Capitolo 2

24 4 1
                                    

Il loft in cui vivevo a Manhattan, distava mezz'ora dal luogo in cui lavoravo, ma a causa della pioggia che aveva bloccato alcune strade e del solito traffico che sembrava aumentato, arrivai ben un'ora e mezza dopo a casa. Parcheggiai l'auto a qualche metro dallo stabile, poiché con la fortuna che mi ritrovavo non riuscivo mai a trovare un posto libero lì davanti. Scesi, afferrando la mia ventiquattr'ore dal sedile accanto a me e chiudendo la macchina, corsi verso il portone. Inutile dire che assomigliavo ad una cascata. L'acqua mi aveva inzuppato tutti i capelli, da cui continuavano a cadere delle goccioline, per non parlare del cappotto e delle scarpe: un disastro. Cercai di scrollarmi un po' d'acqua da dosso, e grazie ai miei capelli rossi, assomigliavo ad un gallo con quella cresta creatasi sulla testa, nel tentativo di sistemarli affinché non mi dessero fastidio e le goccioline non mi cadessero sul volto, scorrendoci come se stessi piangendo... In realtà ne avevo una gran voglia, ma non mi era mai piaciuto piangere, avevo sempre affrontato tutto con il sorriso e la forza. Proprio come avevo imparato dal nonno. Scossi la testa come se volessi scacciare quel pensiero o archiviarlo almeno per il momento. Non mi faceva molto bene pensarci ogni minuto. Mi diressi all'ascensore e premendo il tasto per il terzo piano, aspettai paziente la sua ascesa. Intanto aprii la valigetta per vedere se gli articoli non si fossero danneggiati. Lavoravo per il New York Times ormai già da due anni. Era stata una dura lotta ottenere quel posto, sia per la concorrenza che per la mia situazione. Mi ero trasferito nella Grande Mela a soli ventun'anni e il caos e la frenesia di quella città mi avevano subito investito. Ero disorientato e spaventato. In fondo venivo da una tranquilla campagna, dove le uniche presenze eravamo io, mio nonno e qualche gallina. A volte con un po' di fortuna ci trovavo anche dei conigli o un maiale. Mi ci volle un anno per assestarmi: trovai casa velocemente, ma mi accorsi che per l'affitto non potevo aspettare il lavoro al Times, ne tantomeno volevo chiedere soldi ai miei genitori. Avevo cominciato una vita per conto mio e dovevo contare solo sulle mie forze. Così cominciai a lavorare in una tavola calda, il pomeriggio, e la mattina in un bar proprio sotto il palazzo. Mi ricordo i primi giorni in cui tornavo completamente distrutto per quel pesante carico da sopportare. Avevo anche smesso di mangiare per un determinato periodo, poiché desideravo solo dormire e riposarmi. Nel giro di un paio di mesi, però, cominciai a prendere il ritmo e fortunatamente, anche con l'aiuto di qualche amico che nel frattempo ero riuscito a farmi, mi alzai sulle mie gambe. In tutto questo continuavo a mandare curriculum al Times. Era sempre stato il mio sogno fare il giornalista... Andare ad intervistare le persone, quella corsa a chi si aggiudicava lo scoop migliore... Ma ormai dopo cinque mesi, ci avevo perso le speranze. Non ero mai stato molto bravo a scuola, quindi probabilmente ne avevano trovato uno che soddisfasse meglio i loro standard e poi mi ero abituato alla mia vita frenetica... Finalmente ero riuscito a diventare parte del caos di New York. Per me era già un gran traguardo. Infatti quando arrivò la lettera del Times che mi avvisava di aver ottenuto un posto lì da loro, la felicità non era esattamente quella che mi aspettavo... Allora mi ero creato una bella vita, certo non ero straricco ma mi faceva sentire vivo, quella corsa per pagare le bollette, l'affitto... Mi faceva sentire un adulto responsabile. Alla fine però decisi di accettare, in fondo era il mio sogno e poi se quelli erano amici veri, mi sarebbero rimasti vicini. Lasciai a malincuore i miei lavori a cui quasi mi ci ero affezionato e mi buttai nel meraviglioso mondo dell'informazione new yorkese. Non fu molto facile all'inizio. Per niente. Lì sembrava convergere il caos di New York, come se ne fosse la fonte. Gente che correva da un reparto all'altro, supervisori che abbaiavano ordini, persone che si arrabbiavano... L'unico posto dove trovavo tranquillità era la mia postazione. Un piccolo abitacolo dove c'erano un computer, post-it, trita documenti, penne e qualsiasi cosa servisse per scrivere, un piccolo cestino sotto la scrivania e un muro vuoto che io provedetti a riempire con le foto del nonno o con qualche ricordo felice... Insomma era la mia piccola oasi. Al di fuori di quella, il lavoro era davvero molto difficile. Non pensavo fosse complicato procurarsi un'intervista o semplicemente correre sul posto per uno scoop. Mi ritrovai di nuovo travolto dalla frenesia della Grande Mela, che mi trasportava facendomi ruzzolare pesantemente. Cercai di contrastare quella corrente con tutte le mie forze, sforzi e sacrifici... Ma sembravo proprio non farcela tanto che ad un certo punto rischiai il licenziamento. A quella notizia, sapevo che dovevo darmi da fare. Così mi procurai una piccola barca con cui navigare in quel fiume in piena. Il nome di questa barca era Like you, una rubrica in cui parlavo di cose quotidiane. Sensazione ed emozioni crude... Ci mettevo davvero tanta passione nello scrivere i miei articoli, erano come un estensione di me stesso e a quanto pare questo dovette arrivare ai lettori, poiché Like you divenne presto una delle più lette rubriche del Times. Da lì cominciò la scalata verso il successo che ovviamente non era facile. Se il fallimento era orribile in tutti i sensi, almeno ti conferiva l'anonimato e nell'anonimato sei sempre tranquillo e protetto, invece il successo per quanto possa essere invitante e gratificante, anche questa mela così succosa ha i suoi lati marci. Insieme ad esso cominciarono ad arrivare l'invidia e l'odio. Infatti quelle poche persone che avevo conosciuto in ufficio si allontanarono da me, sostenendo che ero cambiato e che mi ero montato troppo la testa. All'inizio ci rimasi male, poiché, anche se non lo davo a vedere, ero un ragazzo molto sensibile e mi dispiaceva ferire le persone, anche se io davvero non facevo niente di speciale... Mi limitavo a pubblicare e sorridere, a volte commuovermi, ai vari commenti positivi. Solo dopo molto tempo, con l'esperienza e la mia carriera che continuava ad avanzare, mi resi conto che erano solo persone gelose e addirittura nullafacenti, poiché si rifiutavano, avevano paura di prendere una barca come avevo fatto io, e navigare in cerca della propria strada. Così semplicemente, provavano a buttare giù gli altri dalla propria barca solo per sentirsi meglio. Like you, continuò a crescere a dismisura: i lettori aumentavano ogni settimana e così anche lo spazio che occupava sul Times. Dal piccolo paragrafo che avevo in basso, nell'angolo, era passato nella metà superiore del giornale, fino ad occupare un'intera sezione. Ero davvero felice che la gente apprezzasse le cose che avevo da dire, e addirittura arrivarono anche richieste di consigli su come affrontare alcune situazioni. Che fosse un tostapane rotto, un fidanzato oppressivo o un capo stronzo, Like you era diventata una soluzione un po' per tutto. Quando ero al bar e sentivo le persone parlare della mia rubrica, in modo così affascinato e contento, un sorrisone spuntava sul mio viso. Il successo divenne tale, da condermi un posto da direttore e adesso avevo addirittura un team e un reparto grazie a cui, Like you prendeva vita ogni settimana. Alla allora attuale età di ventiquattro anni, ero il più giovane direttore di un reparto del Times. Potevo ritenermi soddisfatto.

Fortunatamente i documenti erano a posto e sospirai sollevato. Uscii dall'ascensore mentre ero impegnato a chiudere la valigetta e ci mancò poco che cascassi, facendo sparpagliare tutti i fogli. Decisi di chiuderla in malo modo e di sistemarla una volta in casa. Pescai le chiavi dalla tasca inserii quella giusta nella serratura, la feci scattare tre volte(mio nonno diceva che la sicurezza non era mai troppa) e finalmente ero a casa. Chiusi la porta dell'appartamento con un calcio e andai subito in cucina dove poggiai le chiavi e la valigetta. Il loft era semibuio e solo le luci di Manhattan e i lampi, illuminavano il posto dalla grande vetrata in soggiorno, dove mi diressi poco dopo lasciando una scia creata dalla sciarpa, il cappotto e le scarpe. Accessi la lampada che si trovava sul tavolino vicino al divano e una luce calda e soffusa creò una bolla di luce, che venne supportata dalla luce di un'altra lampada che si trovava dall'altro lato del divano su un altro tavolino. Mi andai a sedere sul rialzo in legno che c'era vicino alla vetrata e mi appoggiai alla rientranza lì vicino, stendendo le gambe sul rialzo, tenendone però una alzata, così che potessi appogiare una mano sul ginocchio e guardai fuori. Ero umido e a tratti bagnato, per non prendermi  un'influenza avrei dovuto farmi subito una doccia, ma non me avevo voglia. Volevo solo assorbire la tranquillità e il silenzio del mio loft, godendomi lo spettacolo che la pioggia creava sulla vetrata e sul resto della città.

Make him like youDove le storie prendono vita. Scoprilo ora