Nero

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Rebecca

Mi guardo attorno spaesata, il panico prende il sopravvento e sento un formicolio improvviso nelle mani. No Rebecca, dico a me stessa cercando di tranquillizzarmi. Divampo mentre osservo le persone passare davanti a me come se nulla fosse; osservo il mio trolley cadere ai miei piedi e non faccio nulla per raccoglierlo. Non ho più il controllo di me stessa, l'animo esce dal mio corpo e osserva 'quell'ammasso di ossa' fermo nel bel mezzo della stazione di Bologna. So che sotto i baffi ha da ridere pure lui, il mio animo, che tanto promette di guarire ma poi a termine non porta nulla. Le persone camminano e mi osservano, qualcuno passa e, involontariamente, mi colpisce, una signora anziana parlotta con suo marito, un bambino mi osserva divertito. Il mondo gira, le persone continuano a camminare, la signora parlotta ancora, il bambino ora ride, il mio petto scoppia, le mie gambe sono salde a terra. Alzo la testa in cerca di aria, una forte nausea mi colpisce e sento il mio stomaco contorcersi. Rebecca calmati, cerco di rassicurarmi. Inizio a sudare ancor di più di prima, mi levo la sciarpa e la lancio. Rebecca conta fino a dieci, cerco di riportare alla mente tutti i 'trucchetti' insegnati da mia mamma riguardo a queste situazioni. Arrivo fino al numero 7, poi scoppio a singhiozzare e, senza rendermene conto, permetto alle gambe di crollare. La signora ora si avvicina preoccupata, il bambino piange. Qualche voce richiede la presenza di un dottore, qualcuno lo chiama 'calo da stress', altri mi vedono direttamente come una tossica in astinenza. Ho paura di morire, urlo qualcosa, un qualcosa che fa allontanare le persone. Prendo il mio trolley e lo stringo forte a me, con così tanta forza. La mamma del bambino si avvicina, credo si presenti dicendo qualcosa simile a 'sono un medico', chiede il mio nome. Rebecca, rispondo. Prova a farmi qualche domanda, mi chiede che giorno della settimana è, rispondo Venerdì. Mi accarezza la faccia e io mi scosto in maniera brusca. Da lei imparo nuovi esercizi di respirazione, mi prende la mano e mi aiuta a regolare il mio respiro in base ad una cosa: il movimento delle dita. Quando lei mi 'apre' la mano, arriva il momento di inspirare. Quando la chiude, arriva il momento di espirare. Mi tranquillizza, metto da parte i miei 20 anni e piango, piango disperatamente, singhiozzo, ho paura che il treno sorpassi le ferrovie e mi prenda in pieno. Le persone iniziano piano piano ad andarsene, rimaniamo solo io, lei, e, per adesso, il suo bambino. Riesco a calmarmi. Ringrazio la signora e scappo, scappo via da quella stazione, scappo via dalla mia vergogna, dal mio senso di colpa, dai 'poverina' dei passanti, da tutti quei 'calmati, suvvia, non è niente di che' che ho ricevuto in tutti questi 5 anni. Scappo via, arrivo fuori. 

  «Rebecca, ferma! Hai dimenticato il trolley!»  

Mi giro di scatto. La signora di prima, il mio trolley nelle sue mani.

Mi avvicino scusandomi in tutti i modi possibili, lei mi sorrise con il sorriso che solamente una mamma può possedere. 

  «Non preoccuparti cara, capisco la tua situazione.»  Appoggia la sua mano destra nella mia spalla sinistra. Smalto rosso, credo semipermanente. Anello vistoso sul dito medio, sta ad indicare un senso di responsabilità e una voglia di equilibrio nella propria vita, nessun'altro gioiello è presente nelle sue mani. Inizio a cogliere dettagli di questa donna, quali i suoi capelli corti sul color castano, il paio di occhiali agganciati alla solita cordicella di chi non ha voglia di tenergli 24 ore su 24, ma nemmeno voglia di portarsi dietro la custodia. Rughe, forse date dall'età sempre più avanzata oppure dal fumo «Comunque io sono Angela, è stato un piacere aiutarti.»

E io forse faccio una cosa che non facevo da tanto, troppo tempo. Abbraccio una persona a me apparentemente sconosciuta, così, giusto perchè mi va. Fin dalla tenerà età sono sempre stata restia riguardo l'azione dell'abbracciare qualcuno, perchè l'idea di 'concedermi' anche solo affettivamente provocava in me un forte senso di abbandono, quasi come se l'unica cosa giusta da fare fosse rimanere 'saldi a terra', non ho mai permesso a me stessa di 'volare' e di urlare al mondo quanto bella possano essere la vita, l'amore e, alle volte, anche il dolore. Angela ricambia e con la sua mano accarezza la mia schiena; suo figlio ci guarda forse con aria un poco spaventata. 

Il nostro abbraccio finisce e, dopo tre secondi, ne inizia uno nuovo: quello di Angela con un ragazzo alto, castano e dagli occhiali Rayban pronti a nascondere il colore dei suoi occhi. Lei si commuove e non nasconde ciò, quasi urla a gran voce la sua contentezza. Il ragazzo asciuga prontamente le sue lacrime con la manica della sua felpa. 

Mi faccio da parte e osservo commossa la scena. Immagino che ruolo possa avere il ragazzo nella vita di Angela. Che sia un paziente? Un caro amico? Una vecchia fiamma? Lui quasi non vuole piangere, vuole nascondere la sua commozione. Ora anche il bambino fa parte del tenero quadretto. 

  «Rebecca cara »  Angela scioglie l'abbraccio e si rivolge a me «Lui è mio figlio, Dario.»

Dario mi sorride e cerca di darsi una 'sistemata' sbattendo frettolosamente le mani su tutto il corpo. Tiene la mano del bambino che fino a 30 minuti fa mi guardava storto. 

  «Piacere Dario.»  Si allunga verso di me e mi stampa due baci sulla guancia. 

Mi presento a mia volta, quasi nascondendomi nel mio grosso sciarpone che mi tiene sempre al caldo. Lui nota questo e storce il naso, ma poi si rivolge verso la mamma e sorride, disfandole amichevolmente i capelli. 

  «Sai, si è appena laureato, è l'orgoglio della famiglia. Fuorisede con i fiocchi!»  Dice Angela

Trovo tenero il modo in cui una mamma vanti con così tanta foga sua figlio, al contrario del figlio stesso che arrossisce in tempo zero.

  «Complimentoni allora..!»  Rispondo. Dario sussurra un grazie. «Ancora grazie per prima signora, non so davvero come sdebitarmi. Chiedo scusa se magari ho avuto la capacità di metterla in imbarazzo o in così tanta difficoltà da farla sentire quasi in dovere di aiutarmi, non era mia intenzione. Non era mia intenzione tutto questo insomma, preferivo una normalissima giornata in cui aprivo per la prima volta la porta della mia normalissima casa, ma invece no.» Cerco di buttare la situazione sul ridere, cercando di sdramatizzare ciò che minimamente si può sdramatizzare. 

Lei sorride e mi abbraccia, ci salutiamo con un 'al più presto'. Dario, timidamente, mi sfoggia un gran sorriso. 


Chiamo un taxi, verso Piazza Maggiore, ho pochi spicci, poco m'importa, ho pochi spicci ma una nuova vita che mi aspetta.

Venerdì seraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora