"Non è la stagione migliore, devi vedere a primavera."
Davvero? si dice Emilia. Se è meglio di adesso non riesco a inmaginarmelo. E invece ci pensa, e se lo figura, ci riesce eccome: i prati coperti di giunchiglie, daffodils, le è sempre piaciuta quella parola così sonora, spazzolato dall'aria fresca, l'allegria dei primi giorni più lunghi e più azzurri, quando credevi che non sarebbe tornata, e invece eccola qui. If I Winter comes, can Spring be far behind? Se viene l'inverno, può la primavera essere lontana? Certo che no. La fatalità delle stagioni.
Che pensieri seri. Per fortuna ai Kew Gardens ci si distrae facilmente, con tutto il colore e il movimento che ti entra negli occhi: ci sono le famiglie coi bambini al pascolo, foglie dappertutto, un verde che fa quasi male a guardarlo, tutta quella pioggia leggera compie il miracolo di tenere ogni cosa fresca come se fosse nuova. Emilia pensa all'erba stanca nei giardini di Milano, ai rami impolverati, e un po' le dispiace perché si sente parziale, qui le sembra tutto più bello e così è facile, fin troppo.
"Ti piace l'Italia?" chiede a James. Lui la guarda e non risponde. Ah, sicuro, il patto. Riprova.
"Do you like Italy?"
"Certo che sì." Dei due, lui è autorizzato a parlare italiano e lei ha l'obbligo di esprimersi soltanto in inglese.
Di solito cominciano bene e poi a un certo punto il patto s'incrina e fanno tutti e due una gran confusione. "Anche se non vengo più tanto spesso. Prima, quando ero piccolo, ci passavo anche due mesi tutte le estati. Poi i nonni sono morti."
"I'm sorry" dice Emilia. Lui guarda da un'altra parte per un istante lunghissimo. "Però hai ancora i nonni Russell."
Lo sguardo resta lontano. "Andavamo un mese al mare e uno in montagna. Mi godevo tutto, tutto. Il caldo... qui può fare molto caldo, ma di solito dura pochi giorni, e ci sono anche stagioni orribili, lunghe. E invece quell'afa che ti preme addosso e non hai voglia di fare niente, ma proprio niente..."
"Non pensavo che potesse piacere a qualcuno" scherza Emilia.
"E certe cose da mangiare. La focaccia. La pizza del panettiere. Le verdure. Tu non sai come siete fortunati con tutte quelle verdure vere."
Emilia fa una smorfia. Lei mangia di tutto senza problemi, ma l'idea che si possa provare qualcosa di simile a una passione per le zucchine o i peperoni la lascia perplessa.
"Hanno dei colori che sembrano dipinte. Nonno Francesco teneva l' orto, io lo aiutano ad annaffiare, la sera. I pomodori staccati e mangiato col sole sulla buccia, tiepidi."
Si perde in un suo ricordo, diventa serio. Sorride di nuovo.
"E poi mi piaceva fare il bambino straniero. L'inglesino, mi chiamavano, ero il cocco delle mamme, e anche delle loro figlie." La guarda ammiccando, lei scuote la testa, ride.
Non fatica a vederselo circondato da una frotta di aspiranti fidanzatine. Così pallido, pensa Emilia, chissà quanta attenzione a non scottarsi. Una mamma che insegue un bambino brandendo un barattolo di crema, lui che scappa, lei che lo prende, lo abbraccia, ridono. "Il fascino del pallore" dice Emilia. "L'abbronzatura è volgare" scherza lui.
"Fattore protezione 50?"
"Anche di più, per mantenere quest'aria tenebrosa."
"Da vampiro, diciamolo."
"Infatti tu non sai che rischi corri."
Lo sa, Emilia, lo sa eccome. A fidarsi si corrono sempre rischi.
Come quando pensava di essersi lasciata dietro lo strazio delle elementari, l'insopportabile banalità delle prese in giro, sempre le stesse. Soltanto perché le piaceva mettersi in un angolo per conto suo, perché era silenziosa e non amava i giochi nella polvere del cortile, le corse, il rumore continuo. Preferiva stare a guardare, e che male poteva esserci? Signorina Sottovoce, la chiamavano. Ma alla fine erano chiacchiere innocue, innocenti, in confronto a dopo. Lo strazio moltiplicato delle medie, la cattiveria che da generica si fa affilata. Adele, lei sì sempre al centro del mondo, precisa come un chirurgo: "Sotto sotto non c'è niente. Una che non dice mai niente è perché non ha niente da dire. E allora noi non le diciamo niente." Le altre, tutte, un mucchio informe, un gruppo, un disordine di pianetini attorno alla stella Adele. Che poi che razza di nome è, sa così di vecchio. Lei però sempre nuova, le scarpe che non ha nessuno, i vestiti più strani. E le altre dietro. La loro complicità imbattibile, come un muro sempre più alto, impermeabile. Le feste sentite come in un'eco lontana, code di frasi impigliate, l'euforia del venerdì, l'allegria trascinata del lunedì. Divertite tanto. Quello bellissimo di terza. Visto un bel film. Al concerto. Solo noi.
Solo loro e lei no.
"Vedrai che andrà meglio" le diceva la mamma, sempre di corsa, sempre un po' distratta. Un sorriso veloce, una stretta, la valigia pronta, "ci vediamo sabato, andiamo al mare, un bel fine settimana in famiglia. Un giorno ti rifarai, sei così carina. Un giorno ti vendicherai."
Ma io non voglio vendicarmi. Non voglio niente un giorno. Voglio adesso. Essere come loro, fare parte del gruppo. Ridere nello specchio del bagno, mettermi il rossetto di nascosto, una canottiera con le stelline, le scarpe da tennis con le borchie. È così difficile capirlo?
Ci provava con tutta se stessa. E quando ci provava c'era sempre qualcosa di sbagliato. O forse era troppo giusta, e non andava bene nemmeno quello. Lo sguardo pesante di Adele che le radiografava i jeans, il golfino stampato a marziani, la riga minuta di eyeliner data cento volte sbagliata, cancellata, e la centunesima finalmente sì. Un pungere di gelosia, e le spalle voltate, ancora una volta, ancora. Le sue e poi quelle di tutte le altre.
E poi i litigi. Con la mamma, il papà, tutti e due insieme. Non dire le cose, tenerle per sé finché non si gonfiano ed esplodono. La sorpresa e la tristezza nei loro occhi. Loro che non c'entravano niente, niente. Alla fine, pensa, saranno contenti di avermi spedita via.
"Ehi, sei qui?" Cammina cammina, come in una fiaba sono dentro la Waterlily House. James le passa le dita davanti agli occhi. Emilia si ritrae, sorride, torna presente. "A fairy pond" dice, senza riflettere, e se le immagina veramente, le fate che in quello stagno fatto apposta per loro saltano da una all'altra delle foglie enormi, tonde, coi loro bordi rialzati come piatti da portata o sicurissime zattere. L'umidità è penetrante, le sembra di avere già una pellicola di goccioline sulle guance, sul naso. "Scommetto che a stare qui dentro viene una pelle bellissima" dice, e James alza il dito: "In English, please." Troppo complicato, richiede uno sforzo che non può vincere quella mollezza in cui sta sprofondando.
È bello, così, dimenticare.
Pensare che la vita prima di prima non esiste più, non è mai esistita, e anche se c'è stata è così lontana da non sembrare più un pericolo o una minaccia. Pensare che esiste solo il presente, e questo ragazzo gentile sempre impeccabile nella sua giacca scura, così diverso da tutti gli altri con le loro magliette colorate che urlano scritte e le felpe col cappuccio che li fanno sembrare monaci di un ordine disordinato. Le cadono gli occhi sulle scarpe di James, strane anche quelle, coi lacci ma leggere, scarpe da ballerino. E ancora ricorda, va indietro, perché alla fine la mente fa i salti che vuole e se vuole riportarti là sicuro che ci riesce, legando insieme cose diversissime.
Anna portava le scarpe di Michael Jackson, solo quelle, sempre. Le Repetto allacciate bassissime e morbidissime. Scarpe strane. L'aveva detto subito Adele, senza perdere tempo: "Ma come si concia quella?"
E lei, in difesa: "Quella ha un nome, sai?"
