#2. Gioie passate

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Ci mette poco, Emilia, a inventarsi un ritmo, un'abitudine. La mattina esce di casa, prende il treno e poi la metropolitana, infine va a piedi fino a una casa bianca di Cheyne Walk, che è la sede del International School. Nell'appartamento all'ultimo piano l'aspetta Mr. Johnston, un legnoso professore in pensione con cui è costretta a conversare per tre ore, meno la pausa tè. Gli altri allievi - li vede entrare e uscire dalle piccolissime aule - sono signore e signori di mezza età o anche abbastanza giovani, però tutti con la stessa aria seria. Adulti che non hanno imparato l'inglese a suo tempo, per pigrizia o mancanza di occasioni, e adesso riparano come possono con i corsi intensivi one to one. Se Emilia aveva paura di essere distratta da qualche studente italiano, o anche spagnolo o francese, della sua età, è proprio un rischio che non corre. Mr. Johnston le fa delle domande banali. Le chiede di quando era piccola, di cosa le piaceva fare, dei giochi. All'inizio è difficile rispondere. Poi sempre meno. Emilia si scopre a trovare le parole, sempre di più. All'inizio le deve anche cercare, ovvio: però pian piano cominciano ad arrivare da sole, da qualche punto imprecisato dell'universo. Perché non è un esercizio a scuola, dove devi inventare frasi che non hanno alcun senso: no, lei dice cose vere. E le cose vere trovano la loro forma anche in un'altra lingua. Quando ha finito è stanca, però. Pazzesco come chiacchierare possa costare fatica.
Finalmente libera, qualche volta cammina lungo il fiume. C'è sempre il vento dove c'è l'acqua, come se si parlassero. Oggi, stordita di luce e riflessi, decide di rientrare verso il traffico e il colore di King's Road, tra le mamme belle coi bambini belli su passeggini spaziali e un cane, bello anche lui, al traino. Prende uno di quei mezzi litri di caffè annacquato, già sapendo che ne berrà un quarto, poi un sandwich pieno di cose vegetali che riescono a essere molto sane e molto buone insieme. Mangia issata su uno sgabello alto, guardando dalla vetrina i taxi e i bus che s'incatenano e procedono lentissimi, poi spariscono per un po', poi si riappiccicano, come vagoncini di un treno magnetico per bambini. Fa altri due passi e si lascia cadere su una panchina davanti alla Saatchi Gallery, dove il rumore del traffico arriva attutito. Saranno gli alberi, o il prato impeccabile che alle spalle, ma basta così poco per sentirsi altrove. E la facciata severa e grandiosa del palazzo aiuta. Ci potrebbero dare un ballo, qui, e invece... studia i turisti strani a cui piace vedere le mostre strane. Chi ha fatto un giro anche lei, qualche giorno fa, ed è scappata fuori con un nodo alla gola, c'erano delle foto terribili scattate in Russia, d'inverno, di persone poverissime, disperate. Però è un posto che ancora la chiama, forse ci tornerà con più calma, più forte. Ogni tanto si ha bisogno di farsi scuotere un po'.
King's Road è lo scenario perfetto per la Unit 7: Shopping.
Le piace il negozio di vestiti per bambini con un maialetto nel marchio, ci sono tutte ke misure, newborn, toddler, boy, girl. Un sedile da parrucchiere e uno specchio incorniciato da fiori e macchine: nonostante l'allegria c'è sempre qualche prigioniero che strilla avvolto nella mantellina di plastica. E poi le profumerie, le gioiellerie, i negozi di scarpe e di vestiti. Una libreria di catena, però bella, con l'aria finto antica e tanto spazio per sedersi con un libro in mano, nessuno che ti guardi storto o ti cacci via. Perfetta per quando piove e non hai l'ombrello, l'ha già sperimentato, perché acqua ne viene tanta anche se è estate, la cosa bella è che dopo un po' il cielo si apre, e grazie al vento è tutto asciutto in mezz'ora.
Il pomeriggio è suo. Ogni tanto James la raggiunge o le dà appuntamento da qualche parte, sempre in un posto nuovo. Gliel'ha proposto per aiutarla a orientarsi, e lei non ha potuto dire di no. Non ha voluto, e si stupisce con sé stessa per prima. Lei fa da sola lo sforzo di arrivare a destinazione e aspettarlo - ma tempo due giorni e la mappa della metropolitana non ha più segreti per lei, è così semplice, basta conoscere i punti cardinali, avere una specie di bussola in testa. Northbound, Southbound, Eastbound, Westbound. Tutto qui. Si è confusa solo un paio di volte, in quelle stazioni passanti con un sacco di binari paralleli tipo Earls Court, ma basta stare attenti e anche lì va tutto liscio.
