Steven

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Mi svegliai in una cella. Il pavimento era freddo e umido e le pareti di granito avevano un'aria claustrofobica.
Mi alzai dalla brandina su cui ero stata stesa. Non ricordavo molto dei miei giorni passati e le domande si affollavano nel cervello. Mi accorsi di uno specchio e un lavandino nell'angolo opposto al mio.
L'acqua fresca sul mio viso era rigenerante. Alzai lo sguardo e mi fissai allo specchio: i miei capelli castani erano ancora legati in una coda e li sciolsi. Gli occhi erano verdi e vivaci, ma confusi. La pelle chiara non si addiceva al fango sul vestito.
Esplorai la stanza, l'illuminazione era debole e nelle quattro mura che mi dividevano dal mondo non c'era molto: un bagno di fortuna, una brandina e una sedia con dei vestiti bianchi. Li indossai e la sensazione di pulito mi fece sentire meglio, anzi più a mio agio diciamo. Osservavo la grande porta di metallo, era spessa, lo spioncino e una fessura erano chiuse, apribili solo dall'altra parte. Anche con tutto il mio impegno non potevo sfondarla in nessun modo. Mi voltai e notai una finestra sopra la brandina. Salii su di esso ma non riuscivo completamente a sporgermi. A malapena, vedevo quello che sembrava un prato.
Ero sola. Imprigionata chissà dove e chissà per quale ragione.
Mi rannichiai poggiata al muro versando qualche lacrima. Sfogarmi forse non poteva che farmi bene.
Una voce però bloccò le lacrime, sorprendendomi nella solitudine.

<<Ehi, perchè piangi?>> disse.

La voce mi era quasi familiare, sembrava di un bambino, sicuramente più piccolo di me.

<<Chi sei?>> risposi singhiozzando.

<<Il mio nome è Steven. Il tuo?>> rispose il ragazzo.

<<Dove sei, Steven?>> ribattei curiosa.

<<Nella cella accanto alla tua>> aggiunse con una punta di rammarico, il bimbo.

Un altro prigioniero, proprio accanto a me.

<<Il mio nome è Adele, comunque. Tu da quanto tempo sei qui?>>

<<Sono nato qui>> la punta di rammarico si trasformò in piena amarezza.

<<E quando sei nato?>> dissi impaurita.

<<Dovrei avere nove anni, se intedevi questo>>

Nove anni di prigionia senza vedere niente del mondo. Niente visione delle stelle, niente di niente, la peggiore tortura.

<<Oh non preoccuparti, tanto non potrei, fuggire è impossibile...>> rispose il ragazzo.

<<Perché? Ma aspetta,  io non ho parlato ma solo pensato di...>>

<<Diciamo che hai capito il motivo per cui mi trovo qui.
Riesco a comunicare con la mente grazie alle mie capacità, ma non è sempre stato cosi anche se, sono ormai anni che si sono presi la mia lingua, era troppo imprevedibile dicevano>>

<<Cosa? Te l'hanno tagliata?>> risposi, il mio cuore accellerò di colpo.

<<Per favore non farmici pensare...>> disse Steven.

<<Prima hai parlato di capacità, e sei qui per colpa loro. Allora io perché sono qui? Non ho nulla di speciale.>> aggiunsi agitata.

<<Oh, ma ti sbagli. Se sei qui le hai, fattene una ragione>> mi rassicurava a modo suo.

Io non capivo. Cosa stava succedendo? Io non sono speciale, oppure si? Eppure pensavo di essere morta ed eccomi qui. È tutto confuso. Dopo aver toccato quella stella non ricordo più niente!

<<Stella?>> chiese il ragazzo.

<<Mi leggevi nella mente? Non farlo sta diventando inquetante!>> mi spostai i capelli sciolti da una spalla all'altra.

<<Ehm si, scusami ma non sono abituato a chiederlo. Le stelle sono importanti per loro...>> Steven si ammutolì di colpo.

Dei passi stavano giungendo da dietro le nostre porte. Sentii un rumore metallico. Immaginai fosse la porta della cella del mio nuovo amico.

<<No! Non ancora! >> la voce (mentale) di Steven supplicava.

La porta si chiuse e ritornò il silenzio.

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"Il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri."

Cit. Cesare Pavese.

Una stella nel ventoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora