Capitolo 1

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Driin.. Drin.. Pronto..pronto.. Chiusi gli occhi qualche secondo per isolarmi dal caos del loft dell'Azienda in cui lavoravo. Voci, telefoni che squillavano, tacchi di donne, tacchetti di mocassini lustrati a lucido di uomini in giacca e cravatta, rotelle delle sedie da ufficio che si muovevano, tasti delle tastiere che venivano battuti all'impazzata.
Ogni postazione era divisa da separé in cartongesso, che poco serviva a creare privacy, dato che i suoni si mescolavano in un imbuto ovattato.
Lavoravo lì da poco e ancora non mi ero abituata a quella gavetta: il mio compito era rispondere alle telefonate e passare quelle importante agli interni dei pezzi grossi, quelle meno importanti segnarli su un foglio in exel con i dati sensibili dell'interlocutore sotto la voce "da richiamare", anche se non avevo ancora realmente capito chi e quando li avrebbe richiamati. Forse mai. Forse nessuno.
Mi ero laureata da poco e quello era il primo lavoro che avevo trovato. O quanto meno l'unico che mi aveva assunto con un contratto a progetto e soprattutto a tempo determinato.
Le finestre erano enormi e lasciavano passare la luce del sole: da fuori il palazzo era meraviglioso con tutte quei vetri a specchi, dentro invece il chiarore era quasi fastidioso.
«Sandra? Sandra ci sei?»
«cosa? Chi?»
Mi voltai perplessa e dall'entrata della mia postazione sbucò la testa di Paolo, uno stagista che aveva la scrivania dietro la mia.
«Si scusa. Mi ero persa un attimo»
«ah ah. Pensavo stessi male. Sentivo suonare il tuo telefono ma non ti sentivo rispondere»
«Hai ragione. Rispondo subito »
«Pronto? Ufficio D&A sono Sandra, in cosa posso esserle d'aiuto?»
«Buongiorno ufficio dell'onorevole De Marchi, dobbiamo parlare con il signor De Marinis con urgenza.»
«Certo. Glielo passo subito. La lascio un secondo in attesa»
Chissà poi cosa vorranno queste persone. Morsi il tappo di una matita mentre il disco di attesa telefonica suonava nell'apparecchio appoggiato al mio orecchio.
Per fortuna ormai era giunta la mia pausa e mi diressi in bagno.
Tutto era completamente lussuoso, i lavandini risplendevano e i vetri luccicavano. I faretti delle luci non ingannavano: neanche un alone o una manata. Ogni volta che mi specchiavo ero tentata di lasciargli impressa una mia impronta digitale per sfizio, per vedere se realmente erano puliti così in qualsiasi momento della giornata.
Andai in bagno ma appena uscii mi sentii bloccare una mano e due donne mi presero di forza e mi sfilarono la camicetta bianca e la gonna lasciandomi in reggiseno e mutande.
«Ma siete matte? » urlai « ma state scherzando? Ridatemi i vestiti!»
«ti diamo ufficialmente il benvenuto in D&A! Cosa pensavi? Che potevi entrare a lavorare qui e farci le scarpe?»
«Ma voi siete matte. Ridatemi i vestiti! Subito! Come faccio a uscire altrimenti?»
«Sono problemi tuoi carina.»
«Non vi ho fatto nulla. Ma perché vi accanite contro di me?»
«Abbiamo visto come guardavi il capo area e abbiamo capito il tuo giochetto. Ma a noi non prendi in giro. Siamo qui da prima di te e ci faremo promuovere anche prima di una sciacquetta come te»
Erano due centraliniste che avevano la scrivania proprio all'ingresso del mio piano. Erano giovanissime, sui venti anni, truccatissime e vestite molto provocante con scollo vertiginoso sia della camicetta che della gonna.
Le avevo notate semplicemente per il modo volgare in cui si presentavano, ma per il resto non avevo mai avuto occasione né di parlarci né altro.
Se ne andarono lasciandomi sola e nuda come un verme, in mutande e reggiseno certo. Ma sempre un verme mi sentivo. E avrei tanto voluto esserlo per poter scomparire nella terra in modo tale che nessuno mi avesse vista.