Quel giorno, quando sbuca dalla stazione di South Kensington si trova in una specie di piazzetta piena di ristoranti e bar, coi tavolini fuori. Sembra che a Londra tutti mangino a tutte le ore, come se pance e bocche non fossero mai stanche. A lei mangiare in pubblico non piace, le sembra così personale. Supera la macchia di colori e odori e si avvia verso il museo. Victoria&Albert, la più bella collezione di art&crafts del mondo.
L'appuntamento è nell'atrio, sotto lo stravagante lampadario di cristallo soffiato che sembra un' enorme chioma di Medusa.
Nella penombra James sembra più alto e sottile, la camicia bianca una macchia che gli riverbera sul viso, sui capelli pallidi. Ormai si è abituata a vederlo vestito così, non le sembra più una stravaganza, le piace. Lì dentro, tra le teche che traboccano di tesori antichi, sta benissimo: sembra uno studioso di altri tempi. Imboccano la galleria di gioielli, che è quasi vuota, per fortuna, e il silenzio ben si accorda col buio che fa esplodere le spille, i collier, gli anelli illuminati in modo che ogni colore brilli, che lo smalto luccichi, che le pietre incantino.
Emilia si sofferma davanti alla vetrina delle gioie da lutto vittoriane. "Ma sono fatte di...?"
"Di capelli, sì. Quando ti moriva una persona cara, tu tagliavi una ciocca dei suoi capelli, poi la facevi intrecciare e montare in oro."
Emilia rabbrividisce, poi riflette. "È che subito mi è sembrata una cosa tetra". James la guarda interrogativo. Lei capisce. "Tetra. Grim. Macabra. Ma a pensarci bene è un bel pensiero. Così qualcosa di chi non c'è più resta sempre con te."
Sul viso di James passa un'ombra. "Sì, I suppose. Guarda qui." Attira la sua attenzione verso un'altra vetrina: la collana è festosa, di smeraldi e brillanti. Sembra fatta di zucchero, colorato e trasparente. "Ti starebbe bene. Coi tuoi capelli." E le posa sulla testa uno sguardo che pare una carezza.
Emilia si sente arrossire, meno male che c'è buio. "Ma ci vorrebbe anche un vestito adatto."
"Ce l'ho" dice James, la prende per mano (altro rossore) e la trascina verso un'altra ala del museo. Fashion. Passano davanti a una rapida sfilata di epoche, i vestiti da giorno del Settecento, le crinoline immense dell'Ottocento, abiti da sera fastosi, gonfi, pomposi: dame e cavalieri senza volto, impettiti, abbigliati di tutto punto, che non vanno da nessuna parte, restano sempre lì. Emilia rallenta, James, trattenuto, con lei. "Bisognerebbe liberarli" dice lei in un sussurro.
"Ah, ma la notte qui succede di tutto. Si aprono le vetrine, parte la musica" indica gli altoparlanti celati negli angoli delle pareti, in alto "e ballano tutta la notte. Tu che cavaliere vorresti?"
Vorrei te, vestito come sei, risponde d'impulso Emilia, e meno male che è una voce di dentro, non esce, resta bloccata. Il tempo di pensare una replica leggera: "Quello lì".
E indica un damerino col tricorno e una complicata giacchetta gialla e verde, identica ai pantaloni al ginocchio.
Sta scherzando, con uno così non andrebbe nemmeno al ballo di Carnevale della scuola. James ride, è chiaro che non le crede, e la trascina di nuovo.
Si fermano davanti a un abito lungo di velluto nero, semplice. La gonna scende diritta, appena mossa. La scollatura è bordata da un pizzo delicato, nero su nero. *l"Eccolo, il tuo vestito. Do you like it?"
Emilia si specchia nel manichino, cerca di figurarsi con quell'eleganza addosso e il collier di smeraldi al collo. "Mi sembra un po' serio per una quindicenne."
James ci pensa un po': "Hai ragione." Tornano indietro, lui guida, come prima, e la mano nella mano non è più uno strano peso: sta bene dove sta. Si blocca di fronte a un'altra signora senza volto, un abito bianco, leggero, le maniche quasi trasparenti. "Bello" commenta Emilia, "e più adatto. Ma la collana?"
James finge di riflettere. Torna indietro, sicuro nel labirinto di corridoi e scale, e sono di nuovo tra i gioielli. "Quello. Quello lì." E indica un medaglione che a confronto con tiare e collier è quasi timido, modesto. D'oro rosso, con piccoli fiori a sbalzo, appeso a una catena sottile come un capello.
