Capitolo 6

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Il mattino seguente era bello e limpido. Quando aprii le tende per far entrare la luce del giorno, ciuffetti di nuovole bianche ricoprivano il cielo in modo teatrale creando uno spettacolo impressionante. L'acero argentato sotto la mia finestra iniziava ad adornarsi di splendide tinte giallo oro in occasione dell'autunno. Quando aprii la porta e scesi gli scalini di arenaria che conducevano al marciapiede, sentii una sferzata di freddo.
Dal mio appartamento a quello di Celia il tragitto è breve, ma la passeggiata è un momento findamentale dei miei sabati. È una giornata quasi sacra per me e la difendo gelosamente. Be', almeno adesso. Non è sempre stato così. Quando avevo preso il timone di Kowalski's, avevo sentito la necessità di essere presente ogni singolo minuto negli orari di apertura del negozio. Nei confronti della mia attività avevo sviluppato una mentalità da film catastrofico, come se nel momento stesso in cui me me fossi andata potesse verificarsi un'esplosione, o una meteora potesse attraversare l'atmosfera e precipitare proprio sul negozio, o un'invasione aliena fosse imminente - o tutte queste cose insieme - e al mio ritorno potessi trovare l'edificio distrutto e i colleghi che mi guardavano sconvolti e chiedevano: "Dov'eri quando avevamo bisogno di te?". Dopo circa un anno ero talmente stanca e stressata che la vena creativa si era prosciugata e iniziammo a perdere clienti perché le composizioni erano diventate sciatte. Fu allora che Ed mi prese da parte in maniera educata ma ferma mi convinse che avevo bisogno di un po' di vacanze. Per il bene di tutti.
"Ti serve un po' di downtime, ragazza", mi disse, senza lasciare spazio a dubbi. "Marnie e io siamo più che capaci di gestire il negozio senza di te per una giornata intera. Dici di amare tanto New York? Bene, allora concediti il tempo di godertela. Se non lo fai, non te la caverai mai qui". Aveva ragione, come sempre. Quindi decisi di riservare il sabato a Celia e agli altri amici, e dedicare la domenica alla lettura, a cercare nuovi stili e idee e in generale a esplorare la mia splendida città, la maggior parte delle volte sotto la guida saggia ( anche se leggermente ossessionata dal cibo) di Ed.
A proposito di cibo, quando vado a casa di Cecilia compio sempre una deviazione verso sud di un isolato per passare da M&H Bakers, il panificio del quartiere, dove compro qualche sfoglia, bagel i muffin caldi per accompagnare i nostri discorsi. Mi piace la combinazione tutta newyorchese di buon cibo e buone chiacchiere. Nom so perché, ma in qualche modo è molto più facile risolvere i problemi della vita quando stai per divorare un bagel affogato nella crema di formaggio e salmone affumicato, o una fetta di crostata ai mirtilli. Il locale ha fatto colpo persino su Ed, che non perde occasione per gridare ai quattro venti il suo odio per l'Upper West Side.
Quando entrai, Frank, il tizio piccoletto e paffuto dietro al bancone, gridò: "Buongiorno, signorina Duncan!".
"Ciao, Frank. Come stai oggi?".
Sventolò la mano. "Oh, così e così. Sa com'è".
"Uh-uh", risposi facendo di sì con la testa. Non importa se il sole splende in cielo, quanti clienti entrino in negozio o in generale che la vita vada bene, Frank troverà sempre qualcosa di cui lagnarsi. In questo senso, è newyorkese dalla testa ai piedi. "Dunque", chiesi con un sorriso, "cosa c'è di speciale oggi? Qualcosa di buono?".
Lui si portò una mano al cuore e fece finta di essere offeso.
"Se ho qualcosa di buono? Se ho qualcosa di buono? Sono sconvolto da questa domanda! Va bene, cara, che ne dice di questi?". Allungò una mano all'indietro e posò un cesto sul bancone. "Guardi un po' queste creature". Osservai il cesto, pieno do grandi bagel dorati. L'odore era fantastico, simile a quello di crostata di mele calda e speziata.
"Wow. Mela, zucchero e cannella, giusto? Ne prendo sei, grazie". Frank lanciò un urletto e batté le mani. "L'ha capito!". Si voltò e gridò in direzione del retro del negozio. "Ehi, Luigi, ha indovinato un'altra volta!".
Un braccio corto e incredibilmente peloso fece capolino dalla porta che conduceva in cucina e salutò. Una voce ansimante e profonda dall'accento italo-americano rispose: "Grande, Frankie!".
Frank tornò da me e riempì una busta di carta marrone con i bagel. "È troppo brava, Rosie", disse sorridendo e scuotendo la testa. "Troppo brava. Ma un giorno di questi la fregheremo".
Nonostante siano anni che frequento il negozio, non ho mai visto Luigi. Be', ho avuto solo modo di scorgerne il braccio incredibilmente peloso e di sentirne la voce. Perché sta sempre là dietro? E se per caso fossero obbligati a tenerlo lì? Se la vista di lui tutto intero fosse troppo traumatica per il cliente medio del panificio? Ho una teoria a proposito di Luigi. Immaginate la scena: una giovane coppia, in Italia, si fa ricevere dal prete del paese, la sera tardi. Nella cucina piccola e poco illuminata del curato, i due gli mostrano il loro unico figlio. L'orrore si dipinge sul volto del religioso, che è costretto a distogliere lo sguardo. Persino alla luce fioca delle candele, l'aspetto del neonato è spaventoso. La madre scoppia in singhiozzi e si volta verso il marito. Disperato, l'uomo implora il parroco: "Esiste qualcosa, qualsiasi cosa, che possiate fare per noi? La sua vita sarà miserabile... la gente lo giudicherà oer il suo aspetto, non per le sue capacità...". Il volto dell'anziano parroco è colmo di compassione per la condizione del bambino. Ci pensa su. "Una cosa c'è", risponde. "Se gli insegnassimo un mestiere - un mestierecapace du dare piacere alle persone - forse avrebbe una possibilità di farsi rispettare...". I genitori consegnano il figlio alle cure del monastero locale, e lui impara a fare il panettiere... Molti anni dopo, quando il giovane termina l'apprendistato, emigra negli Stati Uniti per cercare fortuna e trova lavoro qui, da M&H Bakers. Il piano del vecchio prete sembra funzionare. Ma i pregiudizi sono difficili da sradicare persino nella terra della libertà, e mentre le sue squisite creazioni donano innegabili piaceri agli abitanti dell'Upper West Side, l'aspetto fisico ancora lo condanna a stare sempre, sempre nel retrobottega...
"Hai un'immaginazione folle", disse Celia tra le risate, spuntando dalla cucina mentre esponevo la mia teoria, "ma un gusto impeccabile!".
Feci un piccolo inchino. "Be', grazie".
Lei si sedette. "Raccontami. Cosa ti è accaduto ieri? Quando ti ho vista eri bianca come un fantasma".
Trasalii e alcuni ricordi ancora freschi si impadronirono del mio cervello. "Ehm, diciamo che ho avuto una discussione difficile".
Celia si accigliò. "Con chi?"
"Con Ed".
"Ah... perché difficile?"
"Abbiamo litigato a proposito di...". Mi interruppi e aggiustai il tiro. "Be', era talmente insignificante che non mi ricordo neppure l'argomento". La guardai, sperandp che non insistesse. Fortunatamente era troppo concentrata su ciò che era successo dopo. "Comunque me la sono vista brutta, ho chiesto scusa, abbiamo fatto pace e poi... ehm...".
Celia si sporse in avanti, rischiando di rovesciare il caffè per la curiosità. "E poi...?"
"Poi perbun pelo non ho finito per raccontargli tutto. Sul motivo per cui sono venuta in America. Su quello che è successo". La mia amica rimase a bocca aperta per lo stupore. "Ma non l'hai fatto?".
Scossi la testa. "Non potevo. La cosa peggiore è che somo passata per quella che non si fida abbastanza di lui".
Celia lanciò un grido. "Oh, tesoro, non è affatto così".
"Tu credi?"
"Certo, neppure lontanamente. Ma mi sembra di capire che non sei sicura di aver fatto la cosa giusta, non è vero?". Aveva ragione. Non ero sicura. Celia allungò un braccio e mi strinse forte la mano. "Hai tutta la libertà di dire ciò che vuoi a chi vuoi... oppure no. Nessuno ha il diritto di esigere questo tipo di informazioni da te, tesoro, lo cqpisci?".
Annuì. "Ed dice che ho paura di lasciare avvicinare le persone. E ha ragione". Bevvi un lungo sorso di caffè e guardaila strada fuori dalla finestra. "Non lo so, forse dovrei aprirmi di più. Forse è giunta l'ora. È solo che ho la sensazione di nonnessere ancora pronta. Ma arriva mai il momento in cui sai di essere pronta, o le cose accadono e basta?".
Celia si raddrizzò e sorrise, stringendomi la mano. "Per la mia esperienza, scoprirai di essere pronta quando lo starai già dicendo a qualcuno".
"Spero che tu abbia ragione", risposi, bevendo un altro sorso do caffè. "Ho solamente paura di aver perso l'occasione, capisci?"
"Rosie, lo farai a tempo debito, credimi. Insomma, ricordi quando l'hai detto a me? Ci conoscevamo da poco più di due settimane e la cosa saltò fuori, nella mia cucina, mentre preparavo la zuppa di pollo per Jerry".
Non potrei trsttenere un sorriso. La rivelazione improvvisata fatta a Celia aveva sorpreso più me che lei. "Quanto sono stata newyorkese quella volta? Quasi degna di una serie HBO".
Ridacchiò. "A quanto ricordo, eravamo vestite in modo che non sarebbeper niente adatto!".
Mi guardai intorno soffermandomi sui crema e i blu scuro del soggiorno di Celia, notando un dipinto antico raffigurate un vado di gigli, su cui scherziamo spesso perché la mia amica non sopporta quei fiori dal vivo. "Il fatto è che in fondo credo di aver paura di diventare il mio passato. Non voglionessere idemtificata con ciò che mi è successo, capisci? Ho paura che la gente mi etichetti invece di chiamarmi per nome, un po' come fanno in quei reality show: 'Monica, trentaquattro anni, dall'Idaho, vuole disperatamente un figlio... Jim, ventisette anni, dal Tennessee, depresso cronico...". Ho paura che leghino in modo indissolubile il mio passato a ciò che sono adesso".
Celia si accorse della mia lotta interiore e sorrise.
"Rosie, tu sei una bellissima persona sotto ogni punto do vista. Hai così tanti amici che ti vogliono bene e ti accettano per quella che sei! Quanto a ciò che è accaduto a Boston, non è stata colpa tua, ricordi? Non potevi prevedere in nessun modo che sarebbe accaduto e non sei stata responsabile del casino che ti ha portata qui. Guardati adesso: hai un'attività che va a gonfie vele, sei in una città che adori più di quanto qualsiasi individuo sano di mente dovrebbe fare e, cosa più importante, sei una brava persona. Gli amici che contano non to vedranno in modo diverso se deviderai di affidare loro il tuo segreto".
Accennai un sorriso. "Lo pensi davvero?"
"Lo so. Ehi, sono io la giornalista. Quindi fidati del mio istinto, ok?"
"Ok".
"E a proposito di giornalismo, sono sicura che scriveranno un bel pezzo su di te per l'edizione del sabato. Il mio editore è convinto che la tua storia sia perfetta".
"Davvero?".
Annuì. "Assolutamente. Josh Mercer non è solamente un grande giornalista, sai, ma anche il miglior fotografo che ci capita da anni. Solo il meglio per Kowalski's! Con lui sarai in buone mani. Quindi, smetti subito di preoccuparti".
"Grazie, Celia. Non solo per questo. Per tutto".
Lei sorrise soddisfatta. "Non c'è di che. Oh... oh!", esclamò, comw se il corso dei suoi pensieri fosse stato deviato all'improvviso. "Volevo parlatene ieri, ma credo di essermene dimenticata. Come ho fatto a scordarlo? È così interessante". Agitò le mani in aria, sforzandosi di riprendere fiato per l'improvvisa ondata di eccitazione che si era impossessata di lei. Ridacchiai. "Celia, respira, calmati. Cosa c'è?".
Fece una pausa tetrale, poi si mosse come se mi stesse mostrando un regaloprezioso. "Nathaniel Amie", annunciò in tono trionfale, il volte acceso dal fuoco dell'aspettativa.
La mia reazione non fu all'altezza. "L'editor? Quello della festa?". Celia annuì con impazienza. Feci finta di brancolare nel buio. "Cosa c'è?", chiesi con disinvoltura, mostrandomi disinteressata, ma godendomela in segreto.
Ormai prossima alla combustione spontanea, c'era il rischio che gli occhi di Celia schizzassero fuori dalle orbite. Si lasciò scappare un gridoincredulo. "Oooh, Rosie Duncan, sei incredibile! Potresti almeno sforzarti di sembrare interessata". Non riuscii più a mantenere l'espressione seria. "Scusa, Celia. Sono interessata, davvero".
Lei fece una smorfia benevola. "Bene, allora comportati come tale".
Congiunsi le mani. "Per favore, raccontami di Nathaniel Amie, Celia, ti prego!".
L3i batté le mani felice. "Ok, ok. Senti questa. Ieri, quando te ne sei andata, ho dovuto incontrarlo per via del mio libro... ti ho detto che sto scrivendo un libro?"
"Solo un migliaio di volte".
Non abboccò. "Be', comunque, sto scrivendo questo libro. Quindi, sono dovuta andare da lui per parlare di un'eventuale pubblicazione con Gray & Connelle. E lui mi ha chiesto... di te!".
"Davvero?", domandai con cautela, d'un tratto davvero interessata.
"M-mh", rispose lei, e poi agitò il dito con fare accusatorio.
"Non mi hai detto che l'hai incontrato da Mimi".
"Diciamo che ci siamo scontrati, piuttosto". Sorrisi, sperano che Celia non conoscesse i dettagli.
Invece sì. "Me l'ha raccontato. Ha detto che ti è venuto addosso e ti ha mandato a gambe all'aria".
"Oh, fantastico", sbuffai, coprendomi gli occhi con una mano.
"No, tesoro, era preoccupato di averti ftto male. Davvero. Ha detto che sei schizzata fuori dal palazzo più veloce di Britney dalla clinica di disintossicazione. Aveva paura che ti fossi offesa".
Sbuffai di nuovo. "Ero imbarazzata, Celia. Non è il modo migliore per fare colpo".
Lei tentò di nascondere quantofosse divertita, senza riuscirci. "Be', invece hai fatto colpo su Nate, a quanto pare".
Fuori, il sole si liberò dalle nuvole che erano andate accumulandosi per tutta la mattinata, e i raggi luminosi inondarono la stanza.
"Davvero? Cosa ti ha detto?"
"Mi ha chiesto di te. Quanti anni hai. Da quale parte dell'Inghilterra vieni. Da quanto vivi a New York. Cosa ti ha portato in questa città". Notò la mia espressione. "Non ti preoccupare. Non gliel'ho raccontato. Ho detto solamente che ti aveno proposto un lavoro a Boston, che Ben ti aveva offerto di stare da lui, e che poi hai deciso di cambiare mestiere e di trasferirti qui. Può andare?".
Non riuscii a nascondere il sollievo. "Sì, più che accettabile, grazie".
"Prego. Come ti dicevo, ha voluto sapere tutti i particolari. Ha detto che forse verrà a trovarti in negozio. Ha gusti molto costosi in fatto di fiori. Ne ordina moltissimi, sai...".
"Davvero? Sei proprionuna giornalista, Celia", mugugnai. "Ok, ok, sì, voglio sapere perché ordina così tanti fiori".
"Be', sai che esce con la figli di Mimi, Caitlin?".
Finalmente capii il senso della frase nell'email di Mimi. Quindi, la Caitlin di cui parlava era Caitlin Sutton. Non c'era da stupirsi che Mimi volesse che la sposasse.
"No, non lo sapevo. È carina?"
"Mmm... non la definirei proprio carina". Celia fece una smorfia, con gli occhi che le brillavano. "Direi piuttosto manipolatrice, egocentrica, o meglio...".
"... sua madre sputata?", azzardai.
"Eh! Brava. Però è uno schianto".
"Ah, capisco. Il vecchio motto: 'A una bella donna si perdona tutto'".
