Capitolo 4 - Søgeren (Mirino)

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Agata non aveva deciso a caso di prendere con sé Dakota. Oltre all'impossibilità di vederla come una giovane in grado di difendersi da un possibile attacco alle spalle, "l'autorizzazione" a cui si era riferita in precedenza le sarebbe tornata utile in una città dove i controlli erano tanto intensi da non lasciare a piede libero per molto ogni criminale. Ci voleva molta abilità per garantirsi l'indipendenza nel territorio, e una buona copertura. Ma stavolta lei stava semplicemente scappando: avere al suo fianco uno di quei particolarissimi autorizzati la rendeva immune soprattutto nelle ispezioni.
Cosa avrebbero potuto farle se avessero scoperto le armi che portava dietro? La via migliore era la prigione, ma nemmeno lì sarebbe stata al sicuro.
L'avrebbero raggiunta.
«Ricordo di essere passata da questo edificio» disse la più giovane, senza perdere il suo entusiasmo. Ne indicò un altro, osservandolo. Anche la zingarella, nelle vesti di Dame Marine, aveva potuto notare alcuni tratti a cui mai aveva fatto caso, facendo scivolare lo sguardo attento sulle forme un po' rovinate dei palazzi. Mentre Dakota spostava le dita in base a ciò che vedeva esclamando di averlo già incontrato – dopotutto stavano ripercorrendo la strada al contrario – Agata preferiva rimanere in silenzio per ascoltare i rumori intorno a loro, alcuni dei quali potevano suggerirle di cominciare a preparare una buona difesa per annullare delle imboscate. Purtroppo era piuttosto complicato, avendo i timpani già occupati dalla squillante voce dell'accompagnatrice.
«Non mi hai detto qual è il tuo nome comunque»
Dopo un po' di silenzio e alcuni metri passati a camminare abbastanza rapidamente, era riuscita a chiederlo alla figura fiera accanto a lei, che le lanciò una sola occhiata.
«Puoi chiamarmi Marine» rispose semplicemente. E fra loro tornò a imporsi con prepotenza il silenzio.

Nessuna delle due sapeva quanto tempo fosse passato dalla partenza. Ma ormai non importava, essendo arrivate a destinazione. Agata però optò per il rimanere nell'ombra ancora un po', a monitorare la situazione – azione che, a detta della ragazzina che era con lei, non aveva molto senso. «Insomma, ti ho detto che non c'è nessuno!» diceva una, e l'altra rispondeva «Delle persone potrebbero spuntare da un momento all'altro pronte a tagliarci la testa».
Paranoie, tutte paranoie, borbottava una.
Pericolo, pericolo ovunque, pensava l'altra.
Due modi differenti di ragionare, così diversi che avrebbero potuto prendersi a pugni. Eppure entrambe avevano i loro motivi. In quartieri del genere, però, la prudenza non è mai troppa, e quel caso era un esempio concreto.
Quando Agata realizzò che probabilmente nessuno stava tendendo loro una trappola, cominciò a camminare con la schiena rasente al muro esterno di un'abitazione. Avendo delle scarpe alte doveva fare attenzione a non fare troppo rumore. In casi estremi le avrebbe sicuramente levate, ma non era il momento adatto.
«Che noia! Al diavolo la prudenza, non c'è nessuno!» ripeté per l'ultima volta Dakota, e prese la rincorsa.
«Dakota, no!»
Lei era già andata, trotterellando per la strada, addirittura canticchiando. Ogni passo che faceva era un tumulto per il cuore di Agata: la guardava come se fosse terrorizzata per le conseguenze di quell'entrata in scena così avventata e sconsiderata. Accelerò il passo, per starle dietro, mentre nel frattempo cercava degli indizi per poter scovare delle persone nascoste in angoli bui pronte a colpirle, ucciderle, lasciarle per strada alla mercé di tutti, proprietà di nessuno.
E invece, la giovincella euforica aveva ragione.
Non c'era anima viva.
Agata non uscì ancora allo scoperto. Attese una manciata di secondi, il tempo di arrivare al muro e appiattirsi. La zingarella guardò i balconi affacciati sulla strada che portava al cancello della zona visibili dalla sua posizione. Non le era affatto bastato il sacrificio di Dakota: non era lei l'obiettivo dei sicari.
«E muoviti! Nel peggior caso ci può sparare un cecchino nascosto fin troppo bene per i tuoi occhi a raggi-X!» esclamò dall'altra parte, irritando l'accompagnatrice.
«Non ho gli occhi a raggi-X» la corresse, una volta vicina, per non farsi sentire da ipotetiche presenze non notate. «Sono semplicemente attenta e prudente, non come una certa persona»
Insieme varcarono il confine, rapidamente, come se fosse un peso che bisognava assolutamente levarsi. E guardandosi alle spalle, Agata, sapeva che quello non era un addio, per quella notte. Lo sentiva.
Per la sua sfortuna.


Si chiamava Haxthausen. Søren Haxthausen, per la precisione. O almeno, diceva di chiamarsi così. Un cognome nobile non si trovava di certo tutti i giorni, e non era nemmeno tanto comune da sentire in giro.
Era un uomo alto circa un metro e novanta, e aveva l'aspetto di un nordico: i classici capelli biondi, gli occhi azzurri e la carnagione chiara. Non aveva chissà cosa di particolare, se non uno charme speciale. Eppure qualcosa in lui era sbagliato, completamente corrotto, tanto da essere considerato imprevedibile e in alcuni casi del tutto spietato.
Sappiamo che diverse notti prima fosse riuscito ad avvicinare abbastanza la vittima, ma questa era stata più furba a fare una finta e fuggire prima che potesse prepararsi ad afferrarla per darle il colpo di grazia.
Tutte le volte che quel cerbiatto – di nome Agata Orfeo – era riuscito a scivolare via dalla sua morsa sarebbero state equivalenti alla quantità di pugnalate che ben presto avrebbero squarciato il suo corpo. E non era una metafora, ma la crudele verità, una promessa.
La cosa peggiore di tutta la faccenda? Non esistevano giuramenti non mantenuti. Ciò significa che l'animale avrebbe sicuramente fatto una brutta fine, prima o poi: e s'era prima, garantiva, anziché poi, di certo avrebbe sofferto molto meno.
«Si sta allontanando» gli aveva comunicato un sottoposto, sottovoce. Dopo un paio di secondi, ecco che il silenzio fra loro si interruppe di nuovo. «Non vedo più l'obiettivo» affermò uno dei suoi compagni, Jens, impassibile, concentratissimo.
«Lo vedo io. Ma c'è troppo baccano e non capisco da dove diavolo venga» rispose un altro, Jared, digrignando i denti. Spostò un paio di volte gli occhi, cercando di avvistare qualcosa che lo aiutasse a capire la provenienza del rumore, e solo dopo aver centrato la fonte mormorò con irritazione: «Sradicheremo il problema, direttamente».
«Sei impazzito? Attireremo la sua attenzione in questo modo» protestò il primo uomo allora.
«Jens, non hai mai capito un accidenti di caccia, e ora mi dici cosa è meglio fare e cosa no?» Rispose l'altro uomo.
«Fate silenzio, razza di imbecilli»
Con quel richiamo, espresso con un tono di voce veramente basso, ma non poco iracondo, Søren aveva ottenuto l'ultima parola. Guardato il trasmettitore con cui si stavano scambiando informazioni di vitale importanza già da un po', lo sguardo ricadde nuovamente sul bersaglio. Fra loro tornò a regnare il silenzio. Solo dopo un paio di minuti, Jens riprese a parlare, con una certa agitazione. «Søren, sono in due ora, tocca a te: preparati, si stanno dirigendo verso la tua postazione» asserì, dandogli il via libera.
L'uomo in questione non tardò a caricare il suo fucile di precisione. Pazientemente, attese che la preda apparisse nel suo campo visivo, e subito dopo nel mirino. Sarebbe bastato uno sparo per poterla intontire, e lì avrebbero agito fisicamente. Era un piano studiato a puntino, e le sue doti da cecchino erano altrettanto perfette – non erano ovviamente da meno le prestazioni dell'arma che in quel momento stava impugnando con audacia. Audacia che fece ribollirgli il sangue, fino a sentire la sua più grande ferita pulsare prepotentemente, provocandogli dolore. Trattenne un gemito: nonostante sentisse le palpebre pesanti, si fece violenza pur di mantenere la concentrazione.
«Søren, sei davvero sicuro che sia la persona che cerchi? Da come l'hai descritta, è molto diversa, oggi» osservò Jens, riflettendo su ciò che aveva visto poco prima.
«Ne sono sicuro. Ora taci».
Sentiva dei passi in lontananza, e con esso un mormorio. Non si potevano distinguere le parole, ma avvertiva delle presenze già con il leggero suono della ghiaia mossa sotto i piedi dei malcapitati, ammesso che fossero stati più di uno. Ma più si ostinava a voler continuare la missione, più Haxthausen avvertiva la sempre più radicata sensazione di svenimento. Dalla sua gola uscì un grugnito, e mentre scostava il suo corpo dal fucile ebbe il bisogno di reggersi con un braccio a quella che era la ringhiera di uno dei balconi più alti del quartiere.
«Søren, tutto bene?» chiese allora uno.
«Tutto bene, Jared, solo un capogiro» mentì, ma sapeva bene che i suoi compagni avrebbero capito tutto, con quel semplice sintomo.
«Ti avevamo detto di lasciar fare a noi, non sei ancora completamente guarito» lo rimproverò Jens, dalla sua posizione, la più interna del rione. In quel momento, Søren scosse la testa, con un ghigno in volto e la vista sfocata.
«Non capisci? Questa ferita non può guarire» gli spiegò. «E mi pagherà anche questo, quella sgualdrina. Non bastava quel vile a rovinarmi la vita, trecento anni fa»
Questo, invece, non avrebbero potuto comprenderlo. Non conoscendo tutto il suo passato, era normale la confusione, e a dire il vero, il leader voleva proprio questo: sconvolgere i loro pensieri, portarli sempre più lontano dalla realtà che si nascondeva dietro quel corpo nobile.
Perché Søren Haxthausen era davvero un nobile, nel 1700. Finché un pirata gli strappò, oltre al resto della famiglia, anche la voglia stessa di vivere. Voglia che adesso risiedeva in Agata. La stessa che, da bautta, gli aveva inflitto quel colpo a tradimento. Questo lui lo sapeva: bastava fissarla in quelle sue iridi grigiastre e cristalline. I suoi pensieri scorrevano davanti agli occhi, come un libro aperto. Poveracci, gli altri, pensava: lui che sapeva riconoscere le proprie prede anche senza l'aiuto altrui. Aveva imparato a riconoscerle – soprattutto lei, la più importante – con il continuo rincorrerle, studiarle.
E allora, Søren, perché dopo tanto tempo non hai ancora in mano la sua testa?
«Non è il momento di pensare a questo» interruppe il suo fugace flusso di pensieri Jared, «e fidati, amico, meglio se ci ritiriamo».
«Mai» rispose con irruenza. «Non ho intenzione di lasciarle un secondo di più da vivere».
Ma a quanto pare i sessanta secondi di distrazione furono fatali per la riuscita di quella missione.




Noticine – Sono sympansheep, l'autrice di questo racconto. Vi ringrazio ancora una volta per aver letto fin qui!
Stavolta mi sono affidata anche a un beta per provare a correggere alcuni orrori – che fortunatamente non erano proprio orrori. Oggi ho poco da dire: con una "vecchia conoscenza" all'interno del capitolo potremmo inaugurare ufficialmente il conto alla rovescia per... Spoiler! Hehe, potrebbe essere qualunque cosa, anche un non-spoiler, e vi sto facendo uno scherzo di cattivo gusto. Haha! Uno scherzo però non è la mia pausa dopo il quinto capitolo. Esattamente: non aggiornerò venerdì 4 agosto, bensì l'11 agosto. Questo per via della settimana nera tra il 14 e il 21/22 agosto, in cui ci sono Ferragosto, il mio compleanno, feste di paese (non mi posso assentare, sigh) e compleanno di mio padre (nemmeno a quello). Non avrò il tempo per morire in quella settimana, quindi cerco di mettere il turbo, dal momento che il quinto capitolo è già finito dovrò scrivere in due settimane almeno altri tre capitoli per non trovarmi esorbitanti ritardi dopo.
Che bella la vita, vero?
Fatemi sapere ciò che pensate di questo capitolo – vi prego fatelo! çwç Alla prossima settimana!

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