"Chissà cosa c'è dentro" dice Emilia. "Un messaggio, una scritta, un biglietto."
"O la miniatura di un fidanzato."
"Magari era un capitano di Marina."
"O un colonnello della cavalleria."
"È andato in guerra."
"Ed è tornato. Ferito, ma è tornato. Con la pensione militare non ha dovuto lavorare più."
"Ha sposato la sua Miss."
"E sono andati a vivere in una casetta in riva al mare."
"Rosa."
"No, azzurra."
"Rosa."
"Azzurra."
Emilia ride: sembrano le fate della Bella Addormentata quando colorano il vestito di Aurora e si fanno scoprire dal corpo spione di Malefica. Ma qui non ci sono streghe, la Miss e il suo capitano devono essere saltati direttamente a lieto fine. No, non è vero: si saranno scritti una montagna di lettere, prima. Allora non c'erano i telefoni. Lei sarà stata in pensiero per lui che andava alla guerra. Forse non ha ricevuto notizie per mesi. Poi ha saputo che era rimasto ferito. Poi più niente. Avrà temuto il peggio, e invece.
"A penny for your thoughts." La voce di James la richiama nel mondo.
"Oh, niente. Pensavo alla loro storia. Tutti questi gioielli hanno un passato. E i vestiti anche. I vasi, i tappeti, tutto."
Gira su se stessa, le braccia aperte, a indicare il museo, anche le parti che non hanno visto. "Non siamo un po' ficcanaso, noi? Che diritto abbiamo di infilarci nelle vite degli altri?"
"Be', loro non ci sono più, però le loro storie sono rimaste qui. Ed è bello anche solo immaginarle. Così sono un po' più vivi. Don't you agree?"
Percorrono altri corridoi, altre stanze, più distratti. Le ceramiche cinesi sono belle, ma così lontane, parlano di altri mondi che è difficile anche solo comunicare a figurarsi.
Il tappeto persiano, che s'illumina a tempo perché la luce costante lo sciupa, fa pensare ad Aladino. Forse una volta volava, per questo adesso è così delicato e lo conservano con tanta cura.
In una galleria laterale c'è una mostra dedicata alle scarpe italiane. "Vuoi vederla?" Emilia fa no con la testa.
Dopo tante fantasticherie le sembra che le scarpe non siano importanti, anche se sono italiane, anche se sono belle.
Sono fuori ed è come uscire dal cinema, il passaggio da un mondo all'altro, uno finto uno vero, ma non si capisce quale sia vero e quale sia finto. Vien voglia di tornare indietro per cercare di rimettere ordine nella testa, però anche il pomeriggio è attraente, tiepido  con le foglie degli alberi mosse e scosse dal venticello. Emilia sta bene col golfino sopra la maglietta e i capelli spostato dall'aria, le piace questo tempo che non è né caldo né freddo, si sente leggera, sospesa.
James guarda l'orologio: "Accidenti, è tardi, non mi ero accorto. Il tempo vola. Devo tornare a casa."
Emilia cerca di mascherare la delusione. Le sarebbe piaciuto cenare con lui. Peccato, vederlo andare via e diversi preparare una cena solitaria e leggera, coi signori Russell già chiusi nella loro camera e il biglietto sulla console nell'ingresso, scritto con una grafica leggera da ragno, We already had our tea, thank you, we'd better go rest now, nite nite, darling. Notte notte. È presto, ma qui fanno tutto presto, compreso nutrirsi, e tanto meglio, poi resta ancora un bel pezzo di sera da riempire, c'è da leggere, ci sono i messaggi da mandare a casa misurando bene le parole: precisi e rassicuranti, ma non troppo entusiasti perché altrimenti non ci crede nessuno e cominciano le domande, stai bene, mangi, dormi, la scuola come va. Bisogna anticipare me domande per eluderle. Tutto a posto, oggi V&A, le lezioni bene, capisco tutto, prendo la Tube da sola. E con chi a dovrebbe prendere, dato che ha chiesto e ottenuto una vacanza senza altri ragazzi? Non può parlare di James, si insospettirebbero, penserebbero che è impazzita e forse avrebbero ragione, vorrebbero sapere chi è. Mi mancate. Un tocco affettuoso per dissipare i dubbi e metterli tranquilli. Che poi è vero, è sempre vero, lei vuole bene alla mamma e al papà, loro tre stanno bene quando sono insieme, lei si sente al sicuro, al centro di qualcosa di piccolo e protetto. Ma mentre lo scrive si rende conto che in questo preciso istante non vorrebbe essere altrove. Che sta bene dove sta. Una novità gigante che la lascia senza parole.

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