Anna. Sembrava che fosse tutta lì, in quel nome semplice, trasparente. Semplice e trasparente anche lei. A Emilia aveva ricordato subito la protagonista di un libro che un paio di anni prima aveva adorato: Stargirl di Jerry Spinelli. "Quella lì è svitata" insisteva Adele. "Guarda un po' come va in giro."
I vestiti morbidi, le gonne lunghe, oppure i pantaloni larghi, e quelle buffe scarpe con i calzini che ci si afflosciavano sopra. Tutto il contrario delle altre, così impegnate a strizzare e scoprire che sembrava fosse la loro missione, chiudersi in vestiti così stretti da farle esplodere fuori, o alzare gli orli - quelle mini assurde, quei pantaloncini soffocanti. Emilia la osservava incantata, e una volta gliel'aveva anche chiesto: "Ma dove le prendi queste cose?", sfiorando la stoffa a disegnini viola di una gonna alla caviglia. "Un po' online sui siti americani, un po' nell'armadio di mia mamma. Per fortuna casa di mia nonna è grande, e lei è una conservatrice, ha tenero tutto." Emilia se l'era immaginata, gli sportelli dell'armadio spalancati e lei mezza infilata dentro che frugava e ogni tanto usciva trionfante con qualche capo bizzarro e bellissimo tra le mani. Le sarebbe piaciuto esserci, farle compagnia, ma non ce n'era stato il tempo. Finita la seconda media Anna era andata via. Colpa del lavoro del padre: appena l'occasione di cominciare a conoscersi, gli intervalli sempre insieme virgola con le altre che le studiavano a occhi socchiusi, ma stranamente non usavano parlare, era l'effetto Anna, la magia Anna: guardatemi e state zitte. Gli inviti per i compiti - Anna abitava in un residence tutto grigio e beige, troppo perfetto per essere vero, e alla fine stavano sempre da Emilia; al cinema, una volta: i giri ai giardini, insieme, da sole. I video guardati insieme, scambiati, condivisi. Un libro o due. "Stargirl? Mai sentito, grazie, lo leggo volentieri." E poi basta.
Anna si era stretta nelle spalle, cercando di giustificarsi. "I miei sono irrequieti. Io ci sono abituata. Mi piace vedere il mondo."
"Ma non è difficile, cambiare tutto così spesso?" Non è difficile andare via da me?
"Sono una vagabonda curiosa" aveva detto Anna con semplicità. "Vieni a trovarmi, se ti va. Sono tre ore di treno, cosa vuoi che sia."
Tre ore, un mondo intero. C'era andata, una volta, il Natale dopo, in viaggio da sola per la prima volta, ed era stato bello perché non era cambiato niente. "Mi è piaciuta, la tua Stargirl" le aveva detto Anna - era il regalo d'addio, no, di arrivederci che le aveva fatto.
Perché è come te. Perché sei tu, avrebbe voluto dirle Emilia. Ma non c'era riuscita nemmeno quella volta. E poi l'avevano capito tutte e due che erano troppo lontane per continuare a essere quelle di prima. Si sentono ancora, ogni tanto. Forse si riacchiapperanno da grandi, se lo sono promesso. Chissà.
Emilia ha camminato come in trance ripensando ad Anna e al tempo insieme, lasciandosi guidare, e infilando la rampa di gradini si è risvegliata: gradini? in un parco? Strano che James non le abbia fatto notare quel silenzio così lungo da sembrare sgarbato. Ma forse sono tanto riservati, gli inglesi, che la riservatezza a loro non pare nemmeno un difetto.
"Dove siamo?"
"In cima al mondo."
Un mondo fatto di foglie in movimento. Sono dentro una specie di corridoio sopraelevato che sfiora le cime degli alberi. "The Treetop Walkway" dice James facendo un gesto con la mano come se la accogliesse a casa sua, o meglio, nel suo palazzo, un palazzo verde e mobile, sospeso. Che poi non è un palazzo, è un tunnel scoperchiato di metallo e vetro che passa nel bosco senza disturbarlo. Il metallo è arrugginito, color corteccia o foglia d'autunno, mimetico. Il vetro è vetro, fatto per non vedersi. Si fermano, appoggiano le braccia sulla balaustra e guardano la città in lontananza con i suoi cubetti di cemento che sfumano nella foschia. Vicino ci sono i rami che ti accarezzano, gli uccelli cantano più forte, a distanza di un braccio. Emilia capisce che cosa devono provare, più di quando vola in aereo, perché dove arrivano gli aerei gli uccelli non salgono, è questa la loro altezza, un'altezza giusta da cui le cose brutte sembrano molto lontane e quelle belle abbastanza vicine da potersele godere fino in fondo. Il cielo, l'orizzonte, e tutti quegli alberi.