A Celia si illuminarono gli occhi. "Esattamente...". Si bloccò e cambiò idea. "Anzi, no, a dire la verità, secondo me Nate crede che stare con lei gli convenga. È ricca, è influente e, be', averla al suo fianco alle feste sicuramente gli dà più visibilità". Che strano. Per quel poco che lo conoscevo, Nate non sembrava il tipo di lersona che ama esibire la propria ragazza come un trofeo.
"E allora perchè non è venuta all'incontro con gli autori?".
Celia fexe una smorfia. "Odia i libri. E gli scrittori. Soprattutto gli scrittori. È una donna d'affari: per lei le cose devono essere incasellate, bianche o nere. Le persone creative la mandano in confusione. Crede che la gente senza intelligenza faccia ricorso alla creatività per trovare lavoro".
"Scommetto che ti adora, allora".
"Quanto mia madre adora aspettare. E puoi immaginare cosa penserebbe di te. Però ha una debolezza: i fiori. A palate. Nate ordine diversi bouquet a settimana...".
"Oh, be', sembra romantico".
" ... su sua precisa richiesta", concluse Celia. "Ma lei li tiene in ufficio. Le piace che i colleghi di Wall Street sappiano che qualcuno la adora. Chi è andato a trovarla racconta che ci sono fiori in ogni stanza, ma da fonti certe ho saputo che i domestici hanno l'ordine di toglierli non appena se ne vanno. Ora, non so se è vero, ma ho semtito dire che per San Valentino a dato a Nate una lista dei bouquet che pretendeva in regalo: il conto superava i due mila dollari! Ha addirittura specificato cosa doveva scrivere du ogni bigliettino".
"Be'...", dissi, divertita. "Il romanticismo e la spontaneità non sono i suoi punti forti, eh?".
Celia si alzò e prese le tazze per riempirle. "Per lei è più un male necessario".
"E per lui?". Era una domanda che non avrei dovuto esprimere ad alta voce,, ma inspiegabilmente trovò una via d'uscita e sfuggì dalla bocca. Ci fu una pausa. Sentì gli uccellini che cinguettavano fuori dalla finestra e il caffè che veniva versato in cucina. E avrei potuto giurare di distinguere il sorriso di Celia. Tornò e si sedette. Mi porse la tazza, accennando una smorfia quando il contenitore caldo le bruciò le dita. "E dimmi, perché lo vorresti sspere, Rosie?", chiese subdolamente.
Soffiai sul caffè per evitare di incontrare il suo sguardo.
"Niente, per nessun motivo".

Quando tornai nel mio appartamento, quel pomeriggio, c'era un messaggio di Ed. "Rosie, se ascolti prima delle cinque, chiamami in negozio. Stanno succedendo delle cose, ragazza. Cose grosse".
Non volevo chiamare. Presi un taxi e lo raggiunsi più veloce che potevo.
Marmie mi venne incontro sulla porta, con un sorriso a trentadue denti più sgargiante delle sue trecce gialle. "Rosie, è così eccitante!", cinguettò afferrandomi la mano. "Vieni a vedere!".
Mi trascinò al bancone e mi mostrò una pila di ordini compilato con la sua calligrafia arzigogolata. Ed alzò gli occhi e stava ler raggiungerci quando il telefono squillò. "Sì, è il negozio di Rosie Duncan", disse nella cornetta, sorridendo e alzondo il pollice. "Come posso aiutarla?".
"È tutto il giorno che va avanto così", spiegò Marnie eccitata. "È una follia! Quando siamo arrivati era tutto tranquillo, poi alle nove si è scatenato l'inferno. Persone che venivano e chiamavano... tutte a chiedere di te. Prima ci ha addirittura telefonato l'assistemte personale di Martha Stewart!  Tutti vogliono ordinare. Siamo pieni quasi fino a Natale e abbiamo già tre matrimoni prenotatiper giugno dell'anno prossimo". Quando la telefonata finì, Ed ci raggiunse sventolando con gioia un altro ordine. "Jon O'Donner", esclamò. "Solo l'amministratore delegato della più grande compagnia di acquisizioni di New York.ci ha ingaggiati per il matrimonio della figlia, il prossimo autunno. Si parla di tanti soldi, Rosie".
