Ritorno all'Accademia

38 0 0
                                    

La costruzione squadrata, troppo semplice per la sfarsosità di Makrat, le fece tornare in mente un milione di ricordi. Siel. Raven. I suoi compagni d'armi e "amici" che le parlavano solo perchè era sotto le grazie del Supremo Generale. Otto anni lontana da quella costruzione non avevano però permesso a Leis di dimenticarsela. Iniziò a percorrere a grandi falcate quelle poche braccia che la separavano dal portone. Le guardie se la ricordavano bene e non diedero il minimo cenno di volerle sbarrare la strada. Una volta dentro chiese subito udienza a Raven. Non dovette aspettare neanche cinque minuti nella grande sala, prima che Raven si presentasse.
L'armatura lucente, esagerata come al solito. Il consueto cagnolino in braccio. Non era cambiato nulla. Era il solito Raven. Leis corse, corse fino a raggiungere il Supremo Generale, dimenticando completamente i gradi militari. Stranamente Raven non fu da meno. Lasciò andare il cagnolino che le corse incontro a sua volta. Raggiunto Raven davanti al suo scanno, Leis gli si buttò al collo rischiando pericolosamente di farlo cadere all'indietro. <<Otto anni, ma sei sempre rimasta la solita Leis di quando ti ho trovata al confine con la Terra dei Giorni.>> un sorriso paterno gli si disegnò sul volto. <<La mia camera non l'hai data a qualche altro allievo vero?>> improvvisamente un bagliore di preoccupazione le si disegnò sul volto. <<Assolutamente no, è lì come l'hai lasciata tu. Non ho permesso che nessuno la toccasse>> le diede un ultimo bacio in fronte e la vide sfrecciare via dalla sala delle udienze.
Dovette indugiare un po' per i corridoi dell'accademia prima di riuscire a ritrovare la propria stanza.
Sfilò la chiave dalla catenina che portava al collo. Una vecchia chiave, di quelle grosse e con qualche frammento di ruggine. La porta si aprì con un leggero scricchiolio. Dalla feritoia in alto si potevano scorgere le scottature nel cielo del sole al tramonto. Il letto ancora rifatto, con la lettera che aveva lasciato a Raven ancora chiusa sul cuscino. Quel pezzo di carta le fece riaffiorare nella mente il motivo per cui era partita. La magia. Voleva imparare a saper usare il proprio dono come meglio poteva. Raven la mandò da un membro del consiglio, stanziato nella Terra del Vento. Sarebbe dovuta tornare quattro anni fa, quando aveva finito il suo addestramento, ma seppe che il confine era al rischio, e che le truppe del Tiranno minacciavano anche quella terra. Prese una decisione: invece di tornare all'accademia si sarebbe resa utile nella prima base che avesse trovato. Fu per questo che, usando la magia, forgiò la sua prima spada, con l'aiuto dei folletti dei boschi della Terra del Vento, che le regalarono una moltitudine di Lacrime.
Il Drago bianco, che con movementi sinuosi si arrotola sull'elsa a forma di clessidra, nella quale, anno dopo anno, goccia dopo goccia, il suo sangue elfico scorreva dalla parte alta a quella bassa, per ricordare la sua consacrazione al Dio del Tempo e della Guarigione e il drago che la spinse a sei anni a lasciare la quiete del regno di Thoolan, la guardiana del Tempio del Dio a cui era stata consacrata. Il simbolo dei mezzelfi, inciso nella lama, candida quanto le Lacrime con cui era stata forgiata. Sguainò la spada dal fodero e la prese in mano come fosse la cosa più d licata che vi fosse in tutto il Mondo Emerso, come se fosse bastato un tocco leggermente meno delicato a frantumarla, come se, lei stessa, non vi avesse imposto un sigillo che la rendesse più indistruttibile del cristallo nero. Su quell'arma era scritta la sua storia, non molto felice per una ragazzina di quattordici anni. Si sfiorò la cicatrice sul collo, della lama che avrebbe dovuto staccare la testa dal suo corpo. Una lacrima le rigò la guancia. Un attimo dopo guardò l'indice della sua mano, con il quale aveva asciugato quell'attimo di debolezza. Rabbia. Verso se stessa per aver dimostrat quella debolezza, e verso chi l'aveva spinta a provarla. In otto anni era cambiata parecchio.
I strettissimi pantaloni di pelle nera, il corpetto con lo scollo a cuore, che le metteva in risalto il seno, il rossetto nero sulle labbra, il trucco nero e marcato sugli occhi. Sembrava più una ventenne che una quattordicenne, ma a lei piaceva così. L'unica cosa rimasta uguale a otto anni fa erano gli occhi fucsia acceso, le orecchie a punta talmente lunghe che mancava poco che superassero la fronte, e i capelli neri, che al minimo raggio di luce emanavano bagliori di ogni sfumatura di colore.
Iniziò a recitare una cantilena e sulle pareti di legno la sua storia iniziò a raccontarsi. Fin dalle ingiustizie che aveva ricevuto appena nata, i sei anni in cui non conobbe il dolore e il male del mondo, fino a quando da Soana, il membro del consiglio che l'aveva istruita alla magia, conobbe Sennar, che fu la prima cosa bellissima da quando aveva scoperto le crudeltà del mondo. Sennar colui che, considerava suo fratello maggiore. Tutti e due avevano sofferto molto nell'arco della loro vita e in quei quattro anni si erano confortati a vicenda. Poi arrivò il campo di battaglia. Dove nessuno aveva preso sul serio una strana bambina di dieci anni, con gli occhi rosa acceso, le orecchie a punta e dei strani capelli che davano l'illusione di essere neri. Ma lì Leis diede prova del suo coraggio, della sua abilità nel maneggiare qualsiasi tipo di arma, in particolare la spada, e dimostrò di essere in grado di battere anche diversi Cavalieri di Drago che la sottovalutavano. Una bimba cresciuta troppo in fretta che combatteva nelle file delle Terre Libere. Tornò all'accademia più che per ricevere l'investitura a Cavaliere di Drago, per vedere Raven e il drago che aveva visto schiudersi dal suo uovo, il suo drago.
Finito di scrivere quella specie di autobiografia le impose un sigillo, in modo che qualsiasi cosa avessero tentato di fare a quelle pareti, non si sarebbero spezzate e le scritte non si sarebbero cancellate.
Uscì dalla sua stanza, chiudendola a chiave, e corse fino all'arena, per le scuderie. Lì trovò un concentrato di draghi che sbuffavano dalle narici, rendendo l'aria isopportabilmente calda, ma a Leis non importava. Continuò fino in fondo. In una nicchia, c'era un drago bianco, dall'aria triste e affranta, accovacciato, con la testa appoggiata sulle grandi zampe e gli occhi, uno rosso e uno giallo, spiccavano appena sotto le candide palpebre squamose. I sensi di colpa assalirono Leis. Era colpa sua, se n'era andata e il suo drago aveva sentito la sua mancanza, si era sentito abbandonato da lei. Gli si parò davanti e lo chiamò con il tono più allegro che gli concedeva quella vista. Siel spalancò gli occhi e si rizzò impiedi. Leis dovette abbassarsi di colpo per schivare una fiammata del drago. Cinse il collo del drago con le sue braccia sottili e lui si fece accarezzare come un cagnolino. Lo portò nell'arena e si fece rincorrere mentre qualche allievo curioso assisteva alla strana scena. Un elfo e un drago bianco che giocavano a rincorrersi. Molti pensarono che non ci fosse nulla di più strano e buffo. Verso l'ora di cena riportò Siel nelle scuderie e si diresse verso il refettorio, lo stesso refettorio in cui le persone le si avvicinavano solo per avere qualche privilegio in più da Raven, privilegi che, fra l'altro, non erano arrivati a nessuno.

L'elfo dei mezzelfiWhere stories live. Discover now