell'alcool.
Chiunque per strada avrebbe potuto scambiarle per persone poco raccomandabili, e non pensava che tale pregiudizio fosse tanto lontano dalla realtà. Era incredibile come, in una città protetta e sicura quanto Copenhagen, si potessero nascondere individui di questo calibro.
Ma non poteva dire di non essere una parte di loro.

Diede un'occhiata ai dintorni. Prima uno sguardo a destra, poi a sinistra, fugaci. Entrò cautamente, con il sospetto che percorreva il corpo dal primo all'ultimo secondo impiegato a varcare la soglia di quel ristretto tendone logorato dal tempo, nascosto dietro alcuni palazzi abbastanza alti da coprire la sua macabra figura.
Una donna, appena terminato il momento di tensione, arrivò alle sue spalle.
«Hai ritrovato quel tipo?»
«No, non ancora»
«Diamine, mi servono quei soldi! Datti una mossa!»
«Quanta fretta».
Aveva raggiunto da poco il luogo prestabilito, e già sentiva la pressione. A due settimane dallo scontro, l'imbroglione – a cui la giovane, una ragazza piuttosto mingherlina dai lunghi capelli ricci mai toccati da un pettine, si stava riferendo – non si era fatto più vedere, e la sua comparsa non sarebbe mai dipesa da lei, che fosse stata o meno imminente, come la vittima credeva. Con un'espressione piuttosto nauseata, da persona veramente disgustata, la nuova presenza rispose all'ordine in maniera sarcastica. In verità odiava sentire quelle voci, impregnate di opportunismo, così chiaro che avrebbe benissimo potuto allontanarsi, lavarsi le mani di tutta quella situazione tumultuosa creata dalle solite persone con i clan locali, e vivere la sua vita. Specie perché alla fine era sempre lei che doveva salvare la pelle agli altri, un gruppetto relativamente scarno per via delle morti recenti.
Si chiedeva spesso come si fosse ritrovata lì.
Quelle ragazze pretendevano un po' troppo dalla loro vecchia conoscenza, all'epoca semplice compagna di giochi. Come uno scudo sempre presente davanti alle loro fragili figure, le quali celavano in realtà un carattere da arpie. Ma diversa condizione non si potrebbe immaginare, si trovavano sempre nei luoghi più malfamati della città, dove tutti si servivano di tutti, per come andavano gli affari.
«Hai scelto tu questa vita» riprese. E avrebbe voluto continuare, rinfacciare ogni singolo termine delle frasi che fino a qualche anno prima la sua interlocutrice pronunciava con entusiasmo. Entusiasmo che, però, non era mai stato completamente chiaro ai suoi occhi. «E ora ti ritrovi sul lastrico, se non puoi stare senza due misere monetine. Questo perché non hai alcun senso del contegno».
«Non sono due misere monetine» la corresse l'altra, allora. «A questo punto, mi chiedo che cosa tu trovi di piacevole nella tua, di vita» rispose allora, sentendosi chiamata in causa, inacidita, con pieno assenso delle altre che la circondavano, sedute in cerchio. «Tu passi le giornate a fissare gli uomini con il veleno in corpo, per capire da che parte sfilare via dalla loro tasca il portafoglio. Io almeno faccio affari».
Nonostante intorno a loro si fosse intensificata la tensione – insieme a un filo di scetticismo nell'aria, a tutto quel discorso seguì un ghigno, non meno sprezzante dei precedenti.
«Vendendoti a uomini che poi non ti pagano» rispose, senza alcuna esitazione, divenendo gradualmente più cupa, fino alla più totale freddezza. «Di certo non trovo dei motivi così insignificanti per autoconvincermi della bellezza della mia vita» che bella non la si poteva affatto definire: dopotutto era criminale per garantirsi la sopravvivenza. Non era, però, di bassa lega: aveva sgominato più volte le autorità locali, confondendo le vittime, anche terrorizzandole – senza mai ferirle direttamente, in particolare se il suo obiettivo era composto soltanto da oggetti di valore da accumulare per lo stipendio di un mesetto, minimo due settimane. Insomma, doveva pur guadagnarsi da vivere come tutti: era di quel giro, purtroppo, e non poteva fare diversamente.