Per quanto dovessi ammettere di essere eccitata, mi sentivo anche un po' ansiosa, dato che la maggior parte dei nuovi contatti  probabilmemte erano ex clienti di Philippe.
"Mimi Sutton ci ha raccomandato a tutta la cricca", spiegai.
"Stanno abbandonando Philippe in massa perchè hanno paura di offenderla".
Quando vide la preoccupazione nei miei occhi, il sorriso di Ed scomparve. "Ah. Niente di buono, allora. Comunque...".
Sorrise di nuovo, acceso dalla speranza. "Siamo sempre stati suoi degni avversari dal punto di vista della creatività. Kowalski's merita un po' di riconoscimento, non credi?".
Non potevo che essere d'accordo. Certo che andava bene. Il nostro era un mercato libero, dopotutto. Philippe Devereau non aveva più diritto di noi di approfittarne. E Kowalski's poteva gestore quella mole di lavoro senza problemi. Avremmo avuto bisogno di qualche persona in più, ma potevamo trovarla. Avremmo dovuto procurarci un altro furgone. Ma anche su questo potevamo cavarcela. Sorrisi a Ed e Marniebe mi concessi un piccolo brivido di eccitazione. "Finalmente siamo sbarcati a New York!", risposi, mentre Ed si lasciò sfuggire un gridolino e ci stringemmo tutti in un abbraccio di gruppo. Decisi di rimanere in negozio, rompendo il voto che faceva del sabato un giorno sacro. Non avevo nessuna intenzione di privarmi di quel momento entusiasmante. Presi il comando del telefono e rimasi sbigottita a constatare che gli ordini arrivavano uno dopo l'altro. Ora, avevo sempre saputo che Kowalski's aveva del potenziale, ero l'unica che continuava a ripeterlo a tutti quando le cose andavano decisamente nella direzione opposta, ma quel successo repentino prese alla sprovista anche me. Mettendo da parte la preoccupazione per Philippe, decisi di godermi il successo, consapevole che quel ritmo non ssrebbe durato per sempre.
Proprio quando stavamo per chiudere, Ed mi prese la mano e mi condusse nel laboratorio sul retro. Chiuse la porta e si voltò a guardarmi.
"Rosie. A proposito di ieri...".
Feci un passo indietro. "Ed, io...".
Quando le sue dita mi sfiorarono dolcemente le labbra mi immobilizzai.
"Non avremmo dovuto litigare così. Entrambi abbiamo detto cose che non pensavamo, giusto? Per quanto mi riguarda, mi dispiace". Notò il mio sollievo. I suoi occhi si addolcirono. "Avevo solo paura che fossi preoccupata".
Ricambiai il sorriso. "Grazie, Ed. Anche a me dispiace".
"Facciamo come se non fosse successo niente, ok?"
"A cosa ti riferisci?".
Per un momento ci guardammo negli occhi con lo stesso ghigno stampato in faccia. Poi lui batté le mani, facendomi trasalire.
"E ora dimmi, perché la proprietaria del negozio di fiori più di tendenza di New York perde tempo in futili chiacchere? Abbiamo del lavoro da sbrigare!". Scoppiò a ridere, spalancò la porta e torno di là.
Mentre lo osservavo allontanarsi, mi  appoggiai all'alto tavolo da lavoro e assaporai il senso di pace che mi aveva pervaso la mente. Era bello ritornare alla normalità, nonostante gli eventi straordinari della giornata. Avevo corso una maratona di emozioni e mi sentivo esausta. A quanto pareva, finalmente ero vicina al rettilineo prima dell'arrivo. Concedendomi un briciolo di autocompiacimento, camminai attraverso i vasi di fiori per raggiungere i colleghi. La speranza colmava ogni parte del mio essere, e spalancava finestre buie e polverose per fare entrare il sole. Per la primavolta dopo tanto tempo, mi sembrava di essere a una svolta nella mia vita. La mia vita, come il negozio, stava rifioremdo. Da quel momento in avanti, tutto sarebbe stato meraviglioso.
Ovviamente, mi sagliavo.

Scusate eventuali errori e scusatemi per il ritardo!

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