"Incantevole, vero? Io ci vengo sempre quando voglio dimenticare."
Quella strana pausa prima della parola difficile. Forgive, no, forget. Se li confonde sempre, quei due verbi. Perdonare, dimenticare. In italiano non c'entrano niente, non si può sbagliare. In inglese le succede spesso. Anche lui ha qualcosa da dimenticare? Emilia si sente all'improvviso sgarbata, distratta. James l'ha portata fin lì, un posto fantastico, una scoperta, e lei non fa che pensare a se stessa, alle cose del passato, invece di godersi il presente assieme a un'altra persona così gentile e attenta da occuparsi di lei anche se è una sconosciuta, o quasi. Arrossisce. "Feeling hot?" premuroso ma anche perplesso: lassù fa fresco, quasi freddo, perché è uno di quei giorni maculati e il sole entra ed esce dalle nuvole cambiando di continuo la faccia del mondo. "No, no, è solo che..." Niente, non può scusarsi adesso, suonerebbe la sciocca che è.
"Non me l'aspettavo, ecco."
"Lo so, la prima volta fa sempre quell'effetto." E sorride fra sé. Emilia si rabbuia: quante persone ci avrà parlato? Quante ragazze? Poi caccia via quel pensiero fastidioso ma anche fuori luogo; non ha il diritto, ecco.
Da quel momento in poi - da quando si ricorda che accanto a lei c'è una persona in carne e ossa, presente, sensibile, a cui prestare attenzione - va tutto molto meglio.
Finiscono la passeggiata in quota con James che le spiega: "Sono centodiciotto steps, gradini, per salire in cima. L'hanno disegnato gli architetti del London Eye. Non fare quella faccia, non ti ci porto, sul London Eye, lo so già cosa diresti: che è una cosa da turisti." Emilia fa una risatina: indovinato. Scendono di nuovo in silenzio, lasciando sciamare in avanti una frotta di bambini che precedono un piccolo gruppo di adulti intenti a chiacchierare. Devono penare per un attimo - ancora - la stessa cosa, e alla fine è James che lo dice: "Un bel posto per una gita con la famiglia, vero? Ma io ho dovuto crescere per scoprirlo da solo."
Emilia cerca di attenuare l'amarezza della frase: "Per forza, Londra è così grande, ci saranno migliaia di cose da fare prima di arrivare a questa, no?"
No. James è serio, guarda dritto davanti a sé, le mani in tasca. Sono tornati sul viale che si snoda verso una bellissima serra dalla struttura bianca: un palazzo in versione ultraleggera. "Sono tante le cose che non abbiamo fatto." Emilia pensa alla sua, di famiglia: a parte la fretta perenne, la sensazione di vivere sempre di corsa, saltando da una cosa all'altra, casa-scuola-corso di musica-scuola di danza-casa, e poi i sabati e le domeniche via e le vacanze infilate quasi a forza nel calendario, non si sente così severa. La mamma dice che è colpa della città, e forse ha ragione. Semmai l'idea è che di cose ce ne siano sempre troppe tutte insieme, il che spiegherebbe almeno la fretta. Ma non ha voglia di spiegarsi. Tace e aspetta. Infatti è James a continuare: "I miei...be', non sono mai andati fino in fondo perché si vogliono bene e sono troppo pigri per lasciarsi veramente. Ma ognuno fa la sua vita, ha la sua casa. È così da sei anni. Io ero già grande quando hanno deciso to split, di separarsi. Tim ha fatto più fatica di me ad accettarlo. Per un pezzo non ha nemmeno capito."
Una risata senza allegria. "Credo che non volesse capire. Diceva il papà ha cambiato casa ma adesso andiamo tutti da lui, vero? Come se fossimo a metà di un trasloco. Le nostre cose un po' di qua un po' di là, e niente regole, niente fine settimana stabiliti. Veniva come veniva. Anche adesso. Viene come viene. Ma i bambini hanno bisogno di sapere. Hanno bisogno di cose chiare. E così, insomma, lui..."
