Miss Hyde (parte 1)

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Mi chiamo Anne, e sono un mostro. Non lo dico per farvi compassione, lo sono davvero. A vedere la mia faccia non si direbbe, anzi, fino a quel fatidico giorno, i miei pochi amici mi dicevano che ero piuttosto graziosa. La cosa mostruosa di me è il mio corpo: almeno centocinquanta chilogrammi di muscoli più duri dell'acciaio su un corpo alto appena un metro e sessanta e vagamente femminile. I miei capelli biondi e i miei occhi azzurri non fanno altro che rendere più grottesco il tutto.

Nata con problemi legati alla produzione di miostatina e ormone della crescita, i miei muscoli crescevano a vista d'occhio, tanto che a solo un anno di età battevo mio padre a braccio di ferro, e a tre superavo il record mondiale di sollevamento pesi femminile. Negli anni successivi, la crescita rallentò, mentre le ossa iniziavano a prendere una forma più adatta a sorreggere il mio corpo mostruoso. In questo periodo, il più felice della mia vita, i miei compagni mi vedevano come una supereroina.

Al passaggio dalle elementari alle medie, però, successe qualcosa. Con l'arrivo della crescita prepuberale, i miei muscoli divennero ancora più grossi ad un ritmo sconvolgente, mentre molti ragazzi più grandi, e addirittura qualche padre, iniziarono a sentirsi evirati(?) dalla mia presenza, portando tutta la scuola a prendermi in giro come meccanismo di difesa. Inizialmente non davo loro peso, sapendo che era principalmente invidia, ma poi, quando avevo ormai quindici anni, scoprii che nessun ragazzo mi voleva, alcuni per disprezzo o invidia, altri per paura che facessi loro del male, altri ancora, semplicemente per evitare di essere presi di mira.

Iniziavo a sentirmi fuori posto, arrivai a valutare il suicidio, ma i miei muscoli erano ormai troppo forti e pesanti per lasciarmi morire.

Poi, un giorno accadde.

Mi stavano prendendo in giro, come al solito, ma questa volta ci andarono giù pesante, insinuando che i miei genitori si vergognassero di avere un mostro come me come figlia. A quel punto, persi il controllo delle mie azioni, e la coscienza di me.

Non so quanto tempo passò, poi ripresi conoscenza, sentendo la sirena della polizia in lontananza. Ero da sola, nel corridoio. Intorno a me, una decina di cadaveri, in condizioni pietose. Studenti, e anche insegnanti.
Volevo urlare, volevo piangere, ma in realtà, dalla mia bocca uscì solo una risata sinistra.
Mi voltai verso le scale, da cui stavano salendo due agenti di polizia, le pistole puntate su di me.

Cos'ero diventata?

Un agente si avvicinò a me, provando a parlarmi, a calmarmi.
Volevo stendere le braccia, farmi ammanettare e portare via, ma non ero ancora in controllo delle mie azioni. Il mio braccio scattò, frantumando il cranio del povero agente. L'altro uomo sparò, in preda al terrore. Dalla mia bocca uscì una risata, mentre i proiettili rimbalzavano sui miei addominali come contro vetro rinforzato. Riuscii allora a riprendere il controllo di me, ma stavo già correndo incontro all'agente. All'ultimo, riuscii a superarlo con un balzo, sfondai la finestra e atterrai senza un graffio.

Senza sapere cosa stavo facendo, ma con l'idea fissa di evitare qualunque contatto con esseri umani finché non avessi capito cosa mi stesse succedendo, corsi all'impazzata, sfondando muretti e cancelli, finché non giunsi, gli abiti distrutti e graffi e abrasioni ovunque, nel bosco vicino alla cittadina.

Sradicai alcuni alberi, usandoli per creare una specie di baita, resa resistente unendo le rozze travi che creavo spaccando a mano i tronchi con alcuni pezzi di ferro piegati fino a legare la legna.

Dopo alcune ore, avevo finito il mio rifugio. Lo osservai soddisfatta, ma all'improvviso mi ricordai del perché ero scappata, di ciò che avevo fatto. E piansi.
Piansi per ore, pensando al mostro che ero, a come si dovevano sentire i miei genitori sapendo cosa era successo, alle vite che avevo spezzato senza diritto alcuno, compresi innocenti che non avevano mai detto nulla di male su di me.

Sapevo di non avere modo per suicidarmi senza soffrire, perciò decisi di vivere in solitudine nei boschi, lontana da chiunque io possa ferire, aspettando la fine dei miei giorni.
All'improvviso, sentii qualcuno dietro di me parlare: "Torna a dormire..."

Spaventata, mi girai di scatto e vidi il baluginare di un coltello, poi udii un grido di dolore mentre la mia mano disarmava il mio assalitore.
Mi bloccai, vedendo il suo viso, mentre una risata sinistra si faceva strada tra le mie labbra, contratte per non farla uscire.
La prima cosa che mi saltò agli occhi fu la carnagione: bianca, come il latte... no, come la cenere.  I suoi occhi erano spaventosi, spiritati, bordati di nero, senza alcun tipo di palpebre. Mi sentii rabbrividire quando notai questo particolare.

Rabbrividii ancora di più quando mi resi conto di come era distorto il suo viso, incorniciato da untuosi capelli neri, che sembravano essere sopravvissuti per caso ad un fuoco. Il naso quasi non esisteva, e la bocca era bloccata in un ghigno più disturbante che spaventoso, come se fosse fiero del suo aspetto.

Probabilmente anche lui vedeva qualcosa nel mio sguardo, dato che mi fissò e sussurrò "Ma che begli occhi, che bello sguardo... quasi quanto me!" Si mise poi a sghignazzare, il suo polso ancora in balia della mia mano.

Udii la mia voce parlare senza che ne avessi il controllo "E così, tu saresti il famoso "assassino dei boschi"? Sembri una persona interessante, credo ti lascerò vivere..."
Provò a ribattere qualcosa sul fatto che si chiamasse Jeff (Jeffrey?), ma avevo ripreso il controllo e lo spinsi via, vedendolo rotolare per una decina di metri. Presi poi il suo coltello da terra, ne piegai la lama così da renderlo inutilizzabile e glielo lanciai. "Ora vattene. Io non voglio farti del male, e tu non puoi farmene" dissi, voltandomi.

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