Mossi gli occhi infastidito dalla luce che batteva insistentemente sui miei occhi. Tentai di ripararmi da quella violenza, ma voltandomi mi ritrovai a sbattere la faccia sul duro parquet dell'appartamento. Mi svegliai subito sentendo dolore alla guancia:"Ahi..." mormorai con la voce ancora impastata dal sonno, aprendo poi lentamente gli occhi che ebbero la visione del divano o meglio del polveroso pavimento sotto di esso. Sbuffai e mi ci stesi sul pavimento, fregandomene della sua durezza e freddezza. Avevo solo voglia di rimanere lì a non fare niente... Tra tre giorni ci sarebbe stato il funerale di mio nonno e io ancora non riuscivo ad accettare la sua morte:"Nonno..." piagnucolai come un bambino a cui hanno strappato via il giocattolo. Ci eravamo allontanati per colpa del mio lavoro e non ci sentivamo ormai da tre anni, ma a me bastava la consapevolezza che lui fosse lì... Che se avessi alzato il telefono e composto il suo numero, la sua voce leggermente arrochita dagli anni, mi avrebbe accolto con la sua solita gioia. Ero il suo fiore all'occhiello, la luce dei suoi occhi e l'avevo abbandonato. Sì, perché era questo quello che avevo fatto: lo avevo abbandonato. Proprio come avevano fatto i miei genitori con me... Quando arrivai a quella conclusione, mi sentii ancora più male. All'inizio avevo dato la colpa al mio lavoro e anche per questo nei primi tempi non riuscivo ad ambientarmici per bene, ma la realtà era che le occasioni c'erano state. Una telefonata non costava niente, un messaggio non costava niente... Almeno nelle festività potevo andare da lui, passarci il Natale, il Ringraziamento. Invece avevo deciso di divertirmi nei più disparati locali di Manhattan con i miei amici. Lui aveva dedicato vent'anni della sua vita a crescermi, a farmi da padre, da madre, da maestro, dottore... E io l'avevo ripagato così, abbandonandolo in una schifosa casa di cura. Ero così arrabbiato con me stesso, ero stato egoista e adesso meritavo tutto quel dolore. Era sicuramente minimo, rispetto a quello che aveva sentito lui quando si era reso conto di essere stato abbandonato. I miei genitori erano ormai in pensione e nonostante avessero molto tempo libero, pensavano a fare vacanze e viaggi o ad organizzare stupidi branche, e non erano sicuramente mai andati a trovarlo. Non se n'erano mai fregati di me che ero il figlio, figurarsi se mio padre, di cui mio nonno ne era altrettanto il padre, lo fosse andato a trovare... Ma era inutile fare scarica barile. Avevamo entrambi le stesse colpe. Eravamo entrambi degli egoisti. Non ricordo quando rimasi steso sul pavimento, ma quando mi alzai sotto di me c'era un piccola pozza d'acqua formata dalle lacrime amare che ancora continuavano a rigarmi il viso. Unicamente quando ero da solo e nessuno poteva vedermi, mi concedevo il lusso di piangere. Anche quando ero bambino e cadendo mi facevo male, non avevo mai frignato come tutti gli altri. Avevo ostentato dolore, attraverso smorfie sul viso e gridando a gran voce quanto faceva male quello sbucciamento sul ginocchio, ma non avevo mai pianto. Quello lo facevo o con la faccia nascosta nell'incavo del collo di mio nonno oppure nella sua macchina, ma con l'avanzare dell'età avevo nascosto quelle gocce salate anche a lui. Ero distrutto, una parte di me era andata via, come se mi avessero asportato un pezzo del cuore... Ovviamente, però, il Times non era partecipe del mio dolore e se ne fregava della morte di mio nonno, così tirai su con il naso e mi diressi in bagno dove feci una doccia lunga e rilassante cercando di sciogliere la tensione che sapevo avrei avuto finché non sarebbe avvenuto il suo funerale. Era tutto così surreale...