Il luogo in cui si trovavano era scuro, giusto un po' illuminato dalle fiammelle delle candele, le quali oscillavano con una certa frequenza a causa dei movimenti delle presenti – quella con cui stava parlando dopotutto era solo una della serie interminabile di voltagabbana; combinazione tutta partecipe quella notte.
Come se non bastasse, scuotevano la testa ad ogni parola che usciva dalla sua bocca, come se le sue parole la stessero trascinando sempre più nel vortice dell'assurdo.
«D'accordo, allora» concluse in maniera incisiva, dopo diversi attimi passati in religioso silenzio. «Vorrà dire che i soldi andrai a riguadagnarli, se davvero ami la tua vita» e proprio quando quella stava per protestare, le tese una mano davanti, intimandole – inizialmente senza proferire alcuna parola – di fermarsi.
«Non mi farò influenzare da voi, che siete peggio di lei. Da oggi, con me, avete chiuso qualunque tipo di rapporto sincero, sempre ce ne fosse uno».
Detto questo, lasciò il posto salutando con un cenno disinteressato, mentre le meretrici le urlavano dietro, visto svanire il loro prezioso bottino.

Agata sembrava non avere alcuna pietà. Né aveva alcuna intenzione di mostrarne: da lei non era vista come una debolezza, ma come dono riservato a pochi. Una pietà che non aveva dei significati negativi sottili o oscuri: era qualcosa che si manifestava alla luce del sole.
Ma non in quel territorio.
Lì rivelare la pietas era equivalente a gettare ogni corazza, scoprire i propri punti deboli e mostrare la vulnerabilità, la quale – per il bene della propria incolumità – doveva rimanere celata sotto strati e strati di distaccamento emotivo nei confronti di chiunque. Tutti, in quel quartiere, erano attori. Con il tempo, il falso diventava quasi la vita quotidiana, si viveva quindi nella menzogna, nella speranza di riservarsi un posto nel mondo, anche da pezzenti, quando sarebbero passate a miglior vita le persone che inseguivano lo stesso ideale. Una mera gara a chi riusciva a non farsi uccidere mentre uccideva. Una sfida che solo delle vecchie volpi erano in grado di superare senza subire danni.
E Agata, a dire il vero, di una vecchia volpe non aveva niente. Per questo temeva per la propria vita più di chiunque altro. La si poteva definire semplicemente prudente. Non esisteva, nel suo motto, il "fidarsi è bene". Era solo "Non fidarsi è meglio", anzi, "Non fidarsi a prescindere è cosa buona e giusta".
Inoltre, la sua indole la esponeva ancora di più ai pericoli, che sicuramente da sola non avrebbe potuto affrontare. Erano gli stessi da cui stava cercando di scappare, ma la via di fuga non si era ancora fatta vedere. O meglio, non l'aveva ancora trovata: non era un tipo che desiderava ogni cosa servita su un piatto d'argento. Era cresciuta in una comunità che le insegnava a prendersi ciò che voleva con il sudore della fronte, nonostante a volte preferisse mostrare una faccia totalmente diversa da quella vera. Ma ciò sempre per allungare di qualche minuto la propria vita, da sempre a repentaglio, anche (e inizialmente, solo) per la sua discendenza.
Agata aveva infatti tre lati, che non erano sdoppiamenti di personalità, ma delle maschere da indossare all'occorrenza. La prima è stata già presentata, la zingarella ladruncola. La seconda recitava il ruolo della ricca viziata, di nome Dame Marine, che si esponeva al punto giusto per poter centrare il mirino sulla sua prossima vittima che avrebbe desiderato la sua testa, oltre che il suo corpo prima. La terza era un'assassina, e in queste vesti si faceva chiamare Skasìla.
Non era un'assassina come le altre però: nonostante le poche volte in cui compiva vere e proprie eccezioni, come per esempio l'inseguimento del lestofante – favore che non avrebbe più ripreso, avendovi rinunciato senza mostrare ripensamenti – seguiva una specie di rituale. Stesso luogo, stessa ora, si piazzava lì, nascosta fra le ombre amichenel cimitero locale, all'interno della selva vicino il centro abitato, e attendeva che qualcuno "trafugasse" qualche salma. Come se i cadaveri si rubassero ogni due per tre. Ma quello era diventato da diversi anni il luogo in cui venivano prese le decisioni più importanti da parte di uomini di un certo calibro, colonne portanti di clan temuti da chi, in tutto il quartiere, divideva i territori con loro, nonché alcuni fra tanti che avrebbero voluto farla fuori, come del resto avevano già fatto con il resto della famiglia.