Con un braccio mi coprivo la parte alta e con l'altra la parte bassa e con le gambe unite come se mi scappasse  la pipì e non potevo più trattenerla.
Iniziai a correre così per tutto il bagno cercando qualcosa per potermi vestire: altrimenti come avrei potuto attraversare tutti gli uffici visto che la toilette era proprio nel centro? Non avrei potuto fare a meno di farmi guardare. Da tutti.
Una porta con scritto "vietato entrare. Manutenzione" provai ad aprirla ma era chiusa. Così mi ricordai della della chiave che era appesa proprio fuori davanti alla porta del bagno, vicino al quadro di Van Gogh.
Me la ricordai perché mi ero chiesta appunto cosa c'entrasse un pittore espressionista con le chiavi degli inservienti.
In quella situazione in cui mi trovavo, sarebbe stato più appropriato L'urlo di Munch.
Aprii lentamente la porta e guardai a destra e a sinistra infilando leggermente la testa: non c'era nessuno per fortuna. Presi uno di quegli asciugamanini profumati bianchi che trovai vicino al lavandino, che avrei voluto portare a casa già in passato in quanto morbidissimi, e mi fiondai velocemente fuori fino al mazzo di chiavi.
Due dirigenti koreani passarono proprio di lì in quell'istante e mi guardarono corrugando la fronte. O per lo meno così mi sembrò visto che per il resto la loro espressione rimase identica. Borbottarono qualcosa tra di loro a me incomprensibile e dopo una risata simil a un gorgheggio da soprano, si allontanarono scuotendo la testa.
Presi le chiavi e tornai in bagno e aprii l'anta dalla manutenzione. Per fortuna dentro trovai una t-shirt nera e un camice bianco. Li indossai e mi guardai allo specchio: ero ridicola. Mi mancavano solo i guanti di plastica gialla ed ero pronta per sturare i gabinetti, dovevo far qualcosa.
Mi guardai intorno e notai che i fantastici asciugamani profumati erano dentro ad una cesta di vimini orlata da un drappo rosa. Lo sfilai e lo legai in vita. Presi due fiori dal vaso sul lavandino e uno lo appuntai con la cucitrice sul nastro e uno lo misi all'altezza del seno come se fosse una spilla.
Mi riguardai allo specchio e sospirai. Quello era il massimo che avrei potuto fare: oltretutto era meglio di mutande e reggiseno che avevo come alternativa.
Chiusi gli occhi, presi un gran respiro ed uscii.
Camminai a testa bassa fino alla mia scrivania, mentre con la coda dell'occhio cercai sguardi o risate delle persone intorno a me: ma non fu così. Malgrado tutto avevo fatto bingo.
Mi sedetti al mio tavolo e mi appoggiai allo schienale della mia sedia sfinita: quella fu la peggior pausa di tutta la storia nel mondo del lavoro. Se l'avessi raccontata in giro non mi avrebbe mai creduto nessuno.
Finalmente finì la giornata e uscii di corsa dall'ufficio, presi il tranch blu dalla sedia e mi diressi nel corridoio per prendere l'ascensore.
Molti colleghi erano già in giro e sentii parlottare delle ragazze indicando uno dei dirigenti che si avviava verso le scale.
«Ma quanto è bello?»
«troppo!»
Passai loro vicine e a passo veloce raggiunsi l'oggetto di quella discussione e camminai proprio di fianco a lui.
«Tutto bene?» mi disse continuando a guardare davanti a se.
«Non hai idea di che giornata ho passato.» sbuffai.
Girammo verso le scale per evitare di aspettare in mezzo alla gente l'ascensore che non avrebbe neanche potuto accogliere tutti.
Scendendo le scale mi venne spontaneo di prendergli la mano.
Mi guardò e sorrise.
«scusami!» arrossii e la tolsi subito.
«Sono stata istintiva. Scusami. Avevo proprio bisogno di un contatto umano» dissi con aria sconsolata.
«Non ti preoccupare. Dopo mi racconterai. Mi dispiace non poterti abbracciare fin da adesso, ma ne abbiamo già parlato. È meglio così qui in azienda.»
«Si,si. Hai ragione» e ci avviammo verso l'uscita.

Niente è come sembraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora