Ore 8.00

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Quella mattina mi svegliai di malavoglia, anche quella volta mia madre era stata scortese. Proprio non capivo come mai, per quanto mi sforzassi e mi dimostrassi affettuosa quello che ricevevo erano solo rimproveri e abbracci poco sentiti.
Nonostante fosse fine settembre,era una bella giornata, lo avevo capito dal sole che passava dalle imposte. L'aria era tiepida e avrei preferito uscire a giocare per strada che andare a quel matrimonio con i miei genitori. Di sicuro mi sarei annoiata perché non avrei avuto nessuno con cui giocare e di sicuro avrei dovuto fare da balia a mio fratello Teo.
Mi alzai dal letto e raggiunsi la cucina con gli occhi ancora chiusi. Trovai mio padre a leggere il giornale. Era un giorno speciale quello, di solito a quell'ora lui era già uscito da un pezzo, fare il pescatore era un mestieraccio, levatacce e mani umide, non succedeva quasi mai che potessi vederlo così sereno godere di una tazza di caffè come si comanda.
Mi sedetti accanto a lui e agguantai un biscotto, Teo mi tirò per una gamba e mi invitò a giocare, feci finta di niente, volevo guardare quel viso con ogni giorno una ruga in più. Pensai di essere al sicuro perché lui mi avrebbe protetta sempre con le sue grandi spalle e  i capelli neri come la pece.
In qualche modo mi ero convinta nei miei pochi anni che mio padre volesse più bene a me. Tutte le volte che tornava tardi perché magari quel vendere il pescato lo portava lontano, dolciumi e balocchi erano il suo modo di scusarsi, caramelle colorate e gomme da masticare con tanti profumi. 
Chissà cos'era che mi faceva credere che il bene si dimostrasse con oggetti materiali, chissà cos'era che mi faceva credere che mi madre non me ne volesse invece.

Eppure facevo di tutto per non farla arrabbiare, sparecchiavo, facevo compagnia a mio fratello, andavo a fare la spesa, lavavo ogni parte del mio corpo con tanto sapone e ogni sera dicevo una parola a Dio, nel caso in cui lui fosse in ascolto.

Una volta gli chiesi di far sparire tutti.  Era stata una giornataccia quella:  a scuola non ero stata brava con una poesia, Teo aveva la febbre alta e per questi ed altri futili motivi mia madre aveva sfogato tutta la rabbia su di me.

Non erano mica i ceffoni a farmi paura, non sentivo più il dolore, a ferirmi erano le parole  che uscivano da quella bocca. Maledizioni di ogni genere piovevano come fosse niente, ogni volta c'era di mezzo quella vita poco agiata e un senso di insoddisfazione per una famiglia ingombrante. Eppure io non sentivo quel disagio, loro erano tutto quello che avevo e tutto quello che volevo, proprio non capivo come si potesse volere di più. E allora pregai il buon Dio con tutte le mie forze affinchè facesse sparire tutti, me compresa, così da rendere felice mia madre. Mai avrei immaginato di poter essere ascoltata e che da lì a breve i nostri nomi sarebbero stati incisi su delle lapidi in marmo bianco tirato a lucido.
Spostai i pensieri e mi ritrovai in cucina a fare colazione. Mandai giù in fretta quei frollini secchi e senza cioccolata,  scesi dalla sedia e cominciai a sparecchiare, sperando che lei non cominciasse ad urlare. Forse quella mattina la presenza di mio padre avrebbe reso le cose più morbide, forse.
Mi chiamo Mia, e queste sono le mie ultime ore di vita.

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