Cinque racconti horror che esplorano i cinque sensi. Perché l'orrore non può essere relegato ad agire su un senso soltanto. L'orrore ti sente, ti vede, ti annusa, ti tasta, ti mangia... Il macabro assume sempre una forma diversa, un brivido diverso...
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I passi di Jake echeggiavano tetri nella tromba buia delle scale. Si perdevano in echi che salivano rimbombando per tutti i piani ancora da superare. Sembravano ripetersi all'infinito, come copiati e incollati lì da un computer con il pallino per la cacofonia.
Ogni volta che arrivava ad un pianerottolo leggermente illuminato, riprendeva fiato e si voltava per guardarsi alle spalle. Acuiva l'udito il più possibile ma alle sue orecchie non arrivava nulla se non il leggero rombo di traffico lontano e qualche clacson strombettante perso nell'aria.
C'era qualcosa di strano quella sera, una sorta di sensazione che gli si era appiccicata addosso e che stentava a lasciarlo. Era tutto nato da quelle fotografie, o meglio, da quello che vi aveva visto...
Scosse la testa riprendendo a salire i gradini nascosti dal buio finché non giunse al suo piano, le tre porte scure sembravano voragini nere sul muro grigio e scrostato. Frugò nella grossa cartella che portava a tracolla, scostando con la mano vecchie penne esaurite e foglietti di carta appallottolati. Toccò con i polpastrelli la grossa custodia della camera fotografica e istintivamente rabbrividì, il ricordo di qualche ora prima lo avvolse. La faccia della ragazza baluginò qualche secondo come una macchia sfocata di fronte ai suoi occhi, poi scomparve così com'era venuta.
Si agitò e scavò più in fretta nella borsa finché le sue dita non toccarono il freddo metallico delle chiavi. Le strinse nel pugno senza farle tintinnare e le inserì nella serratura. Due, tre giri in senso antiorario e la porta si aprì con un sibilo che rimbombò giù per tutto il palazzo avvolto nell'oscurità. Entrò dopo aver grattato le scarpe sullo zerbino marcio. Le lettere sbiadite di benvenuto lo salutarono come a monito mentre ad intermittenza vi passava sopra le suole.
Finalmente varcò la soglia e si richiuse la porta alle spalle. Il corridoio, quasi completamente al buio, si allungava di fronte a lui in modo simmetrico. Appoggiò la schiena al legno scuro della porta e ascoltò il suo respiro farsi più lento, il suo cuore che moderava i battiti.
La ragazza... Il suo volto lampeggiò di nuovo sotto le sue palpebre chiuse. Continuava a vederla eppure non era lei il problema. Si sfregò gli occhi col palmo della mano lasciando gli occhiali di sghembo sul naso. Quella strana sfocatura che le circondava il viso, quell'ombra che aveva visto solo sullo schermo della macchina fotografica...
Si diede una pacca sulla fronte, forte, con il palmo aperto. "Smettila" si disse. Ci doveva essere una spiegazione, qualcosa di logico, di naturale. La Reflex doveva avere qualche problema senza dubbio, non poteva esserci altra soluzione.
Si guardò in giro ora che gli occhi si erano abituati alla quasi totale assenza di luce. Solo dalle finestre della cucina il debole chiarore della città lontana illuminava l'interno.
Si alzò, prese la grossa cartella e la ripose nell'armadio accanto alla porta. Fece un sospiro quando la aprì per estrarne la custodia della macchina fotografica.