Una piccola leggenda

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Molto tempo fa, in una casetta appena fuori Castrocaro, in Emilia Romagna, una donna anziana stava raccontando una favola ai suoi due nipotini.

“Tra le colline di Faenza e Castrocaro, sullo spungone di uno strapiombo della via del Rio della Samoggia, sotto Monte Sassone sono scavate le quattro grotte delle fate, chiamate anche Busa e Camaraz. Questa pietra nei tempi antichi era un prodigio di palazzo dove le fate romagnole, vecchine linde e di buon cuore, tessevano sui loro magici telai d’oro le canzoni delle anime che nessuno conosce più. Da millenni ormai il palazzo non è più abitato, disertato dalle stesse fate quando l’uomo non credette più alla poesia e alla magia delle parole che aprono le menti e i cuori. Ma lì lasciarono i loro telai d’oro come pegno del possibile ritorno a quel maestoso palazzo, quando l’uomo sarebbe riuscito ad amare di nuovo le antiche poesie.
Per evitare che i telai fossero trafugati dai ladri, le vecchie fatine lasciarono un guardiano, un biscione che con soffi e minacce faceva precipitare nello strapiombo tutti i predoni, quando mai tentassero le porte inviolabili del meraviglioso palazzo.
E li tutt’ora attende il ritorno delle piccole fatine, proteggendo il loro tesoro luccicante e impregnato di antica magia”

I nipotini adoravano le storie della nonna, che le enunciava con voce soave e rilassante per accompagnarli meglio nel sonno.
Questa era la loro storia preferita, tutti conoscevano le fatine romagnole ma solo la nonna aveva raccontato loro del palazzo perduto e dei telai cantanti. Diceva che era un segreto di famiglia tramandato di generazione in generazione per non essere dimenticato, affidato loro da una fatina prima della loro scomparsa da questa terra.
Si sapeva che le piccole fatine anziane vivevano nell’aia delle case dei contadini e nella canna fumaria del caminetto, nascoste, per sciogliere le maledizioni sugli abitanti della casa e per benedire i bambini appena nati.

La nonna raccontava spesso anche del miracolo che le fatine avevano compiuto alla loro nascita, di come entrambi i panetti bianchi che, per tradizione venivano donati alle magiche vecchine, risplendettero di luce accecante per poi sparire senza lasciare la minima briciola, infondendo ai suoi nipoti le benedizioni più grandi e potenti: forza e salute a Giovanni, il più grande e purezza e bellezza alla più piccola, Matilde.
E che loro tra tutti dovevano essere sempre devoti alle fatine romagnole e rispettare sempre le tradizioni dedicate loro per onorare le benedizioni che avevano ricevuto.
Ascoltarono sempre la nonna e anche crescendo rispettarono le tradizioni in ogni occasione.

Matilde era devota ad ogni insegnamento della nonna, sapeva che nel sangue della loro famiglia erano stati celati molti segreti e magie delle fate, che prima di andarsene avevano lasciato loro il compito di non dimenticare mai fino al loro ritorno. Era orgogliosa di avere sulle spalle questo fardello.
Giovanni invece iniziò a stancarsi e addirittura a disprezzare le fatine, che nonostante i grandi doni infusi nei loro corpi, non avevano donato loro altro. Né un pezzo d’oro né un diamante né un filo di perle. Lui credeva che le fate avrebbero dovuto lasciare loro un qualcosa di eguale valore per mantenere questo grande segreto. La fede non sfama.

Loro vivevano in una capanna nelle campagne al limitare di Castrocaro, fatta di pietre del fiume, di argilla mischiata con paglia e sterco bovino. Vivevano in due stanzette, una per la cucina con un camino di pietre che affumicata sempre tutta la casa e un'altra stanza dove dormivano lui, la sorella e la nonna su letti di paglia. Avevano un piccolo orto dietro la casa dove Matilde e la nonna coltivavano le verdure, un piccolo recinto per le galline e un pozzo di pietra da dove attingevano l’acqua.

Per arrotondare i pochi soldi che la nonna e Matilde riuscivano a guadagnare tessendo e riparando stoffe, lui aveva trovato lavoro come garzone in una fattoria molto grande dall’altra parte di Castrocaro dove il lavoro non mancava. Rimaneva per la maggior parte dell’anno in quella fattoria facendo il tutto fare. Non era una bella vita, doveva svolgere tutti i lavori più duri e sporchi e dormiva nella stalla insieme ai buoi con una misera coperta grezza. Ma la paga era buona e i signori della fattoria erano brava gente, ogni tanto gli permettevano di tornare a casa sapendo che la sorella e la nonna vivevano da sole, giusto per controllare che stessero bene.

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