Le ha già parlato del fratello che ha una certa inclinazione per i guai. Sfonda vetrate con la testa, vola dalle scale, eccetera. Finisce spesso al pronto soccorso, troppo spesso, secondo James. Ma i ragazzini sono così, aveva detto Emilia ascoltando l'ultima disavventura, un polso fratturato cadendo dalla bicicletta lanciata in volo folle al campo da cross. Così come? E comunque il campo era per le moto, aveva detto James. E lì Emilia si era zittita, anche perché di ragazzini non sa niente, a ben vedere. Fratelli zero, cugini pochi, lontani, incontrati solo in vacanza, e femmine, comunque.
"Lui ci gioca un po', con la confusione. Ne approfitta."
James sospira, cambia discorso, forza il sorriso. "Ice cream?" Il bar-ristorante è una distesa di buffe punte bianche, una specie di dimora elfica sotto un gruppo di alberi grandi; i gusti sono quelli consueti, ma ce ne sono anche di strani: lavanda inglese, caramello salato... Da assaggiare, la curiosità prima di tutto. Offre James, sempre così cortese; lui prende un caffè. "Hai visto? C'era scritto che le nocciole vengono dal Piemonte."
"È vicino casa tua?"
"No, ma sono contenta lo stesso."
Ridono insieme, e adesso è una risata vera, condivisa, nata per niente, fatta di niente. Come le migliori, insomma.
Sul bus che li riporta verso la fermata del treno - un vero viaggio per arrivare fin lì, un secondo viaggio per tornare a casa, però ne è valsa la pena - Emilia appoggia la fronte al finestrino e pensa che non è stata una giornata perfetta, no; si è sentita a disagio, ha ascoltato cose dure, che l'hanno fatta riflettere, ha ripensato a cose faticose che sono ancora, sempre con lei. Però adesso sta bene, un po' è lo stordimento, un po' questo modo facile di farsi compagnia che hanno trovato lei e James, e le sembra comunque una conquista, qualcosa di prezioso da tenere stretto - non troppo, per non soffocarlo. E poi si dice che forse le giornate perfette non esistono, un giorno è troppo lungo per poter aspirare a essere tutto magnifico. Esistono i momenti perfetti, di solito te ne accorgi dopo averli abitati, e a volerli ripercorrere non puoi dire di cosa sono fatti. Meno male, perché sennò qualcuno avrebbe già inventato la ricetta e l'avrebbe messa in vendita, e invece ci sono anche cose che non si possono comprare né costruire, ci sono e basta. E forse non vale nemmeno la pena di dar loro troppo peso, altrimenti diventano leggendari, e si perde un sacco di tempo a cercare di ricordarseli nel dettaglio e magari così si rischia di non vedere quelli nuovi che spuntano come certi fiori che restano aperti solo poche ore, anche meno.
Come adesso. Se lui le dicesse "A penny for your thoughts" come ha fatto l'altro giorno al V&A, lei penserebbe che è una cosa tenera, un po' da cinema, ma insomma, comincia a diventare un'abitudine, e non avrebbe voglia di rispondere, e forse sarebbe anche un po' seccata all'idea di dover mettere parole in questa stanchezza buona. Invece lui sta zitto, lei anche, si godono la pace, e poi ecco che sono alla fermata del bus, e basta, è stato un bel momento, forse perfetto no, ma bello sì, perché c'è una grande libertà nel non dover parlare sempre, e insomma, anche i momenti solo belli vanno colti e messi via come fiori da schiacciare dentro un taccuino, finché diventano fragili e trasparenti e se provi a prenderli ti si sbriciolano fra le dita, e quindi devi lasciarli lì e più ti dimentichi di loro più stanno al sicuro, solo che se sono così belli e preziosi al sicuro non ci stanno mai.
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???? Il fantasma sei tu ????
General FictionEmilia, quindici anni, è ospite a Londra degli anziani Russell per una vacanza-studio. Ha voglia di stare isolata, le sue buone ragioni per desiderarlo e il fatto di non sapere granché l'inglese le consente di star chiusa in una bolla. Ma a insidiar...