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ROMA, febbraio 2016


Lorenzo portava riccioli bruni scompigliati sulla testa e una sciarpa leggera e blu al collo. Nella borsa di Tolfa teneva i libri, gli appunti e le foto digitali che gli ricordavano un passato lontano; era prima di tornare a Roma, per vivere senza mare e senza amore.

Lorenzo si manteneva grazie al suo Blog di inchieste. Era cresciuto senza disciplina, se n'era costruita una tutta sua a forza di innamorarsi dei personaggi dei romanzi di Pirandello e poi di Camilleri.

Quel giovedì piovoso e glaciale, c'era stato un sit-in in Centro e l'amico di Lorenzo - in arrivo dall'assolata Sicilia - si era dovuto muovere con i mezzi perché di andarlo a prendere in macchina alla stazione non se ne parlava proprio. E poi la conferenza "Come possiamo fermare la mafia in Sicilia" era iniziata da un'ora. Lorenzo aveva un'ossessione per il crimine mafioso e i suoi derivati barra effetti collaterali.

La sala del teatro Avila a pochi passi da Piazza Fiume era piena zeppa. La usava l'università per alcune lezioni della facoltà di Sociologia e di Scienze della Comunicazione.

Lorenzo s'era infilato in terza fila, deciso ad ascoltare – e a intervenire, se necessario - il relatore invitato dal suo ex-professore di Psicologia Sociale con cui quell'anno avrebbe discusso la tesi.

C'era un brusio generale, però, inevitabile al pari della risacca al mare che si muove lenta e rapida insieme, e che sotterra pure il rumore del vento. A nessuno fregava una fava della conferenza sulle mafie ma la presenza era essenziale per l'ammissione all'esame di alcuni e per la tesi di laurea di altri; il vociare di sottofondo era un flusso impossibile da ignorare per l'unico studente, lui, che non voleva perdersi una parola.

Il relatore, uno con i baffi folti e il bastone al fianco, esperto di mafia italiana, stava sul palco da un'ora a spiegare che la Sicilia degli anni novanta sequestrava in tutta l'Italia meno che in Sicilia, perché non voleva perdere voti e consenso popolare.

Ma non è mica vero, pensava Lorenzo.

Salvatore, il suo amico, era arrivato da Palermo la mattina stessa, in ritardo e trafelato, per colpa del sit-in e del passaggio mancato. Non era abituato agli scioperi romani e nemmeno ai romani. Era una specie di sociologo pluri-bocciato che si faceva aiutare da Lorenzo via Skype. Uno studente fuori corso e fuori sede, ma più che altro fuori di testa. Con i capelli lunghi come la Panicucci da giovane e la giacca presa in prestito ai punk a bestia degli anni ottanta, gli parlava nell'orecchio. Sussurri continui e costanti e rigorosamente in dialetto, lo faceva apposta.

«A carusa mi facìeva l'ùocchi dolci. Sul treno, dico. Avìa u senu ranni comu cocomeri maturi».

«Ma non puoi parlare in italiano, Salvo? Hai detto cocomero? Io non ti capisco mica.»

Non era vero neanche questo. Lorenzo il dialetto siciliano lo capiva benissimo. C'aveva vissuto, in Sicilia. A Palermo, per la precisione. Ma anche da ragazzino si rifiutava di parlare in dialetto, fingendo di non capirlo, e Salvatore lo sapeva, erano cresciuti insieme.

«Sei un futuro giornalista e non capisci ancora i dialetti del paese tuo?», questo, il collega, lo aveva chiesto in italiano.

«Appunto. Futuro.»

«Allura chi ci fai cca?»

Bella domanda. Nemmeno Frizzi all'Eredità l'avrebbe formulata meglio.

Lui era diventato un blogger molto conosciuto già a vent'anni, al primo anno di università. Un milione e mezzo di visualizzazioni nel suo canale Youtube per la video-inchiesta scomodissima che gli era valsa un rimbalzo epico sui social tanto da imbrigliarlo in un lavoro che nemmeno voleva fare veramente. L'inchiesta sui cassonetti divelti di proposito a Torbella, e non per sporcare ma per nasconderci messaggi tra latitanti, codici, pizzini. Era una fantasia quasi totale, ma gli avevano creduto pure i netturbini di Roma che erano stati inviati dall'allora sindaco Marino a rastrellare le aree più sporche. E siccome non avevano trovato niente, si era detto che i ricercati di zona avessero cambiato strategia dopo l'articolo di Lorenzo Lopresti, lui.

In realtà il suo sogno era diventare uno 007 per poi andare a giustiziare tutti i capi mafia latitanti nel mondo. Alla fine si era ritrovato a dare esami e a pubblicare articoli invece che a fare Jason Bourne. E sì che le arti marziali le aveva pure studiate ma con scarsi risultati. Era più un picchiatore da bar che da dojo.

Era arrivato in Sicilia a sei anni, a vivere col nonno materno, ed era cresciuto con la rabbia di un orfano per colpa del divorzio tra genitori esauriti. Nella scorticata periferia palermitana stava con la birra in mano tutte le sere prima di una rissa che puntualmente arrivava e produceva occhi neri e nocche spaccate. Aveva visto più sale di pronto soccorso che pub, in quegli anni.

Appena maggiorenne e con la patente in tasca, era diventato per gli amici palermitani Il Santo perché spaccava facce con la foga del disperato ma poi portava tutti a ricucirsi. Lo faceva con la sua Alfa Romeo di terza mano senza badare a benzina e semafori, sempre pronto a soccorrere quelli che aveva sdraiato con i calci imparati al dojo. Gli costavano care, le botte che dava, perché dopo si sentiva in colpa e faceva comitive di feriti da salvare. Ma adesso era tutto diverso.

Da cinque anni era tornato a vivere e a studiare a Roma, la città in cui era nato. E a Palermo ci aveva lasciato il cuore e pure l'anima, a Palermo ci aveva lasciato Anna. 

SOTTO QUALE STELLA ti verrò a cercareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora