“Aaron, sta attento!”
Sì, doveva essere quella la frase che ripetevo più spesso da almeno cinque anni, ovvero da quando – all’età di tredici anni – mi ero resa un po’ più responsabile, e mi ero anche resa conto di come mio fratello, più grande di me di due anni, non sapesse andarsene in giro da solo senza combinare guai a destra e a manca.
Questa mattina Aaron aveva sfidato la legge di gravità, rovesciando un terzo di litro di latte sul tavolo, e ovunque attorno, rendendo il pavimento una pista di pattinaggio. Sono quasi sicura che avesse lasciato il letto pensando già a quale guaio avrebbe potuto combinare di lì a pochi minuti.
“Diamine…” sussurrò tra sé e sé, come se questo potesse impedirmi di accorgermi del disastro che aveva combinato. O forse era ancora troppo assonnato per pensare di iniziare a scaldare la voce. Dopotutto, erano solo le dieci del mattino. Considerando che è solito alzarsi non prima dell’ora di pranzo, deve essere stata un’esperienza mistica per lui anticipare di ben tre ore la colazione. Per la prima volta dopo mesi, Aaron si era illuso di riuscire a vedere il sole sorgere. Giurerei di aver sentito ridere anche le tende.
Vi starete chiedendo cosa ci fosse di speciale quella mattina. Ebbene, mamma e papà avevano programmato una tranquilla e serena vacanza in Ohio. Io e Aaron ovviamente saremmo rimasti a casa. Io dovevo studiare per gli esami di maturità, e Aaron… beh, lui aveva pensato bene di approfittare della loro assenza per darsi alla pazza gioia, come se non lo facesse già abbastanza. Per non menzionare il fatto che saremmo solo stati d’intralcio al relax che i nostri genitori volevano concedersi. Dopotutto – dopo 20 anni di rimproveri, brutte figure e preoccupazioni – una pausa se l’erano meritata. Non che fossimo i figli più scapestrati del mondo… o almeno io, non lo ero. Mio fratello, però… lasciamo perdere.
“Abbie, mi passeresti un tovagliolo?” chiese Aaron senza neanche alzare gli occhi dalla sua opera d’arte.
“Te ne serviranno almeno dieci” dissi allungandogli l’intero rotolo di carta da cucina.
“Abbie, prenditi cura di tuo fratello mentre noi siamo via” esordì mamma, mentre si accingeva a darmi un bacio sulla fronte.
“Sì, mamma. Il biberon, i pannolini… è tutto pronto” risposi sarcastica, ottenendo una velenosa linguaccia da parte di Aaron, e un'accesa risata da parte di mamma. Possibile che dovessi essere io a prendermi cura di lui, e non il contrario?
“Su, non fare così, sai che sei la più responsabile qui dentro” disse con tono fiero, accarezzandomi il viso.
Accennai un sorriso. “Scherzi a parte, lo faccio da tutta la vita, quindi… sta tranquilla, mamma” la rassicurai.
Mia madre sorrise, e si avviò verso la porta. Ad aspettarla c’era mio padre che, nel frattempo, si era già preoccupato di riporre le quattro valigie in macchina, tre delle quali – naturalmente – erano di mia madre. La luce solare che filtrava dalla porta aperta le illuminava i capelli rossi, rendendoli ancora più brillanti. Anch’io, come lei, ho i capelli rossi. A dirla tutta, sono uguale a lei. Occhi verdi, nasino all'insù, labbra carnose... Di mio padre ho preso soltanto la testardaggine. Mio fratello, invece, gli somiglia molto, fisicamente. Capelli mossi e scuri, quasi neri, labbra sottili... Gli occhi, però, sono diversi. Quelli di mio padre sono di un castano scuro. Quelli di Aaron sono verdi, come i miei, solo più chiari. Anche la mamma di mamma ha gli occhi verdi. È di famiglia.
Mia madre mi rivolse un sorriso stranito quando scorse i miei occhi verdi, più malinconici del solito.
“Abbie…” disse con tono rasserenante e giusto un pizzico di lusinga “...Non staremo via per più di un mese. Sta tranquilla.” mi rivolse il più spontaneo dei sorrisi “E ricordati di far visita ai nonni, ogni tanto.”
Ricambiai il sorriso, annuendo. Mio padre ci salutò e rivolse ad Aaron un’ultima occhiata intimidatoria prima di varcare la soglia, mentre io ridevo, cercando di figurare i pensieri di mio padre.
Sentii il rombo del motore e la voce di mia madre che cercava di sovrastarlo mentre agitava la mano in segno di saluto, poi un rumore via via più fioco.
Era strano, ma in quel momento realizzai che per la prima vera volta avrei sentito la loro mancanza. Chiunque al mio posto avrebbe già sentito la musica inondare le loro orecchie e il sapore della tequila scendergli giù per la gola. Ma tutto ciò a cui riuscivo a pensare in quel momento era che mi sarei ritrovata a fare da babysitter al mio fratello maggiore, più intensamente di quanto già non facessi. Meritavo quanto meno uno stipendio fisso. Non che fossi una ragazza che ama ubriacarsi e ballare come se non ci fosse un domani...Ma forse, in fondo, avrei preferito che fosse così.
Chiusi la porta alle mie spalle e rientrai in casa, mentre un sorriso malinconico si apprestava a sparire dalle mie labbra.
Mio fratello si era già precipitato al piano di sopra, prima ancora che potessi rendermi conto che ero rimasta da sola, in quella enorme casa che avrebbe potuto ospitare l’intero albero genealogico, ma che forse non sarebbe bastata a contenere la marea di pensieri che mi inondarono la mente nel momento esatto in cui il rinomato portone bianco di casa McCallister si chiuse alla mie spalle, ignaro di quante volte avrebbe dovuto dare il via libera alla gente più sconsiderata che mio fratello conoscesse. Realizzai che per la prima volta avrei dovuto cavarmela senza i miei. Il fatto che non fossi mio fratello, comunque, era quel tanto che bastava a scuotere la mia audacia. Il fatto che fossi la sorella di mio fratello, invece, era proprio ciò che avevo bisogno di ricordare a me stessa quando il mio istinto di sopravvivenza abbassava le difese. Sì, sarei riuscita a sopravvivere a un mese di lotte solitarie e continui richiami rivolti ad Aaron, e l’avrei fatto con una tale determinazione che alla fine il mio orgoglio avrebbe minacciato di esplodere. Forse esagero, o forse no. Conoscevo Aaron più di quanto Aaron conoscesse se stesso. Sapevo le peripezie di cui era capace, e sapevo esattamente i posti più improbabili in cui sapeva dimenticare tutte le sue cose, non fosse che per il fatto che le abbandonava in ogni dove, persino nella casella della posta, un po’ come faceva con il suo buon senso. Non per niente, ero diventata la sua bussola, una specie di “Google ambulante”, per usare le sue stesse parole. Parlando di Google, sapevo anche le sue ricerche più frequenti sul suo ASUS regalatogli dai nonni. Avevo smesso di spiarle da un po’, in realtà. Credetemi, non vorreste sapere di cosa si trattava. Non avrebbero voluto saperlo nemmeno i nonni quel giorno in cui, per il suo diciassettesimo compleanno, avevano deciso di entrare a sorpresa nella sua stanza per dargli il loro annuale regalo (non un altro ASUS!). E invece, la sorpresa, l’avevano ricevuta i nonni. Chi l’avrebbe detto.
STAI LEGGENDO
Relentless
RomanceAbigail McCallister, conosciuta da tutti come Abbie, è una ragazza come tante. Dolce, solare, e parecchio ingenua. È irremovibilmente convinta che un giorno il suo principe azzurro possa improvvisamente materializzarsi davanti alla sua porta di casa...