Crescendo ho cominciato a notare le differenze tra me e tutti gli altri.
Ho cominciato a fare paragoni, a chiedermi tantissimi perché.
Giuro, credetemi, ho provato a camminare in ogni modo. Ci ho provato con tutta me stessa.
Le sorelle di mia madre dicevano che se avessi voluto avrei camminato, così ci provavo tutti i giorni e ogni giorno cadevo per terra.
Le sorelle di mia madre le chiedevano perché non avesse abortito e che forse sarebbe stato meglio.
Ero storpia, ero zoppa.
Erano le mie zie.
Dicevo, ho provato a camminare molte volte fiduciosa in chissà quale miracolo o forza suprema e lucente che mi avrebbe sostenuta, invece cadevo.
Ho sognato tantissime volte di camminare. Quasi sempre sognavo paesaggi di mare, la spiaggia, la sabbia o i giardini, i prati, il terreno. Ero attratta anche dalla terra tra le dita dei piedi, schiacciata da ogni mio passo."Ma tu le muovi le gambe? Se ti do un pugno o ti pungo senti qualcosa?"
Ti dirò di più, ogni inverno i miei piedi sono ricoperti di geloni e soffro tantissimo. Se mi dai un pizzico sento dolore, se mi fai il solletico lo sento anche se non mi piace. Se mi graffio esce del sangue. Le mie dita, dall'alluce al mignolino, si muovono. Solo non ho la forza di camminare.
Solo per questo non meritavo di vivere?
Perché è così difficile essere intelligenti?Mia madre ha fatto presto a mettermi in istituto, poi in un collegio, eppure amavo mia madre con un amore disperato e pieno di mancanze e la ringrazio perché sebbene non accettasse la mia condizione mi ha insegnato ad essere indipendente.
Mi ha insegnato a non chiedere aiuto solo perché invalida, mi ha insegnato ad essere autonoma, forte, decisa. È grazie a lei ed al carattere che ho sviluppato se per me essere una disabile è una condizione fisica ma non mentale, non emozionale, non vitale.
Mi spiego meglio?
Sì, forse è il caso.
Se avessi accettato ogni sguardo pieno di pietà e compassione forse sarei finita con il compatirmi giorno e notte per la mia condizione.
Se avessi dimenticato di avere l'altra parte di me funzionante non avrei imparato a cucire, a lavorare la maglia, i ferri e l'uncinetto non sarei diventata sarta.
Non avrei coltivato forse le mie passioni come la cucina e l'artigianato e non mi sarei mai azzardata a mettere al mondo dei figli, sposarmi.
Avrei fatto la disabile servita e riverita come purtroppo mi è capitato di vedere molte volte. Come con la mia amica Maria, colpita da poliomielite spinale come me. Bastò alla madre fare un complimento sul mio sprint per smettere di essere amiche.
Peccato, la ricordo come una parte della mia vita, del mio passato in quel quartiere povero.
In qualche modo la mia voglia di vivere sul serio era molto più forte del vivere e basta.Vivere in collegio non è facile, mi mancavano i miei fratelli. Mi mancava la mia casa poverissima e la mia mamma.
Dal collegio ci portavano in clinica per le visite, come in gita andavamo con il pulmino. Una gita non molto divertente ma uscivamo.
Il collegio era diretto da suore, per me erano - indistintamente- teste di pezza.
Ci trattavano come esseri inferiori, bambini speciali e ammalati, poveracci noi.
Nella nostra camerata c'era una bambina di nome Bianca, cieca.
Era cieca ma faceva dei disegni sui muri meravigliosi.Ovviamente a quel tempo non si parlava di certe cose e ovviamente mia madre non mi spiegò nulla, per cui quando mi arrivò il primo ciclo mestruale fu una tragedia.
Non capivo perché mi uscisse del sangue senza che io avessi preso colpi o mi fossi fatta male e quella dannata cap 'e pezz continuava a dirmi: "Anna se solo caduta per le scale! Non fare tanto rumore!"
Ero forse caduta cercando di camminare durante uno dei miei sogni scalza sui prati?Fino ai 15 anni la mia vita trascorse così, periodi a casa -brevi-, periodi lunghissimi in collegio e periodi lunghi tra cliniche e ospedali vari.
Era deprimente il mio anno, ogni anno. A settembre venivo sdradicata dalle mie radici, dalle mie amiche, vivevo in clausura nove mesi e a giugno tornavo nella mia casina. Quando morì mio padre ero chiusa in collegio, mi sentii sopraffatta, annebbiata dal dolore. Non avevo potuto neanche salutarlo. Una notte sognai di incontrarlo sotto le fronde di un salice piangente, ci salutammo così, in sogno.
Dissi basta ai collegi, agli istituti, ai viaggi a Lourdes, a tutte le mostruosità che ci facevano. Volevo tornare a casa mia.
Sono sicura che senza la parola di mio fratello Salvatore mia madre mi avrebbe lasciata lì per sempre.
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Anna
General FictionErano anni diversi, era tutta un'altra epoca, la mia. Avrei voluto camminare in un campo di fiori, su di una spiaggia, per le stradine acciottolate di qualunque città, sulla terra umida di pioggia con quel profumo tipicamente terroso che misto alla...