Tranne lei, appunto, e suo nonno. La prima, perché era stata miracolata dal fato infinite volte. Il secondo perché era semplicemente imperturbabile, quasi invincibile. O almeno, questo era ciò che pensavano degli umani insulsi.
Chi avrebbe mai potuto immaginare che dietro l'eterno viso di giovane uomo, un indistruttibile muro di ghiaccio, si nascondeva un essere secolare, possessore di innumerevoli doti? In quel tempo, in cui ancora persone come lui venivano perseguitate, in tutta la zona della capitale danese, questa affermazione era considerata solo una leggenda, una fiaba per fanciulli ancora troppo piccoli per comprendere la realtà intorno alla quale girava il mondo; ma a quanto pare si credeva veramente alle dicerie tramandate sulla famiglia italiana degli Orfeo – che non aveva nulla a che vedere con la criminalità organizzata classica, che abbondava nella loro città originaria, posta all'estremo sud della penisola, dinanzi alla Trinacria.
In realtà tanti erano, e sono, i misteri che avvolgono questa famiglia, arrivata quasi sul punto di estinguersi. Sin dalle radici, si era mostrata una discendenza povera di componenti, e ora rischiava di disintegrarsi completamente, non lasciando alcuna traccia. Agata era la più giovane, nell'albero genealogico ormai spoglio: e lottava costantemente, sola, e teoricamente indifesa, non essendoci nessuno a coprirle le spalle; ma era davvero dell'idea che chi fa da sé, fa per tre. Per cinque. Per dieci, venti, cinquanta, cento. Con le sue potenzialità, poteva anche valere quanto una legione intera – non è un'iperbole, considerati i suoi geni.
Qual era il trucco in tutto ciò? Non di certo un avanzato sistema tecnologico, in grado di renderla forte quanto un Titano della mitologia greca. Era stata la natura a diffondere il suo stesso dono, tre o quattro secoli prima.
Lo stesso destino che manovrava le pedine sulla scacchiera invitava il re solitario a sfuggire dallo scaccomatto: ma si sa che prima o poi la colonna portante finisce nelle grinfie dell'esercito avversario.
E se Agata fosse riuscita a pareggiare con un solo pezzo?







Noticine – Sono sympansheep, l'autrice di questo racconto. Vi ringrazio ancora una volta per aver letto fin qui!
Dopo tanti sacrifici (mentali) nel convincermi del fatto di non essere poi tanto male, e in questo temo dovrete farci l'abitudine, stamani mi ritrovo qui a pubblicare questo secondo capitolo. Ho fatto un calcolo molto rapido per il numero di capitoli fino a settembre senza contare alcuna sosta, e dovrebbe essere dieci capitoli: praticamente un traguardo mai raggiunto da me, e sarà veramente dura - ragazzi, mi conosco, purtroppo.
Ebbene, parliamo del capitolo, perché alcune cose potrebbero sembrare confuse, per ora (ogni cosa che leggerete, o meglio, alcune cose che leggerete ritorneranno più avanti, così come anche nel capitolo precedente, soprattutto in quello, attenzione). Ci troviamo in Danimarca, nei tempi moderni, in una Copenhagen leggermente diversa da quella che potrebbe essere nella realtà, dal Duemila in poi si intende, non essendo specificato l'anno, ma sempre nel Duemila stiamo. Dopo la lettura sappiamo che Skasìla, la donna del precedente capitolo, è una delle tre maschere della protagonista, Agata, e che a causa della pressione e dell'opportunismo delle sue vecchie amiche d'infanzia ha rinunciato all'incarico che l'ha vista partecipe nel capitolo precedente. Avverto i lettori che da questo momento in poi, così come avrete notato anche voi, ci sarà parecchia introspezione, finché non sarà abbastanza chiaro il comportamento apparentemente irragionevole di Agata e dei personaggi che le stanno intorno. La narrazione, ne sono consapevole, sarà molto lenta a causa di ciò, ma è doverosa una sorta di lezione su di lei, al fine di comprendere meglio l'intero andazzo della storia.
Fatemi sapere ciò che pensate di questo capitolo! Alla prossima!

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