Quando uscii dalla doccia, la tensione non era calata granché, ma almeno ero fresco e profumato pronto ad un'altra giornata all'insegna del traffico e del caos di New York. Andai in camera mia, con un asciugamano attaccato in vita e mentre mi asciugavo, aprii l'armadio che stava davanti al mio letto e presi il solito completo di sartoria. Richiusi il mobile e poggiai il completo sul letto dietro di me, mentre io continuavo ad asciugarmi per bene. Sentivo il naso tappato, segno che l'umidità di ieri mi aveva lasciato un bel regalino. Mi vestii con calma, cominciando da dei calzini neri che mi arrivavano a metà polpaccio, proseguii con l'elegante pantalone in fibra di cotone grigio e delle scarpe nere a punta, proprio da ufficio o per qualsiasi occasione si deve sembrare perfetti gentiluomini. Ancora a petto nudo, uscii dalla stanza andando in cucina e aggirando il tavolo che si trovava al centro, mi avvicinai al ripiano dove cominciai a macinare il caffè per poi erogarlo. Me ne versai una bella tazza bollente. Una tazza piena di un liquido nero. Un nero opprimente, che ricopriva tutto, senza lasciarti vedere il fondo della tazza e l'unica nota di colore era quel riflesso marrone che ogni tanto si faceva vivo. Ne bevvi un sorso, facendo attenzione a non scottarmi la lingua, poi rimasi con la tazza in mano a fissare il vuoto, perso di nuovo nei miei oscuri e tristi pensieri. A risvegliarmi fu uno dei tanti clacson che strombazzavano sotto il palazzo. Alzai lo sguardo all'orologio situato sull'entrata della cucina e notai che ero in ritardo, ma invece di correre come facevo sempre decisi di finire il mio caffè, che intanto era diventato tiepido. Poggiai la tazza nel lavello una volta finito e andai in camera a finire di prepararmi. Indossai la camicia di lino, attaccando per bene i polsini e alzando il colletto per sistemarci una cravatta sempre grigia ma con dei piccoli rombi rossi che creavano una fantasia discreta. Abbassai il colletto e poi indossai la giacca rigorosamente grigia e ne chiusi due bottoni. Mi controllai allo specchio per controllare che niente fosse fuori posto. Quando soffrivo non volevo darlo a vedere nessuno. Quindi non doveva esserci nessuna imprecisione o distrazione che potesse far cadere la mia maschera. Doveva essere tutto perfetto come al solito. Una volta constatato che fosse tutto come doveva essere, uscii dalla camera, chiudendomi la porta dietro e mi avviai a quella d'ingresso, passando però, prima in cucina dove c'era ancora la valigetta aperta e con i fogli sparpagliati. Sbuffai e misi tutto dentro alla rinfusa, decidendo di sistemarli al lavoro. Chiusi la valigetta, uscendo finalmente di casa. Feci le solite tre mandate, poi andai all'ascensore, salutando la mia vicina di casa: una signora anziana, davvero molto cordiale. Mentre uscivo dallo stabile, il mio telefono squillò e rispondendo mi accorsi che era uno dei miei collaboratori: Mark. Il vicedirettore della mia rubrica:"Buongiorno, Mark dimmi tutto" risposi con il mio solito tono cordiale. Intanto entrai in macchina e poggiai il telefono sul cruscotto, mettendolo in vivavoce. Mi allacciai la cintura e partii mentre ascoltavo distrattamente Mark, che mi parlava tutto eccitato di un'intervista richiesta da People, per parlare della mia rubrica. Era una notizia splendida, ma non la presi con il dovuto entusiasmo anche se finsi parecchio bene. Se vivevi a New York, la prima arte da imparare era quella del fingere. Nascondere il vero te stesso e dare in pasto a quel branco di squali affamati, un immagine potente di te. Un immagine forte e indipendente:"Ma è fantastico Mark! Arrivo subito. Sai, il solito traffico"
"Sì, sì il traffico. Faccia presto direttore!" urlò l'uomo dall'altra parte del telefono con voce quasi stridula per l'emozione. Forse era più eccitato lui di me, per questa storia.
People...
