Margherita

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Se n'è andata ancora una volta.

Elena è fatta così. Ha il sangue vagabondo.

Forse perché non si è mai sentita appartenere a questa città, anche se vi è nata.

Sente che le sue radici sono altrove.

A Sud. Ne parla come della sua terra.

Poco prima di una delle sue partenze mi disse

"Vedi Margherita, la mia è una terra rossa, rimossa da qualche settimana, puntellata di ulivi antichi, nella forma e nel colore delle foglie. Le cicale a mezzogiorno, il profumo dolciastro di qualche frutto maturo caduto a terra. Il caldo dell'estate e ogni tanto i richiami di un vecchio contadino. I muri delle case intonacati a calce. Le grandi latte di tonno e di olive con il basilico piantatovi dentro. Non ho mai visto un basilico così rigoglioso e profumato. I panni stesi ad asciugare tra una casa e l'altra, tra terra e cielo. E io lo guardo questo cielo, con la testa all'insù mentre cammino. E mi viene una gran voglia di correre picchiando i sandali sui ciottoli levigati delle strade e cantare filastrocche lontane. Quando sono tesa, triste o sopraffatta ripenso al colore abbagliante delle buganvillee contro i muri bianchi, ai vecchi seduti sulle sedie impagliate davanti alla porta di casa, al profumo notturno del forno che prepara il pane per i contadini che vanno in campagna all'alba. Mi ha sempre messo addosso un'allegria profonda e calma e la piacevole dolcezza di sentirsi a casa".

Io ed Elena abbiamo la stessa età.

Ci conosciamo da quando avevamo tre anni.

Ci siamo incontrate all'asilo, per poi seguirci nei vari cicli scolastici.

Abitavamo nello stesso palazzo di semi periferia e questo ha permesso che ci frequentassimo molto durante l'infanzia e l'adolescenza.

Io considero casa mia questa città, questo quartiere pieno di alberi e prati: gli odori, le architetture mi sono familiari.

E' strano che lei chiami casa un luogo dove non è mai vissuta. La sua famiglia è originaria di lì, è vero, ma lei ci andava solo d'estate, quando chiudeva la scuola.

Me la ricordo bene, a settembre quando tornava con i capelli schiariti e crespi per il vento e il sole.

Sembrava un animaletto selvatico che stentava a riadattarsi alla vita e alle abitudini della città. Rifiutava le scarpe con orrore di tutte le mamme che portavano i figli ai giardinetti.

Si arrampicava sugli alberi come un gatto e se ne stava lì accucciata su un ramo, con le sue gambe spropositatamente lunghe al petto ad osservare la vita degli insetti sul tronco e le foglie. Noi bambini rimanevamo a terra, a guardarla con il naso all'insù, sperando in cuor nostro che non scivolasse.

Elena se n'è andata di nuovo.

E' partita, per l'ennesimo cambio di scena, lasciandosi dietro affetti, legami, luoghi familiari.

Con ogni partenza le rimangono attaccati per un po', poi si sfilacciano, lasciandosi dietro piccole scie fosforescenti.

Elena non viaggia.

Lei parte per sempre, ogni volta.

Si ripete ogni volta lo stesso processo: resiste circa due anni, periodo in cui riprende i contatti con la famiglia, gli amici e il mondo lavorativo.

Si adegua nuovamente ai ritmi che la città impone: giorni fatti di sveglie presto, mezzi pubblici affollati, un qualche lavoro in centro, un panino ingoiato velocemente, un aperitivo, un cinema, degli amici, il letto.

E fughe precipitose durante i fine settimana verso il mare o la montagna per interrompere l'apnea nevrotica e riprendere a respirare.

Capisci che anche questa volta durerà poco quando smette di lamentarsi dello smog, dell'afa, del freddo, del traffico, della sporcizia, del chiasso, della classe politica, della superficialità dei giovani, della mancanza di valori, della pigrizia comune.

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